Su concessione dell'editore, pubblichiamo un estratto di "Maradona: non sarò mai un uomo comune. Il calcio ai tempi di Diego", di Gianni Minà, uscito per Minimum Fax.
«A quarantacinque anni mi sento un uomo rinnovato, Gianni. Rinnovato perché ho avuto tanti problemi, ma mi sono rialzato grazie all’aiuto delle mie due figlie, Dalma e Giannina. Se penso che loro due sono qui, e che io sto parlando con te... Ero praticamente morto. Dalma mi ha raccontato che la piccola Giannina, quando il cuore mi si era quasi fermato, ha esclamato: “Papà non mi lasciare, io sono piccola”».
Il Diego Maradona che ho davanti ha un viso quasi disteso, è dimagrito, lucido, appassionato. Sembra davvero che abbia vinto la sua battaglia con i mille problemi, fisici e psicologici, che lo hanno portato a un passo dalla morte. Mi viene spontaneo chiedergli come ce l’abbia fatta: se sia dipeso dalla sua volontà o da una sorta di benedizione divina.
«Credo che Dio non mi voglia là sopra perché faccio casino! Diciamo allora che non è ancora giunto il mio tempo. Credo che andremo tutti nello stesso posto, però per adesso non mi hanno voluto o non mi ha voluto il Signore. E comunque, io non ho fatto male a nessuno, ma ne ho fatto tanto a me stesso. Forse è per questo che Dio mi ha dato un’altra possibilità. I giornali hanno scritto che sarei andato a Cuba in un ospedale psichiatrico, ma non è così che stanno le cose. Hanno curato la mia alimentazione, il mio regime di vita, ma gli psicologi no, non li ho mai accettati. Per come la vedo io, lo psicologo è venuto al mondo per migliorarlo, ma il mondo è ogni giorno peggiore».
(...) «Lo so che i giornali mi hanno descritto come un caso psichiatrico: del resto, per vendere direbbero qualunque cosa... Io però non sono matto: semplicemente, non potevo lasciar passare altro tempo senza stare con le mie figlie. Prima avevo tutto il denaro del mondo, però non avevo il tempo. Adesso ho molto meno denaro ma ho il tempo per dedicarmi a Dalma e Giannina. E questo è quello che ho guadagnato, quello che ho conquistato, quello che mi intriga di più. Perché adesso passo molto tempo a parlare con le mie figlie, che ne hanno bisogno. Sono andato con Dalma a Cannes e la sorella era gelosa. Mi piace, questo. Questa ora è la mia vita, che non ho saputo prendermi prima, Gianni».
Mi domando, e gli domando, se ci sia stato un momento preciso nel quale qualcosa gli è scattato nella testa. Sto pensando al Diego triste, grasso, abbandonato che avevo visto in certe immagini televisive, e al Diego che ora ho davanti, in forma, lucido e combattivo. «In realtà no, non c’è stato un momento preciso. Io volevo rimettermi bene, ero grasso, già non mi facevo più di droga. Avevo deciso di fare un intervento perché avevo la pressione e la glicemia alte... Stavo male perché è una specie di catena, una cosa porta l’altra. Ma in fondo già stavo bene, non prendevo più la droga. Era un anno e mezzo, ormai. (...)
«Però sai, una cosa è Claudia e un’altra sono Dalma e Giannina! Ogni tanto mi domandano se ho un altro amore, oltre Claudia. Io dico che ho solo due fidanzate, e che sono loro due. Non ho il sogno di un’altra donna. Veramente. Ora ti racconto una cosa. L’altro giorno ero a Cannes con Dalma. Lei vuole diventare attrice, adesso in Argentina sta facendo Cappuccetto rosso in teatro e io le domando tutti i giorni come vanno le prove. Mi racconta tutto, parla con me. E insomma, l’altro giorno siamo andati a una festa e io ho ballato con Salma Hayek. A un certo punto è venuta Dalma e mi ha detto: “Papà, andiamo”. Però io non volevo essere irrispettoso con Salma Hayek, perché era lei che mi aveva chiesto di ballare, quindi ho continuato facendo finta di non sentire e lei mi ha detto, “Papà, dammi le chiavi che me ne vado da sola”. L’ho detto a Salma, che mi ha risposto: “Vai Diego, vai”. Sono andato con mia figlia a dormire, ma prima le ho messo i piedi nell’acqua calda perché le facevano male. Mi ha detto: “Papà, perché voleva ballare con te?” A me è piaciuto molto che, per la prima volta in vita mia, mia figlia fosse gelosa di me. Non esagero, Gianni: ero l’uomo più felice del mondo! Anche Salma Hayek mi piace, ma che mia figlia mi abbia portato via così, in quella maniera... te lo racconto e mi sento orgoglioso. Per questo non esiste nessuna donna al mondo che mi possa far dimenticare l’amore per Dalma e Giannina».
Davanti alla serenità e alla gioia con cui mi racconta delle figlie, mi sento autorizzato a cercare di ripercorrere con lui un’avventura di vent’anni nella quale ci siamo trovati spesso a parlare, cominciando dal suo trasferimento a Napoli. In un’occasione, Diego mi aveva detto che il suo malessere se lo portava già dentro, e che tutto era cominciato a Barcellona.
«In realtà avevo già cominciato al Boca Juniors, tanto tempo fa: avevo ventidue anni. Insomma, di tempo ne ho perso tanto, ma la dipendenza è una malattia. Se non avessi preso quello che prendevo, oggi sarei qui a parlare di qualcosa di diverso. Finché era un divertimento stavo bene, in fondo, perché non facevo male a nessuno. Quando è passato il divertimento e ha cominciato a essere una dipendenza... a quel punto ho iniziato a far soffrire la gente alla quale volevo molto bene».
Gli chiedo se dietro la sua dipendenza non ci sia stato anche il fatto che a Barcellona si sentiva escluso o trattato da sudaca (un dispregiativo che in Spagna viene riservato ai sudamericani). Se Napoli lo abbia aiutato o non abbia solo accentuato il disagio che si portava dietro dai tempi della militanza nel Boca. Ma Diego è inflessibile, prima di tutto con se stesso. «Se c’è un colpevole di quello che mi è successo, quel colpevole sono io. E le situazioni me le sono risolte da solo a quindici anni, a trenta, a quarantaquattro. Continuo a decidere il bene o il male della mia vita. Da Napoli, per essere chiari, ho ricevuto solo ringraziamenti e in alcuni casi manifestazioni d’affetto. Tutto quello che ho fatto, l’ho fatto io. Napoli non mi ha spinto a niente». Gli ricordo un episodio del 1986. Alla vigilia di quel meraviglioso Mondiale nel quale quasi da solo avrebbe trascinato l’Argentina alla vittoria finale. Avevamo realizzato insieme un documentario lungo un’ora, dove, senza dirmelo esplicitamente, Diego mi aveva messo sull’avviso con una sincerità quasi autolesionistica. Mi aveva fatto capire che stava succedendo qualcosa nella sua vita, che a Napoli non sempre era in grado di scegliere, o di dribblare certe situazioni. E lui mi risponde, con la solita chiarezza e senza mezze misure. «Napoli è stata una gabbia per me, una gabbia che a volte era buona. C’erano tanti divertimenti, però noi eravamo lì come giocatori, per far felice la gente. Io ho un solo grande rammarico, ed è legato al giorno in cui qualche anno dopo me ne sono andato, o meglio, al giorno in cui il presidente Ferlaino mi ha cacciato via. Le bambine e Claudia piangevano. Io no, perché volevo mostrarmi forte, ma avevo una voglia di piangere grandissima. Nessuno si è domandato perché tutto quello che è successo... è successo. Semplicemente qualcuno ha detto: “Per noi Maradona è morto perché è stato trovato positivo al doping”. Io invece me ne sono andato e ora qualcuno insinua che mi sia dimenticato di Napoli, ma io non rimprovero i napoletani, per questo. Io voglio ritornare a Napoli, e voglio che Napoli sappia che io me ne sono andato, però solo dopo aver regalato qualcosa di consistente alla città!
«Mi capita ancora di parlare con amici come Salvatore Bagni, Bruno Giordano, Eraldo Pecci, e guardando a distanza quello che facevamo ogni giorno sul campo... be’, siamo stati grandi. Noi abbiamo lottato per cose diverse: per unire la città, per farla rispettare da tutta l’Italia. Per questo qualcuno può anche permettersi di dire: “Maradona si è dimenticato di Napoli”, ma mi chiedo come possa averlo fatto se l’ex presidente Ferlaino vive ancora a Napoli! Sì, Ferlaino! Lui non mi ha dato nulla, non mi ha dato nemmeno una palestra per i miei compagni. Si è mangiato tutti i soldi. E io dovrei sopportare la gente che dice: “Perché Maradona non viene a Napoli? Che gli abbiamo fatto?” È dura. Non per me, sia chiaro: io sono forte abbastanza per sopportarlo, ma non posso dimenticare le mie figlie che piangevano perché non volevano lasciare Napoli». Torno con lui sul sorteggio antidoping della partita Napoli-Bari, e sulle molte stranezze che lo hanno accompagnato. Ci sono le prove che i numeri stranamente fossero «scoperti», e quindi fuori legge. Il numero 10 era stato scelto, più che sorteggiato. E i contenitori per l’urina, invece di essere portati personalmente dal medico, sono stati spediti dopo due giorni al laboratorio del Coni di Roma, per posta. Insomma – gli dico – resta viva l’impressione che si cercasse un modo per sbatterlo fuori e non pagargli i due anni di contratto che doveva ancora percepire dal Napoli.
Dagli stipendi non percepiti passiamo all’altra accusa che pende sulle spalle di Diego: quella di avere evaso il fisco. «Si è parlato molto del fatto che io non avrei pagato le tasse. Ricordo di aver firmato un contratto per sedici milioni di dollari e di averne presi quattro. Quando Ferlaino mi disse del doping io ho rinunciato a incassare dodici milioni di dollari, non li ho mai più visti. Sono andato in Argentina e Ferlaino non so che cosa abbia fatto con quei soldi: se li è mangiati lui forse, io non lo so. Però adesso sono io ad avere un debito con il fisco. Ma se i soldi non li ho neanche presi, perché dovrei pagare? Careca e Alemão avevano un contratto molto simile al mio ma sono stati salvati dal fisco, perdonati; io ho messo gli avvocati e tutto il resto, però non mi hanno permesso di tornare subito e liberamente in Italia. Gianni, io sono tranquillo, però. Prima di tutto perché non ho messo mai le mani in tasca alla gente di Napoli. Io ho fatto tanti gol e ho preso i miei soldi, non tutti hanno fatto la stessa cosa. Tutti sanno cosa ho fatto io in campo, non cosa stia facendo, da parte sua, Ferlaino fuori dal campo».
Gli chiedo dello scudetto perso nell’88. Ricordo che Diego era arrabbiato tantissimo per come erano andate le cose, e mi domando ancora adesso se non ci sia stato qualcosa che sia passato sopra le teste dei calciatori, qualcosa di difficile da comprendere. «Vuoi sapere dello scudetto vinto dal Milan di Sacchi? Ho detto più volte come la penso in proposito: eravamo una Cinquecento contro delle Ferrari. E quel Milan aveva una marcia in più, Gullit, van Basten, Rijkaard. Piuttosto, ci sono tante altre cose che sono successe, e che non dimentico. Per esempio, quello che Ferlaino ha fatto a Italo Allodi. L’ha escluso. Per non pagarlo. Italo Allodi valeva dieci volte Moggi nel calcio italiano, e nessuno si ricorda più di lui. Noi eravamo andati a fare una partita per Italo quando eravamo con il Napoli, e Ferlaino si era arrabbiato. Dimostrando così di non avere nessuna sensibilità, perché ormai ad Allodi aveva già tolto tutto. Io me lo ricordo bene. La gente deve capire che a me la droga non ha tolto la memoria, no! Io sono uno che “tiene” memoria e che non si è dimenticato della gente che gli ha fatto del bene. Per questo ricordo Italo Allodi». Parliamo del primo scudetto vinto a Napoli quasi in polemica con l’allenatore di allora, Ottavio Bianchi. Diego mi dice di averlo vissuto con grande allegria, anche per la gente di Napoli. «Ricordo che i primi due anni in Italia andavamo a Torino, a Verona, e prendevamo schiaffi dappertutto... Perdevamo sempre, tanto che avevo paura di chiamare mia madre e dirle quanti ne avevamo presi. Lo scudetto è stata una rivincita per tutti noi, perché a Genova o a Milano portavamo ventimila tifosi, a Torino trentamila, e potevamo renderli felici dovunque andassimo. Sai, è davvero brutto quando vai a Verona e ti piazzano uno striscione di insulti in faccia. È dura ma ti dà la carica, ti dà forza vedere Salvatore Carmando, il nostro massaggiatore, o Tommaso Starace, il magazziniere della società, che piangono perché si stava perdendo 2 a 0 e c’era quello striscione che diceva: Napoletani lavatevi. Abbiamo pareggiato 2 a 2 e Carmando e Tommaso facevano gestacci allo striscione. Era un momento in cui quelle cose in Italia erano usuali e forse oggi non è più così. Ma in quel frangente ho visto piangere Carmando di rabbia e di impotenza. Mi chiedevi di Bianchi... Be’, lui era un allenatore rigido... ogni volta che facevo qualcosa il presidente veniva subito a saperlo. Qualunque cosa dicessimo, lui la riferiva a Ferlaino, e questo mi dava molto fastidio».
Parliamo del suo rapporto con i compagni di squadra. Non ce n’è uno che non lo abbia adorato e non lo adori ancora adesso, perché Diego ha sempre combattuto in prima linea non solo per se stesso, ma anche e soprattutto per loro. Anche in questo caso, la sua risposta è semplice e ha il sapore della verità. «Sai, Gianni, il fatto di essere il primo in campo ti dà certe garanzie, forse più di quante ne abbiano i dirigenti. I dirigenti hanno solo la forza di dire “si fa questo” o “si fa quest’altro”, però non vanno mai in campo. Per questa ragione credo di aver avuto la forza, in tutta la vita da calciatore, di dire ai Moggi e ai Ferlaino: “Negli atleti, cercate il rispetto”. Loro però erano convinti che la forza non l’avessimo noi, ma loro. Io credo invece che la forza sia sempre del giocatore, perché in campo ci mette la faccia». Torniamo ancora a parlare della sua vita a Napoli e gli chiedo se si sia mai sentito oppresso; se non abbia mai avuto la sensazione che quella parte della città che gli vendeva la droga potesse ricattarlo e togliergli la vita, la felicità. Anche in questo caso mi risponde di no, come se volesse sempre riportare ogni responsabilità a se stesso.
«Io non sono mai andato a comprare droga. Me l’ha sempre comprata qualcun altro. E comunque ho sempre pensato che non stavo facendo del male a nessuno, semmai a me stesso, e che non ci sarebbe stata alcuna rappresaglia contro di me finché facevo il mio lavoro in campo. Sapevo perfettamente i problemi che aveva Napoli, ma ero anche uno che grazie a Dio, la domenica, faceva dimenticare tutto alla sua gente. E noi eravamo dei privilegiati, per questo. Anche chi era cattivo ci rispettava, perché sennò a Napoli non rimaneva niente da sperare. Per loro, tu lo sai, Gianni, la domenica voleva dire uscire dalla sofferenza della settimana, dai problemi... E noi eravamo quelli che contribuivano alla sopravvivenza di una città».
Gli racconto un colloquio con Ferlaino. Un’estate, prima che Diego se ne andasse, mi aveva ospitato sulla sua barca a Capri. Io ero lì con la mia famiglia, e mi permisi di dirgli: “Lei conosce i problemi di Diego: perché non lo manda a giocare in Francia, dove prospera un gioco meno isterico?” E lui mi rispose: “Io la capisco, ma per me Maradona è un investimento”. Fui costretto a ribattere: “Prima di tutto è un uomo, poi un investimento”. Ma in quell’istante compresi la logica con la quale Maradona era stato amministrato. Era una cassaforte, e tutti avevano volutamente dimenticato che dietro quella cassaforte c’era un uomo. «Te la racconto io invece una cosa su Ferlaino. L’ultimo anno, quando aveva deciso di mandarmi via anche se avevo ancora due anni di contratto, voleva far comprare l’abbonamento ai tifosi dicendo che il mio contratto era stato rinnovato per altri cinque anni! Una truffa, capisci? Mi aveva perfino offerto dei soldi perché io dicessi alla gente che con l’abbonamento per cinque anni ci sarebbe stato uno sconto. Mi voleva far fare il truffatore! Se io ho due anni di contratto perché devo dire alla gente che ne ho cinque? E lui ribatteva: “No... La gente di questo non deve rendersi conto!” Io voglio che la gente di Napoli capisca che Ferlaino non li trattava come persone: dovevano solo pagare per vedere Maradona. Perché avevano una squadra forte, perché noi eravamo i campioni d’Italia. E questo era molto fastidioso, per me. Quando Ferlaino mi ha cacciato via io non ho chiesto nulla alla gente, però voglio che la gente sappia chi è stato Ferlaino e chi è stato Maradona».
Diego mi ribadisce che finora non si è sentito in grado di tornare a Napoli, perché non riesce a dimenticare le lacrime della moglie e delle figlie, ma non esclude di poter fare un’eccezione per la partita d’addio di Ciro Ferrara. «Credo che Ciro sia un bravissimo ragazzo, anzi, ora è un uomo perché noi lo abbiamo fatto crescere, ma non credo che questo rappresenterà il mio ritorno a Napoli. Io ritornerò solo per Ciro Ferrara. Il mio ritorno a Napoli sarà un altro. Sarà con le mie due bambine, con Claudia, con mio padre, con mia madre, dalla porta grande, perché io me ne sono andato dalla finestra. Non so se giocherò, perché ho il ginocchio che mi fa male. Mi piacerebbe, però, giocare almeno un’ultima volta al San Paolo».
Parliamo delle sue partecipazioni ai Mondiali, in particolare quelli dell’86 e del ’90. Ricordo quando ho filmato un suo allenamento con Fernando Signorini a Trigoria, nella sala degli attrezzi, e gli sottolineo come pochissimi giocatori, per quanto ne so io, avrebbero potuto lavorare per un’ora e mezza con quell’intensità. «Da diversi punti di vista, il ’90 è stato addirittura superiore all’86. Fisicamente, intendo. Purtroppo però ho avuto un problema alla caviglia, uno all’unghia, e non ho potuto continuare ai livelli che avevo raggiunto. Il professor Dal Monte però mi aveva preparato alla grande, con la velocità che io volevo, per lasciare tutti indietro. In generale, io dico che se non si fa una preparazione adeguata per il Mondiale, sul piano fisico e mentale, succede quello che è successo all’Argentina con il Giappone nell’ultima Coppa del Mondo. Per questo, anche se so che è difficile capire, ai Mondiali devono andare quelli che almeno una volta li hanno sofferti, i Mondiali stessi».
«Pensa a me nell’86, per esempio: nel ’78 non mi avevano convocato proprio, e l’82 in Spagna avrebbe dovuto essere la mia rivincita. Ma io non ho potuto essere pronto né fisicamente né mentalmente, perché prima di andare ai Mondiali mi ero procurato uno strappo. Nell’86, però, avevo l’esperienza sufficiente per fare un buon Mondiale. Non sapevo certo in partenza di poter arrivare dove sono arrivato: nel calcio devi sempre avere fortuna. E la fortuna che ho avuto nell’86 forse non l’ho avuta nel ’90, anche se stavo meglio fisicamente e mentalmente. Tu mi dici che l’Argentina dell’86 forse era più forte di quella del ’90 e fai l’esempio di Burruchaga, ma io ti rispondo che in un Mondiale, se ti va male una partita o se qualcuno subisce un infortunio, non hai tempo per recuperare: è dura, in una competizione breve come il campionato del mondo, inserire un cambio. La squadra non è più la stessa». Non riesco a non chiedergli del suo secondo gol all’Inghilterra, dopo quello con la mano, e di come sia possibile saltare sette avversari in cinquanta metri di campo, portiere incluso, e riuscire perfino a buttarla dentro, con un uomo che ti cade addosso. «Quello è stato il gol che sognano tutti, non soltanto io. Quando ho dribblato Shilton, il loro portiere, e ho visto Butcher arrivare sulla mia destra, già sapevo che avrei segnato, e che quel gol non me lo poteva togliere nessuno. Ho capito di aver fatto il gol che sognavo da piccolo, prima ancora di giocare in prima squadra, prima di uscire dal mio rione...».
Un’altra questione che continua a tornarmi in mente è come gli sia stato possibile allenarsi con l’intensità dell’86 e del ’90, quando doveva già convivere con la droga. Come abbia fatto, insomma, a resistere a quei ritmi lasciando che la cocaina rubasse al suo fisico tante possibilità. Diego mi risponde che quando è andato ad allenarsi con il professor Dal Monte, nel 1986, non consumava droga. E quando gli domando come facesse a dire di no alla droga, me lo spiega. «Con la testa e con l’amore per il calcio. Io sapevo che tutto quello che guadagnavo da Dal Monte lo perdevo con la droga. In quel momento, parliamo di momenti, la felicità passava per il calcio, per Napoli, per la nazionale, per lo sforzo di essere il migliore al mondo. A quei tempi, nell’86, molti giornalisti dicevano che ero un campione a metà perché non avevo vinto ancora niente mentre Platini aveva già vinto tutto. Ma io penso che fossero tutte fesserie. Non è che un campione debba vincere per forza. Un campione è un campione e basta! Io non mi credevo inferiore a Platini perché giocava nella Juve e io nel Napoli, e quando sono stato io a vincere lo scudetto lui non ha certo smesso per questo di essere un grandissimo giocatore!».
Gli ricordo una sua dichiarazione subito dopo la vittoria finale in Messico, che aveva suscitato non poche polemiche: «Sono orgoglioso di questo Mondiale dell’86 perché ho dimostrato che l’Argentina può vincere anche senza la dittatura». E Diego torna ad affrontare di petto un tema che lo appassiona. «Io, Gianni, per rispetto dei trentamila desaparecidos, sono in forte polemica con tanti argentini che dicono di voler dimenticare. No, io non dimentico niente, perché ci sono madri in Argentina che ancora stanno cercando i figli, le ossa dei loro figli. Anche per questo, per me il vero Mondiale è stato quello dell’86, vinto fuori dall’Argentina. Non come nel’78, quando avremmo potuto vincere lo stesso ma ci hanno pensato i generali Videla, Agosti e Massera, a metterci un timbro in fronte. Come se tutti gli argentini fossero assassini! Io il timbro in fronte non lo voglio perché non ho ammazzato nessuno, ma quelli sì. Hanno avuto l’indulto, glielo ha concesso Menem, e per questo io non lo perdonerò mai. Se chiunque di noi ammazza un altro finisce in galera, ma loro erano militari e ora vanno passeggiando mano nella mano con i figli per Buenos Aires. A me non va giù, tutto questo».
Lasciamo per un attimo i Mondiali e ci soffermiamo sull’amore che Diego ha suscitato in tanti intellettuali e scrittori latinoamericani. Gli ricordo quando, nel 1990, sono arrivato a Trigoria col grande scrittore argentino Osvaldo Soriano. Era un tifoso entusiasta, ma come tutti gli intellettuali cercava di mantenere un atteggiamento distaccato, e Diego, che è sempre stato una primadonna, teneva il punto a sua volta; poi però ha preso un’arancia pesantissima, l’ha lanciata in aria e ha cominciato a palleggiare. Soriano era come un bambino, che vede quello che nella vita ha sempre sognato; alla fine Diego ha preso l’arancia e ha detto: «L’ho toccata con una mano secondo voi?» E noi: «No!» «E invece sì, l’ho toccata. Pensate a quel povero arbitro d’Inghilterra-Argentina, se poteva mai accorgersene». Diego sorride: «Il fatto che tutti questi scrittori mi amino mi dà molta gioia, anche perché il loro è un sentimento spontaneo, una parte del loro vissuto». Per un attimo salgo in cattedra, sicuro che Diego capirà il mio entusiasmo. Gli spiego come l’intellettuale latinoamericano viva più vicino alla gente rispetto all’intellettuale europeo. E come consideri il calcio un’arte. Cito una frase di una riga, scritta da Eduardo Galeano, che riassume la vita di Maradona e nella quale c’è tutta l’inventiva latinoamericana: «Giocò, vinse, pisciò, fu sconfitto».
Partendo da questa frase di Galeano, mi viene spontaneo parlare del periodo successivo all’abbandono definitivo dell’Italia. E in particolare della sua fuga dall’Argentina dopo l’arresto, quando il giudice che lo aveva ordinato si era dovuto attaccare a una dichiarazione in cui Diego stesso affermava di fare uso di droga, perché in caso contrario l’arresto stesso sarebbe stato illegale. Gli chiedo se non abbia mai pensato di essere vittima di una congiura su scala internazionale. «Io questo non lo so, Gianni, ma per me conta solo il dolore che ho causato a mia madre, a Claudia, alle bambine. I miei sbagli li ammetto, mentre le cose che ho fatto bene vanno tutte a beneficio di Dalma e Giannina. Non ho mai sentito il desiderio di ammazzarmi. Non ho mai voluto uno psicologo e non penso di essere un caso psichiatrico. Volevo solo tornare a giocare il prima possibile perché stavo bene, ero tranquillo. E quando si è aperta la possibilità di farlo con il Siviglia, Ferlaino mi ha tenuto bloccato fino a quando non ha potuto incassare un bel po’ di soldi, in accordo con la Fifa. A me non hanno dato una lira. Tutto sempre a vantaggio di Ferlaino. Ho firmato il contratto con il Siviglia, ho giocato un anno lì, con Carlos Bilardo, mi sono divertito».
Prima di concludere la nostra chiacchierata, gli chiedo di parlarmi del Mondiale del ’94, negli Stati Uniti. E soprattutto di quando, sovrappeso, a casa, è stato chiamato per aiutare l’Argentina a qualificarsi, nello spareggio contro l’Australia. «L’Argentina era quasi qualificata, ma poi è arrivata la batosta, quel 5 a 0 dalla Colombia allo stadio Del Riva, e la gente ha cominciato ad avere paura sul serio che non ce la facessimo. Era una situazione brutta, ma la sera sono andato a casa e ho ricevuto una telefonata dal professor Cheverria, che prima aveva lavorato con Bilardo e in quel momento era con Basile, il commissario tecnico della nazionale argentina. Mi ha chiesto di tornare in campo, ho detto no! Sapevo però di potermi rendere utile per la qualificazione, dovevamo giocare due partite con l’Australia... E così ho cominciato a parlare con Cheverria e con Basile, poi è venuto Grondona e mi hanno convinto a ritornare. Pesavo 97 chili, dovevo calare a 75. Sono andato due mesi nelle Pampas, 1400 chilometri da Buenos Aires, a correre con Fernando Signorini, a fare la dieta. Vedevamo solo il campo e le stelle. Poi sono tornato e l’Argentina si è qualificata. Una cosa devo dirtela, però: io ho fatto la preparazione per le due partite di spareggio, e non c’era antidoping. Insomma, a Usa ’94 Daniel Cerrini ha sbagliato a darmi quel farmaco perché in Argentina non c’era controllo sull’efedrina mentre in America era controllata... e così sono stato cacciato fuori. Nella partita contro l’Australia potevamo prendere di tutto, invece... e così è il calcio».
Un Mondiale, quello di Usa ’94, nel quale erano stati gli stessi americani a volere Diego a tutti i costi perché c’erano ancora tantissimi biglietti invenduti e si rischiava il flop. «Con tutto che ero indesiderato. Perché consumavo cocaina, ti rendi conto? Indesiderato in un paese nel quale otto banconote su dieci sono sporche di coca. E non è finita lì, sai? Non mi hanno dato il visto per l’America. Volevo andare a Disney World con mia figlia. È successo da poco: cinque o sei anni fa. Al consolato incontro un console grosso, gonfio come Schwarzenegger... E lui tramite la traduttrice mi spiega che mi darà il visto se gli dico quando è stata l’ultima volta che ho assunto cocaina. A quel punto, sempre tramite la traduttrice, gli rispondo che glielo dico senz’altro, se lui mi dice quando è stata l’ultima volta che ha preso gli anabolizzanti! E insomma, la traduttrice mi guarda, guarda il console... e alla fine non me l’hanno dato, il visto». Torno per un’ultima volta su Usa ’94, e sulla squalifica, per dire la mia. Sono convinto che nei confronti di Diego sia scattata una vera e propria trappola. Serviva per vendere biglietti, perché il Mondiale avesse successo e fosse credibile. Ma appena il Mondiale è cominciato e gli stadi erano pieni, l’Argentina è partita troppo forte. A Messico ’86 anche lo spagnolo Calderé aveva consumato efedrina ed era stato squalificato per una sola giornata, ma poi ha continuato il Mondiale. A quanto pare, o così ha detto la Fifa, il regolamento era cambiato nel frattempo. Ma la cosa che stupisce più di ogni altra, ed è su questa che interpello Diego, è che Julio Grondona non lo abbia difeso né abbia voluto che si difendesse da solo. Lo ha ritirato dal Mondiale, invece. E poco tempo dopo è stato eletto vicepresidente della Fifa.
«Incredibile, eh? Tanto più che era stato lo stesso Grondona a venirmi a prendere per farmi partecipare allo spareggio con l’Australia. Anche per questo ti ho raccontato che nelle prequalifiche non c’era l’antidoping. I controlli c’erano in America, quando tutte le squadre si erano già qualificate e non rischiavano più di non andare. La gente questo lo deve sapere». Prima di salutarci, gli ricordo una notte del gennaio 2001, nella quale mi aveva detto di aver «voglia di parlare» e gli avevo quindi fatto una lunga intervista all’hotel Hilton di Roma. Ne era emersa una dimensione inaspettata di Diego, che per quasi un’ora aveva parlato di questioni sociali come uno che il giornale se lo legge dall’inizio alla fine. Soprattutto, era venuto fuori il suo amore molto discusso per Cuba, e il famoso tatuaggio del Che. Gli chiedo quindi perché abbia scelto proprio Cuba per ritrovare se stesso. «Vuoi sapere perché sono argentino e mi sento cubano? Per tante cose. Perché a quarantatré anni di embargo non resiste nessuno al mondo. E Cuba degnamente ha resistito. Ha resistito Fidel Castro, ha resistito la gente. Mia mamma un giorno mi ha chiamato per dirmi: “Attenzione, Bush vuole attaccare Cuba”. E io le ho risposto: “Io non ho il biglietto aereo, rimango qui!”. Non mi sento mica un eroe per questo: è più una questione di mentalità. Io non voglio morire, però sai, quando vedi tante cattiverie contro un popolo lo fai eccome, il tifo per Cuba».