«Forse stanotte, guardando il soffitto perché non riuscirò a prendere sonno, realizzerò veramente quello che è successo». In 120 anni di Olimpiadi, mai un uomo con la maglietta azzurra si era presentato ai blocchi di partenza di una finale dei 100 metri, uno degli eventi sportivi più seguiti al mondo. Ce l’aveva fatta solo Giuseppina Leone, nel 1956 a Melbourne (quinta) e nel 1960 a Roma (bronzo). Quest’anno Lamont Marcell Jacobs, nato il 26 settembre 1994 da padre texano e madre italiana a El Paso (Texas) per trasferirsi a 18 mesi sulle rive del lago di Garda (Desenzano), ha riscritto la storia della velocità italiana un numero incalcolabile di volte. L’ultima pagina è lunga nove secondi e ottanta centesimi ed è un oro che neanche il più folle degli scommettitori si sarebbe giocato. Perché un italiano che vince le Olimpiadi nei 100, per i valori in campo, è credibile quanto San Marino in finale ai Mondiali di calcio. I siti di scommesse che lo quotavano (non tutti) lo davano vincente circa 25 a 1. E nemmeno una batteria chiusa in 9’’94 poteva permettergli di scalare più di tanto le gerarchie fino a far pensare che potesse davvero diventare il successore di Usain Bolt. Certo, il favorito Trayvon Bromell era fuori forma e, pur avendo acciuffato le semifinali per un pelo, era fuori dai giochi. Jacobs però in semifinale aveva trovato una finale anticipata. E tra i 24 che si giocavano il passaggio del turno, almeno cinque oltre a lui potevano puntare alla vittoria. Il Jacobs di due anni fa non avrebbe avuto chance. Quello del 2021 ha corso in 9’’84 e scritto un record europeo che resisteva da 17 anni, dal 9’’86 di Francis Obikwelu (2004) poi replicato da Jimmy Vicaut (2015). È arrivato terzo, sorpreso dal cinese Bingtian Su (9’’83 con primato asiatico) e spalla a spalla con Ronnie Baker (9’’83). E naturalmente è stato ripescato. Ci si poteva accontentare del tempo, che già aveva portato l’Italia in una nuova dimensione. O della qualificazione alla finale, anch’essa territorio inesplorato per gli azzurri.
Ma Jacobs, la notte giapponese dell’1 agosto, ha toccato il culmine di un anno che già così era stato il migliore della sua carriera, per condizioni fisiche e psicologiche. E non si è accontentato. Non si è nemmeno alzato dai blocchi quando il britannico Zharnel Hughes con un’evidente falsa partenza ha salutato la compagnia: un segno di tranquillità che confermava la sua possibilità di puntare alle medaglie. La seconda partenza lo ha visto alzarsi per penultimo dai blocchi, con un tempo di reazione di 0.161. In semifinale la partenza non era stata perfetta, in finale sì. Ai trenta metri era sesto, ma perfettamente in corsa, un metro o meno dietro all’americano Fred Kerley, quattrocentista passato ai 100 con ottimi risultati. Trenta metri dopo guidava ancora Kerley, ma tra lui e Jacobs non c’era più nessuno. E Jacobs a quel punto aveva una velocità di punta di 42,9 km/h, quasi un chilometro in più di Kerley. Da lì in poi l’unica cosa da fare era tenere evitando di irrigidirsi. Baker, che ai 60 era allo stesso livello di Jacobs, aveva una velocità sensibilmente più bassa. Jacobs è arrivato a toccare i 43,3, mentre Baker naufragava e finiva quinto in favore del canadese André De Grasse, che dopo il primo turno sembrava il favorito e in semifinale aveva sofferto oltre misura. Davanti, Jacobs si è scrollato il gruppo di dosso. Ha chiuso in 9’’80, un centesimo meglio del tempo che fece Usain Bolt per vincere l’ultimo oro olimpico della sua carriera, e quattro centesimi meglio di Kerley. Ed è diventato il decimo uomo più veloce di tutti i tempi. Prendendosi un oro che, per quanto espresso in tre giorni, è stato meritatissimo. La sua impresa resta nella storia come una delle più grandi mai compiute dallo sport italiano alle Olimpiadi.
Jacobs ha affrontato l’intero 2021 al massimo della forma, esprimendo tutto quel talento e quella forza che negli anni scorsi era stata limitata dagli infortuni e dalle sue fragilità. Nell’arco di pochi mesi, con il culmine di un pomeriggio, si è ripreso con gli interessi ciò che non aveva raccolto in una carriera. Perché che avesse talento era il segreto di Pulcinella per tutti gli addetti ai lavori. Nella prima parte della carriera si era dedicato, e con successo, soprattutto al salto in lungo, superando più volte gli 8 metri indoor e spingendosi – con vento irregolare – fino agli 8,48 outdoor. Nel frattempo si dedicava anche allo sprint, ma con risultati meno incoraggianti, fino all’esplosione nel 2018 quando scese a 10’’08, un buon tempo quantomeno a livello continentale, che gli permise di partecipare agli Europei di Berlino. Non fu una grande esperienza: qualificato di diritto alle semifinali, lì si arenò. Ormai però la strada era segnata. Certo, ancora nell’inverno 2019 era capace di salire sopra gli 8 metri nel lungo in sala (8,05) per poi andare agli Europei indoor, uscendo però in qualificazione con tre nulli. Da lì in poi la virata definitiva, seguita passo passo dal suo allenatore Paolo Camossi, campione del mondo indoor nel salto triplo vent’anni fa. Così due anni fa è sceso a 10’’03, correndo più veloce di Filippo Tortu: solo quando non contava, però. Negli scontri diretti, per anni, ha perso più volte dal compagno di nazionale, che ha fatto meglio di lui anche a Doha: ai primi Mondiali della sua carriera Jacobs è uscito in semifinale, il brianzolo è arrivato tra i primi otto al mondo. Insieme poi hanno portato il record italiano della 4x100 a 38’’11, rimanendo però esclusi dalla finale.
Poi l’anno del Covid, interlocutorio, passato a lavorare sulla partenza. E, quest’anno, l’esplosione. A un lanciato che era sempre stato formidabile, Jacobs ha accostato una grande uscita dai blocchi, che gli ha permesso di dominare la stagione al chiuso (dove lo start vale quasi tutto) e di fare sfracelli all’aperto. Forse il vero capolavoro della collaborazione con Camossi. «Si tratta di non rimanere basso troppo a lungo – racconta in questo articolo della Gazzetta - di non cercare ampiezze eccessive, ma di raggiungere in fretta la maggior velocità, consapevole che sul lanciato posso recuperare quello che eventualmente perdo in avvio. L’ho subito sentita mia: mi fa guadagnare centesimi preziosi. Dicono che mi alzo troppo rapidamente, ma funziona, sono sempre in accelerazione, composto e in assetto, quindi va bene così». Difficile dargli torto, visto che si è migliorato cinque volte al chiuso – stravincendo il titolo europeo indoor a Torun con un formidabile 6’’47 - e quattro volte all’aperto, di cui tre nella due giorni di Tokyo.
Ma non basta una partenza, o un lanciato tra i migliori al mondo, per fare un grande sprinter. Asafa Powell era completo, uno dei più grandi talenti mai espressi nella storia della velocità, ma non ha mai vinto un titolo individuale. In un’edizione olimpica in cui, complici i problemi di Simone Biles, l’aspetto mentale degli atleti è diventato di dominio pubblico, ci si può fermare a riflettere quanto questo incida su una gara che vale dieci secondi, dove bisogna partire sul filo della squalifica e non sbagliare nemmeno un passo sui circa 45 che portano al traguardo (nel caso di Jacobs, 45 e mezzo). Per buona parte, i 100 metri sono una guerra di nervi. Usain Bolt, con la testa, ha vinto i Giochi del 2012 e i Mondiali del 2015, quando Yohan Blake e Justin Gatlin partivano con la possibilità di batterlo. Jacobs, su questo lato, è sempre stato carente. Prima di Torun, vantava solo due qualificazioni in finale in qualche grande evento e in entrambi i casi, al momento dei salti decisivi, non aveva brillato. Jacobs individua la sua svolta nell’inizio della collaborazione con Nicoletta Romanazzi, la mental coach che lo segue da un anno. È stata lei, per alcuni aspetti, a sbloccarlo. «Non esistono segreti, però posso dire che fin da subito ho capito che per lui sarebbe stato importante risolvere il rapporto con il padre, essendo lui stesso padre di tre bambini – ha spiegato lei in un’intervista alla Gazzetta -. Questo lo ha sbloccato, adesso entra in pista più consapevole di quello che può fare con le sue gambe. Ha acquisito sicurezza in se stesso, prima arrivava alle gare con molta più ansia».
È suo il primo nome che Jacobs, asciugate le lacrime, ha fatto una volta arrivato davanti ai microfoni Rai, per poi dedicare la medaglia al nonno che non c’è più. «Ho detto: non ho nulla da perdere, mi gioco il tutto per tutto. Mi sentivo meglio di condizione rispetto alla semifinale, sono partito come non mai, ho cercato di correre più veloce che potevo ed è successo. Ci metterò una settimana più o meno a capire quello che ho fatto», la sua analisi della corsa. Per poi spiegare cosa significa un traguardo del genere: «Esserci riuscito è veramente coronare un sogno che inseguo da quando sono bambino. Tutte le batoste che ho preso negli anni passati, le sofferenze che ho avuto e le difficoltà da superare… Però adesso siamo qua, abbiamo vinto, abbiamo una medaglia d’oro al collo e domani non vedo l’ora di sentire l’inno sul gradino più alto del podio».
All’Italia dello sprint ci sono voluti 39 anni per scendere sotto i 10 secondi nei 100, dai 10’’01 di Pietro Mennea a Città del Messico (1979) ai 9’’99 di Filippo Tortu a Madrid (2018). Jacobs ce ne ha messi tre per portare l’atletica italiana sulla cima del mondo. L’ultimo atto lo ha visto fare due volte il record europeo nel giro di un paio d’ore, fino a 9’’80. Tanto ci voleva per diventare l’erede di Bolt e per portare la velocità azzurra in un’altra dimensione. Jacobs, però, è anche il volto di una velocità che sta cambiando i punti cardinali. Quella di Tokyo è stata la prima finale dal 2000 in cui non era presente nemmeno un giamaicano. Ed è dal 1996 (quando trionfò il canadese Donovan Bailey) che non vinceva uno sprinter di nazionalità né americana né giamaicana. Stavolta in finale erano rappresentati gli atleti di sette Paesi e quattro continenti: il Nordamerica con due americani e un canadese, l’Europa con un italiano e un britannico, l’Africa con un nigeriano e un sudafricano, l’Asia con un cinese. E il volto dell’evento più seguito dell’atletica è stato quello di un italiano. Nella prima settimana di Olimpiadi abbiamo visto l’Italia restare a secco di ori sulla scherma, sconfitta da nazioni che fino a qualche anno fa era fuori dallo scacchiere: nell’atletica, questa rivoluzione sta premiando gli azzurri. E un ragazzo di 27 anni da compiere, padre di tre bambini, che è salito sulla cima del mondo lavorando passo dopo passo, perdendo molte più volte di quante abbia vinto: proprio per questo, saprà godersi quanto conquistato.