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Quando Pantani volò sul Galibier
27 lug 2018
Racconto dell'epico Tour del 1998 e della tappa su cui Pantani conquistò la corsa.
(articolo)
23 min
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«Ecco, parte Pantani». Basta leggerle, queste tre parole, per associare d’istinto la voce che le ha pronunciate. Il suono rimbomba nella testa e fa male, pensando a quello che abbiamo perso, a ciò che abbiamo provato e non proveremo mai più, almeno non con quell’innocenza.

È il 27 luglio del 1998, piove che Dio la manda, c’è un Tour de France da far saltare in aria. E con Marco Pantani che si alza sui pedali all’improvviso, a 47 chilometri dal traguardo delle Deux Alpes, c’è tutta l’Italia del ciclismo, impegnata a spingerlo oltre il muro rappresentato dal Kaiser, Jan Ullrich. «Ecco, parte Pantani. Attenzione, l’atteso scatto di Pantani, non risponde Ullrich, che aveva già dimostrato che quando scatta Pantani è meglio lasciar perdere». La voce di Adriano De Zan, dolce colonna sonora delle grandi corse a tappe seguite dalla Rai per più di quattro decenni, riaccende la speranza. Serve un’impresa, è vero, ma il Pirata può ancora vincere il Tour, perché lo scatto sembra quello giusto. Anche se restano 47 chilometri, un’eternità. Tra salita, tanta discesa, ancora salita. È il giorno della Storia. Pantani, il Galibier, la pioggia, Les Deux Alpes. La Grande Boucle che torna a parlare italiano, 33 anni dopo l’impresa di Felice Gimondi.

La diretta integrale della Rai della quindicesima tappa del Tour de France 1998: 189 chilometri da Grenoble a Les Deux Alpes. Il capolavoro di Pantani prende il via a 1.15.04.

L’ultimo incrocio tra Italia e Francia, nell’estate 1998, non era finito bene per i nostri colori. Il tiro di Baggio che esce “di tanto così”, il frastuono della traversa colpita da Di Biagio e i rivali di sempre che volano, sempre più avanti, fino alla finale e al titolo mondiale contro il Brasile. L’ultimo atto del torneo ha avuto luogo il 12 luglio, a sole 24 ore di distanza dalla partenza dell’edizione numero 85 del Tour de France.

La carovana gialla prende il via da Dublino e c’è anche la Mercatone Uno di Marco Pantani. Il Pirata non l’ha preparato, quel Tour de France. Il suo obiettivo era il Giro d’Italia e lo aveva centrato meravigliosamente, schiantando i diversi avversari nelle diverse fasi della corsa rosa: dal calcolatore Zülle al bizzoso Tonkov. La pennellata sulla Marmolada, il duello estenuante di Plan di Montecampione, con la testa china a lanciare lo sguardo tra le gambe per vedere l’ombra del russo, fino a non scorgerla più e a capire che sarebbe rimasto in rosa anche a Milano. Il Giro finisce il 7 giugno, Pantani vorrebbe soltanto festeggiare ma non può. Neanche venti giorni più tardi, al Policlinico Sant’Orsola di Bologna, viene a mancare Luciano Pezzi, un pezzo di cuore del Pirata, forse il più importante. Luciano che aveva scommesso su di lui dopo i mille incidenti, quando Marco cantava la sigla del Giro pur di esserci, come nel 1996. Luciano che aveva pensato e costruito la Mercatone Uno attorno alle sue qualità. Luciano che aveva pianto davanti alla tv durante la crono di Lugano che valeva un Giro d’Italia. Luciano che se ne va tra il Giro e il Tour, e Marco che per dimenticarlo sale su una bicicletta e si presenta a Dublino. Nelle dichiarazioni che precedono la corsa, lo spunto principale che anima l’istinto di Pantani è proprio l’addio a Pezzi. «Ho perso un formidabile maestro, un uomo di quelli che non trovi tanto facilmente sulla via del ciclismo. Se ne è andato Luciano Pezzi che ha creduto in me, che ha scommesso su di me quando ero dentro un letto d’ospedale. Ho una gran voglia di prendere la maglia gialla e dire: “Vecchio amico, ecco, è per te che l’ho conquistata”. Vado al Tour per continuare a essere Pantani».

Nulla fa pensare che possa essere la sua corsa, a cominciare dal percorso. Due soli arrivi in salita (Plateau de Beille e Les Deux Alpes) e ben 116 chilometri di cronometro. Sarebbe il Tour perfetto per Indurain, se non avesse smesso: il Navarro è in Francia soltanto come commentatore televisivo. I pronostici sono tutti per il vincitore dell’edizione 1997. La stagione di Jan Ullrich è calibrata esclusivamente sull’obiettivo francese, al punto di farsi vedere in condizioni fisiche pietose a inizio primavera. Dieci chili presi tra i bagordi, prima di rientrare improvvisamente in forma per il Tour. Il Kaiser di Rostock è il favorito assoluto, Pantani parte dalle retrovie. «Ascolterò le sensazioni delle mie gambe ma non aspettatevi miracoli, vado e giocherò a zona». Il cronoprologo di Dublino dura sei chilometri. Quasi a voler confermare le nefaste sensazioni della vigilia, Marco perde 43 secondi da Ullrich. Chi invece tiene più che dignitosamente è Richard Virenque, il più amato dai francesi. Faccia da schiaffi d’ordinanza, nato e cresciuto a Casablanca da famiglia transalpina prima di trasferirsi a nove anni in Costa Azzurra. È il capitano della Festina, in salita va che è un piacere, è un candidato più che autorevole per la vittoria finale. E il suo Tour sta per finire in una pozza di fango talmente grande da non riuscire a stabilirne con esattezza i confini.

Lo scandalo Festina

A prendere i titoli dei giornali, nel giorno del successo di Boardman nel prologo irlandese, è l’arresto del massaggiatore della Festina, uno dei team più in vista al Tour. Non c’è solo Virenque in organico, ma anche Dufaux, Zülle e il campione del mondo Brochard, oltre a Christophe Moreau, beccato positivo a un anabolizzante tre settimane prima del Tour e ammesso in gara in attesa di giudizio.

Una delle ammiraglie della squadra viene fermata al confine francese, nei dintorni di Lille. Dal bagagliaio spuntano 250 flaconi di eritropoietina, un centinaio di fiale di anabolizzanti e una cinquantina di contenitori di stimolanti. In auto c’è anche Willy Boet, massaggiatore belga di 53 anni: per lui scattano le manette, con l’accusa di importazione illegale di prodotti proibiti (tutte le sostanze erano state acquistate tra Germania, Paesi Bassi e Svizzera).

Jean-Marie Leblanc, d.g. dell’organizzazione, ci va cauto: «Non resta che attendere i chiarimenti che verranno dalla magistratura». Non è altrettanto tranquillo Bruno Roussel, direttore sportivo della Festina, seduto su una pentola a pressione di dimensioni gigantesche. «Evitate di rivolgermi domande, non rispondo. Non aprirò bocca fino a quando non saprò come stanno le cose». Dissimulare, negare, svicolare sono gli imperativi del momento. La corsa prosegue ma non interessa più a nessuno. Boardman resta in giallo per un giorno, poi cade nella terza tappa e saluta tutti con un trauma facciale, lasciando il simbolo del comando a Erik Zabel. La corsa varca i confini francesi in occasione dell’anniversario della presa della Bastiglia, il 14 luglio. In quelle ore, Voet vuota il sacco. Dopo aver sostenuto goffamente la tesi del materiale per uso personale, il massaggiatore cambia versione e parla di un doping strutturato a livello di squadra. Il danese Bo Hamburger strappa subito la maglia gialla a Zabel, il giorno successivo Stuart O’Grady è il quarto leader della generale in cinque tappe, grazie a un calcolo chirurgico degli abbuoni nei traguardi volanti, restituendo alla GAN la leadership che Boardman aveva perso suo malgrado.

I vari spostamenti della carovana sono ormai un fastidioso rumore di sottofondo, che turba i protagonisti come le zanzare che ronzano attorno alle orecchie nelle notti d’estate: basta allontanarle con la mano per tornare ad affrontare i problemi seri. Si parla soltanto della Festina. Eric Ryckaert, medico sociale della squadra, partorisce una dichiarazione surreale: «Sono contro il doping, ho cura della salute dei corridori. Sulla nostra auto sono stati trovati prodotti dopanti ma nulla prova che fossero destinati ai corridori della Festina». All’arrivo di Cholet, Roussel e Ryckaert vengono condotti in commissariato in stato di fermo.

L’organizzazione sospende il d.s. e gli ritira la licenza, la Festina è comunque al via della Cholet-Châteauroux, dove Mario Cipollini prova a riportare l’attenzione sulle vicende di corsa con un bel successo in volata. Lo stop imposto al solo Roussel è ridicolo e anche Pantani si schiera apertamente: «Sarebbe stato meglio fermarli tutti. Non ha senso che a pagare sia soltanto il direttore sportivo, perché tutti hanno delle responsabilità. Io sarei favorevole ad un camper, come quello dove si svolge l'attuale controllo antidoping, dove quotidianamente dei commissari di giuria potrebbero chiamare due o tre corridori per effettuare il controllo preventivo sul sangue». La squadra è tutta con Roussel, a parlare è Virenque: «Sui giornali e alla tv sentiamo tante falsità. Con questa politica state assassinando il ciclismo, speriamo che presto venga fatta luce. Noi siamo dei professionisti e siamo al Tour per dare il meglio, per vincere».

Cipollini vince anche a Brive-la Gaillarde, alla vigilia della prima cronometro individuale. L’assassinio del ciclismo, per usare le parole di Virenque, finisce in serata. Roussel e Ryckaert confessano ed entrano in carcere, Zülle e soci vengono allontanati dalla corsa. Leblanc li fa fuori intorno alle 22.50, in conferenza stampa: «Sono state infrante le regole dello sport, contravvenendo all'articolo 29 del regolamento del Tour e i principi di De Coubertin». L’Equipe intervista Pantani, e il Pirata viene stuzzicato da una domanda maliziosa. In occasione della cronometro di Lugano che aveva deciso il Giro d’Italia, corsa in maniera magistrale dalla maglia rosa, i test avevano portato all’esclusione di Riccardo Forconi, suo gregario alla Mercatone Uno, per un valore fuori misura dell’ematocrito.

Il sospetto palesato dai rivali è quello di uno scambio di provette. «Ho vinto il Giro nel più leale dei modi, chi ha suggerito certi sospetti è Giuseppe Saronni, che aveva interessi contrari ai miei. Tonkov voleva vincere il Giro e siccome non ha potuto farlo sul campo, lui e Saronni si sono avventurati su un altro terreno». Le scosse d’assestamento del terremoto che si è abbattuto sul Tour portano la firma di Richard Virenque, che vuole presentarsi alla cronometro con un notaio: «Farò la più bella cronometro della mia vita». È l’ultima impennata del francese, che poi annuncia il ritiro della squadra: «Abbiamo deciso, si ritirano tutti. Anche se in questa faccenda i colpevoli sono in carcere e noi, l’ha detto anche il giudice, siamo solo testimoni. Essere escluso in questo modo è terribile ma ok, meglio fermarsi».

Verso il Galibier

Ullrich domina la cronometro di 58 chilometri con arrivo a Corrèze, dando 2’13” a uno specialista come Olano, 1’24” a Jalabert, 3’44” a Riis e 4’21” a Pantani. «Sono contento perché mi sono tolto il pensiero della cronometro. Arrivo alle salite con i 5' dell'anno scorso, ma con una cronometro in più, e c'è differenza. Un anno fa, erano solo cadute. Sperare sì ma non troppo, non aspettatevi chissà cosa sulle salite. Io so che sono venuto qui dopo aver vinto il Giro e altri al posto mio sarebbero stati a casa. Qualcosa farò, ma punto più sul Tour del '99», dichiara Pantani.

In classifica generale, il Fossile, come lo chiama Gianni Mura nei suoi resoconti su Repubblica, è quarantatreesimo, a 5’04”. «Lo chiamavo il Fossile, o Pantadattilo. Un cardellino di 56 chili in mezzo alle aquile, che portava fieramente pizzetto e baffi, non diversamente dai primi ciclisti dei tempi eroici alla Petit-Breton. Rispetto al suo microcosmo, era un alieno. Nel parlare e nella pedalata. Se lo osservi, manifesta un’inesausta stanchezza. Una sofferenza nutrita da pochi sorrisi e nessuna ombra di felicità, neanche sul traguardo».

Ullrich resta in giallo meno di 24 ore, perché il giorno dopo, a Montauban, arriva la fuga. L’italiano Andrea Tafi sogna il simbolo del comando ma lo sfiora soltanto, di 14 secondi. È Laurent Desbiens della Cofidis il nuovo leader, uno di quelli di passaggio, in attesa che il Tour faccia davvero sul serio. Arrivano i Pirenei, sparisce Cipollini: «I Pirenei gli fanno venire la febbre » scherza Mura «come del resto le Alpi. Saluti a Cip, che ha fatto i suoi bei numeri e fa le sue valigie. Nel ’99 dirà che vuole arrivare fino ai Campi Elisi e noi faremo finta di crederci».

Il percorso della prima tappa pirenaica fa storcere il naso ai buongustai: si comincia dall’Aubisque, poi il Tourmalet, l’Aspin e il Peyresourde, con 15 chilometri dall’ultima cima all’arrivo di Luchon. «Fatto al contrario, sarebbe un vero tappone», sentenzia Felice Gimondi, ultimo azzurro a vincere il Tour. È qui che Pantani può dare il primo schiaffo a Ullrich. «Jan va forte, il Tour lo perde solo se va in bambola. È vero che sta solo ai Telekom controllare la corsa, ma è anche vero che non hanno molta gente da controllare. Spero che facciano casino quelli che hanno ‘sto nome, Casino, scritto sulla maglia». Detto, fatto. Rodolfo Massi, della Casino-AG2R, piazza un attacco splendido sul Tourmalet e si aggiudica tappa e maglia a pois. Pantani attende sornione il Peyresourde, Ullrich imprime un’andatura selvaggia e riesce a scrollarsi di dosso Jalabert e Olano ma a due chilometri dallo scollinamento vede il Fossile andarsene via e non ha la gamba per ricucire. La discesa lima il distacco, Pantani guadagna soltanto 23 secondi dopo aver superato il GPM con un gap di 42. Davanti ai giornalisti si nasconde: «Vincere il Tour? Ma no, l’ha già vinto Ullrich, io posso solo arrivare secondo. Ho guardato la cartina e di vere montagne non ne ho trovate, poi senza la Festina è un Tour privo di attacchi. Ullrich ha programmato tutta la sua stagione in vista del Tour, volete che se lo lasci sfuggire? Anche se lo stacco in salita, mi dà 4 minuti e mezzo a cronometro. Sono contento di aver dato un minimo di spettacolo, per il massimo mi sto attrezzando». Marco perde un potenziale alleato: Francesco Casagrande, in odore di top 5, frana sull’Aubisque e lascia il Tour. Nella carovana gialla c’è già chi ha capito tutto. È Luc Leblanc: «Il Tour non lo vince Ullrich, lo vince Marco. Non ho mai visto uno andare così in salita».

Il secondo giorno sui Pirenei è un tuffo al cuore per tutti quelli che amano il ciclismo. Ci si ferma per un minuto sul Portet-d’Aspet, ad accarezzare la stele che ricorda Fabio Casartelli, che se ne era andato troppo presto per una caduta, tre anni prima, a soli 25 anni. Rivedere quei momenti, sentire la voce spezzata dalle lacrime di Adriano De Zan, riapre una ferita mai assorbita del tutto. Gli azzurri del gruppo si stringono attorno ai genitori di Fabio nel ricordo, poi la carovana riparte verso il traguardo di Plateau de Beille, uno dei due arrivi in salita del Tour.

In fuga c’è Meier, la Mercatone Uno lavora insieme alla Deutsche Telekom di Ullrich, per lo stupore di tutti. Il Kaiser fora ai piedi dell’ultima salita, il gruppo non attacca, come da nobile tradizione. Ullrich rientra, chiede troppo ai suoi compagni di squadra e paga dazio. Pantani prova a far saltare il banco con uno scatto che il tedescone neutralizza a fatica, quando Marco torna a spingere si apre un canyon. Va su dritto, senza strappi ma con una pedalata inarrestabile. Ullrich si volta, chiede aiuto, procede a zig zag. Non ha chance e cerca di limitare i danni. Pantani riprende Meier e va via da solo verso la vittoria di tappa. Continuare a far finta di nulla diventa impossibile. «Non voglio parlare di classifica altrimenti mi viene il mal di testa come al Giro. Non è escluso che lotti per la maglia gialla. Avevo deciso di attaccare prima, ma Ullrich ha forato e ho aspettato che rientrasse. Non è sportivo attaccare uno che fora. Forse sono troppo spavaldo, ma voglio ricordare che io sono qui dopo aver vinto il Giro. Guardate la classifica e ditemi in quel periodo dov'erano gli altri».

Il capolavoro

Il giorno successivo, il 24 luglio, il Tour si paralizza. Laurent Jalabert prende il microfono in Place St. Michel, sono le 11.30, e arringa i compagni di carovana. «Ci trattano come bestie, e da bestie reagiremo. Oggi non si parte, annullate la tappa, fate quello che volete. La misura è colma».

Oltre alle incursioni della polizia, a mandare fuori di testa i ciclisti sono i giornalisti. Olivier Galzi, reporter di France 2, si presenta in un albergo dell’Asics-CGA per intervistare il dottor Testa sui medicinali usati dai suoi. A fine intervista, Galzi mostra un sacco di plastica sottratto a un bidone della spazzatura, con dentro alcune fiale. Lo scoop è una bolla di sapone, visto che il medicinale in questione era del semplice cortisone. L’organizzazione ritira l’accredito a Galzi ma il caso è esploso. Il dottor Tarsi, medico della Casino-AG2R, reagisce agli assalti dei giornalisti defecando in un sacchetto di plastica per poi consegnarlo a una troupe definendolo «residuo organico di medico italiano». La minaccia dello sciopero rientra, si parte con quasi due ore di ritardo ma il clima è irrespirabile. Jalabert, Luc Leblanc e Pantani sono in prima fila nel gruppo dei dissidenti. La Telekom, invece, vuole correre. Al via, Jalabert ha un nemico in più: Jan Ullrich. Lo provoca apertamente, lanciandosi in fuga insieme al fratello Nicolas, gregario di Julich, lo statunitense secondo in classifica generale. La Telekom deve andare a mille, quando il distacco scende sotto i tre minuti Jalabert senior si ferma, scende dalla bici, aspetta il gruppo della maglia gialla facendo pipì. Pantani non resta indifferente: «Questa situazione è scomoda per tutti. Abbiamo la polizia sotto il balcone e i giornalisti che frugano nella spazzatura. Ogni tanto verrebbe la voglia di tornarsene a casa, non siamo dei criminali», afferma in una dichiarazione che contiene già i prodromi di ciò che lascerà scritto sulle pagine del suo passaporto in quel maledetto giorno di febbraio del 2004.

Il Tour procede silenzioso verso il 27 luglio, il giorno della Storia. Sulle pagine di Repubblica, il giorno della Grenoble-Les Deux Alpes, Gianni Mura fa le carte alla tappa. «Il Fossile si lamenta, buon segno. Non occorre una gran memoria per ricordarsi di quando Pantani a Courchevel disse che voleva ritirarsi e il giorno dopo vinse a Morzine. […] Spero che ieri sera Alfredo Martini abbia ripetuto a Pantani quel che ha detto a me nel pomeriggio: "Marco deve correre come se l'arrivo fosse in cima al Galibier. Gli ultimi quattro chilometri sono terribili, e lì per me deve attaccare da diavolo, come sa fare lui, e a quell'altro gli viene l'angoscia". [...] Le alleanze non ci vengono comunicate ufficialmente, ma Ullrich ha le sue e Pantani pure. Il Galibier può essere davvero per Pantani la rampa di lancio. Ma è indispensabile che, dopo il Telegraphe, il Fossile senta le voci. [...] Perché dovrebbe vincere una corsa che non lo favorisce? Perché è già successo al Giro? E se piove? E poi questa è un'altra corsa. E se non sente le voci? Non pensiamoci. Questa è un'altra corsa ma è ancora aperta. Vai, Pantadattilo, i camper sono già piazzati e qui stiamo accordando i violini».

I violini sono accordati, ma sulla strada verso Les Deux Alpes piove, e la pioggia, almeno stando alle abitudini, è nemica di Pantani. La tappa parte soft, Massi prende punti preziosi per la maglia a pois sulla Croix de Fer. Sferra un altro attacco, lo seguono in cinque: Farazijn, Sciandri, Bourguignon, Rinero, Serrano. Pantani resta nella pancia del gruppo che conta, sui primi tornanti del Galibier si affida a uno di quei soci che mai avrebbe immaginato di avere a inizio Tour. Leblanc scuote gli uomini della Telekom, Riis ha il compito di marcarlo a uomo. Lo fa una, due, tre volte. Ullrich resta da solo, non ha più compagni. Poi ritrova di colpo qualcuno. È il fantasma del fallimento. Gli fa capolino sulla spalla quando Marco, ormai in testa al gruppo, piazza un attacco che gli fiacca le gambe. Ullrich non ne ha, mancano 4500 metri alla cima del Galibier.

Pantani non ha più tempo per pensare, deve soltanto attaccare. Spinge potente e leggiadro allo stesso tempo, mentre il Kaiser cerca alleati improvvisati per non naufragare. Il Pirata riprende i fuggitivi, li supera, scollina in solitaria. C’è una discesa lunghissima da affrontare con la pioggia che ti taglia il viso e le braccia, e allora è meglio rimettere da parte l’istinto per far trionfare la ragione. Lo attende Orlando Maini con una mantellina, Pantani si ferma e la indossa per non rischiare nulla in discesa. Gli attaccanti di giornata tornano utilissimi per arginare il tentativo di Ullrich, che prima guadagna secondi e poi torna a perderli. L’epilogo sulle Deux Alpes è già scritto, Massi e gli altri non possono restare aggrappati al volo di Marco, che sfreccia sull’asfalto zuppo lasciando la scia con le ruote della sua Bianchi. Ullrich sale come se avesse improvvisamente ripreso i dieci chili dell’inverno, Julich capisce troppo tardi che può mandarlo definitivamente in tilt. Pantani alza la testa soltanto a traguardo tagliato: un battito di mani accennato, la solita faccia sofferta. Julich chiude a 5’43” di distanza, il Kaiser prende quasi nove minuti: 8’57”. Un corridore normale sarebbe fuori classifica, ma ci sono ancora l’arrivo di Albertville e la cronometro, e in un Tour così pazzo può succedere di tutto. Ullrich è giù dal podio: Julich secondo in generale a 3’52”, Escartin a 4’14”, quindi il tedesco a 5’56”. «Questa vittoria la dedico a Luciano Pezzi, sarebbe stato felice di me, di vedermi oggi. Non pensavo di guadagnare così tanto ma c’è ancora la cronometro, bisognerà tenere duro. Ho avuto il coraggio di attaccare da lontano e sfidare il freddo, la pioggia, tutte cose che notoriamente non gradisco. È la giornata più bella della mia carriera, penso di avere dato tanto a un Tour che non era adatto ai miei mezzi». Il Pantani di quei giorni stona con quella che è l’immagine del Pantani privato, incapace di reagire ai fatti di Madonna di Campiglio, reso di colpo fragilissimo dopo aver reagito alle mille sfortune della carriera. Il Pantani del Tour è un uomo sfrontato in bici e a tratti anche davanti ai microfoni: «Qualcuno dice che le mie vittorie sono tutte uguali, in fondo è vero, arrivo sempre da solo, sono quasi monotono.

Ma questa è diversa, l’attacco da lontano presuppone che l’attaccante possa saltare per aria, invece ho tenuto». Poi torna il velo di tristezza, la sofferenza come compagna di vita e di lavoro. «Oggi è stata una fatica notevole, ma ci sono abituato. La sofferenza convive con me. Dopo il Giro ho continuato ad allenarmi, tutti mi dicevano di andare al Tour e io nel profondo mi chiedevo: “Cosa ci vado a fare?”. Poi è morto Pezzi, e mi sono sentito in obbligo nei confronti di Luciano. Sapevo che se fosse stato vivo mi avrebbe detto di andare».

In giallo a Parigi

Ventiquattro ore dopo si arriva ad Albertville, e i due pretendenti al gradino più alto del podio arrivano insieme. Ullrich era partito a mille sul Col de la Madeleine, cogliendo Pantani di sorpresa per una frazione di secondo. A Marco erano bastate due pedalate delle sue per tornare a contatto e restare aggrappato al tedesco fino all’arrivo, mentre Julich pagava a caro prezzo le esitazioni del giorno precedente, prendendo quasi due minuti e conservando soli 14 secondi di vantaggio su Ullrich, vincitore di tappa in una volata che non aveva nulla dello sprint. Pantani gestisce, sorride, ringrazia. «Adesso che l’ho visto in azione, gli dico quello che non ho potuto dirgli sulle Deux Alpes: è stato il migliore, è un grande vincitore», è la benedizione del Kaiser. Il Pirata fa gli scongiuri, anche perché, come già detto, è un Tour in cui può succedere di tutto. E succede.

La polizia continua a indagare, un blitz dei gendarmi fa infuriare gli atleti della TVM. Si parla di interrogatori al limite del lecito, di un trasporto forzato in ospedale ad Albertville. Prelievi del sangue, delle urine, test del capello, elettrocardiogramma, anche perquisizioni anali. Al mattino successivo, la carovana si allea nuovamente. Per coprire i primi 24 chilometri della tappa, Pantani e gli altri impiegano un’ora. Si fermano al chilometro 32, abbracciano i tifosi, concedono foto e autografi prima del traguardo volante di Saint Jorioz. È un ammutinamento in piena regola. Il Pirata non avrebbe motivi per schierarsi a capo della protesta, eppure è il primo a togliersi il numero dalla schiena. I 149 chilometri della tappa vengono percorsi in 6 ore e 15 minuti, con una media da cicloturistica. Si ritirano tre squadre: Once, Banesto e Riso Scotti. Durante la tappa, Pantani parla chiaro: «Vogliamo essere trattati da atleti e non da delinquenti». Il portavoce del gruppo è Riis: «Se la polizia manda avanti così le cose, il Tour è finito. Se i poliziotti arrivano nei nostri hotel anche stasera, domani il Tour non riparte». Jalabert, da capitano della Once, torna a casa: «Esco da questo circo. Sono il numero 1 della classifica mondiale, tutti vengono da me a sentire come la penso e poi fanno di testa loro. Nessuno voleva partire, tutti sono partiti. Io no, ne ho abbastanza di un paese in cui la polizia fa tutto quello che vuole. Forse non tutti i miei colleghi sono liberi di decidere. Io sì, e ho anche le palle per dire quello che penso. I miei complimenti all'Uci, che può fare tante cose e non fa mai niente. Non so se nel '99 tornerò».

È l’ultimo brivido di un Tour che Pantani vince da re, tenendo più che dignitosamente nei 52 chilometri di cronometro con arrivo a Le Creusot: è terzo, a 2’35” da Ullrich che riguadagna il secondo posto in classifica generale al posto di Julich. «La vittoria del Giro è stata più sofferta, era l'appuntamento-chiave della stagione, in cui ho speso molto all'inizio forse raccogliendo poco. Il Tour l'ho corso più rilassato, o forse con più intelligenza. Ho corso al coperto, ricaricato le batterie e quando è arrivato il momento ho dato tre frecciate, tutte a segno. L'episodio determinante è stata la tappa del Galibier, il mio Tour è tutto racchiuso in quella giornata eccezionale. Nella prima settimana di corsa continuavo a ripetermi che la maglia gialla era un sogno, le montagne mi sembravano lontanissime. Ma ho sempre tenuto una finestra aperta sui sogni». Pantani arriva a Parigi in giallo, e già che c’è si tinge anche il pizzetto, con quel gusto trash che solo una vittoria del genere può concedere. Cesenatico diventa la capitale d’Italia, un’Italia che si è riscoperta follemente appassionata delle due ruote. Marco festeggia, appena può ricorda Luciano Pezzi: «Lui aveva guidato Gimondi 33 anni fa, lui mi diceva che avevo le carte in regola per vincere il Tour, aveva questa corsa nel cuore. Al funerale ho pensato che avrei dovuto fare qualcosa di veramente importante, e forse ero stato presuntuoso. Ma adesso penso che sarebbe felice».

Nell’impresa del Galibier c’è tutto Pantani. Il coraggio, la fantasia, la voglia di osare l’inosabile. «Faceva veramente freddo, a quel punto pesavo 55 chili, il freddo mi entrava nelle ossa. La discesa l’ho fatta al limite del congelamento, non avevo più sensibilità alle mani. Pensavo di guadagnare al massimo tre minuti, ne ho presi quasi nove. Strada facendo mi rendevo conto che gli portavo via tempo su tempo, sull’ultima salita mi è scattata dentro una voglia rabbiosa, difficilmente ripetibile. Non ho pensato a niente, non me ne fregava nulla di vincere la tappa, non mi sono mai voltato. Volevo solo guadagnare più possibile».

Con il passare del tempo e degli anni, gli scandali doping hanno privato il pubblico del ciclismo di un velo di innocenza, di ingenuità, del gusto dell’impresa, di una sorta di verginità che se n’è andata e non sarà possibile ritrovare facilmente. Quando assistiamo a uno scatto, a un attacco da lontano, a una mossa sensazionale in grado di ribaltare l’equilibrio di una corsa, è come se avessimo a portata di mano un asterisco, da piazzare a margine del nome del vincitore se necessario. Anche il mito del Tour de France del 1998 ha visto svanire i suoi contorni leggendari.

Una commissione di inchiesta del Senato francese, nel luglio del 2013, ha comunicato i risultati delle analisi effettuate a distanza di sei anni sui campioni di diversi dei partecipanti a quella Grande Boucle. Pantani, Ullrich, Zabel, Tafi, Olano, Beltran, Cipollini, Jalabert, Hamburger, Sacchi, Mazzoleni, Minali, Serrano, Heppner, Blijlevens, Durand, Desbiens, Livingston. Tutti positivi all’eritropoietina. Con loro, anche altri nomi sospetti, mai rivelati. C’è chi ha definito il periodo 1996-2006 “il decennio dell’epo”, culminato con la valanga di fango che ha travolto la carriera posticcia di Lance Armstrong. Un decennio che Pantani non ha vissuto fino in fondo. Lo stop di Madonna di Campiglio, nel 1999, lo ha distrutto e gettato nel vortice della cocaina, lasciando emergere una fragilità neanche lontanamente sospettabile nei giorni del Tour 1998. «Sapeva accendere la fantasia come pochi – ha detto di lui Gianni Mura – e durante il Tour del ’98 l’Italia si bloccò. Le vecchiette in estasi, la gente accalcata al bar come negli anni ’50. Se ancora, in quei sacrari verticali che sono le salite, la gente mette cartelli per ricordarlo significa che l’eco delle emozioni non si è spenta. Nei suoi confronti c’è una gratitudine che va oltre il rimpianto e la Pietas. È un riconoscimento costante, silenzioso, non appariscente».

E anche se quel velo di innocenza è stato squarciato, continuiamo a vedere Marco ovunque. In ogni impresa, in ogni atleta che cerca di far saltare il banco con qualcosa di inatteso, anche solo in uno sguardo mangiato dalla fatica sui tornanti di mezzo mondo.

Le emozioni provate in quel 1998 troppo bello per essere vero sono rimaste intatte. Almeno quelle.

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