Il padre di Metello, protagonista dell’omonimo romanzo di Vasco Pratolini, ambientato tra la fine dell’'800 e l’inizio del ‘900, durante la repressione del movimento operaio, era un tipo piccolo ma forte, anarchico e con un «pugno proibito». È morto nell’Arno, mentre lavorava come renaiolo (una specie di minatore che estraeva sabbia e acqua dai fiumi), ma finché era in vita era conosciuto come Caco, dalla divinità mitologica. «Dapprima, si raccontava, egli se n’era offeso», di quel soprannome, «poi aveva saputo che Caco era una specie di ladrone e questo gli aveva fatto piacere siccome i ladri, lui che era onesto, li stimava». Questa appena citata è una delle prime frasi del romanzo ed è anche quella che, la prima volta che l’ho letto, mi ha colpito al punto che non l’ho mai dimenticata. Caco, ad ogni modo, il personaggio mitologico, è famoso per aver rubato dei buoi a Ercole, che poi lo uccide perché, be', è Ercole. Nel corso dei secoli è stato rappresentato in modo diverso a seconda di chi lo raccontava, per alcuni sputa fuoco dalla bocca, per Dante, invece, era un centauro con dei serpenti sulla schiena e un drago che sputava fuoco sulla testa, non è chiaro se si tratti di un diavolo o di un dannato. Questa ambiguità di fondo è il marchio dell'immortalità del personaggio stesso, pronto a reincarnarsi in chi desideriamo. Per Pratolini, Caco era un operaio anarchico morto sul lavoro con le mani di pietra. Per me è Marco Verratti.
Anche Verratti è un ladro, o quanto meno uno a cui piace ingannare e sottrarre spazi e palloni che appartengono ad altri. Al tempo stesso qualcuno ha sottratto a Verratti qualcosa che si sarebbe meritato, e cioè la finale di Champions League, la prima che avrebbe giocato dall’inizio, con un buono stato di forma (lo scorso anno è entrato a mezz’ora dalla fine). Se Mbappé ha deluso nell’andata con il City e ha guardato il ritorno seduto in panchina (al suo posto il fantasma di Icardi), e Neymar è stato limitato dalle attenzioni e dai calci dopo 45 minuti sontuosi, Verratti è stato l’unico, o comunque uno dei pochi (insieme a Marquinhos e magari Paredes) ad aver giocato centoventi minuti all’altezza di questo Manchester City. Centoventi minuti che avrebbero meritato sicuramente di più del vaffanculo che dice avergli rivolto l’arbitro a un certo punto, e di cui si parla oggi.
Un esempio pratico. All'inizio del secondo tempo ormai era chiaro che il Manchester City era la squadra migliore in campo, che sarebbe stato difficile per il Paris Saint-Germain senza Mbappé provare a essere pericoloso, ma c’erano ancora quarantacinque minuti da giocare e anche solo restare in partita, non perdere la testa, non sentirsi inferiori, non lasciare che i giocatori di Guardiola dominassero il campo e le loro menti, era un'impresa per quelli di Pochettino. Al minuto 53 Gundogan salta Florenzi sulla linea laterale e poi taglia il campo per De Bruyne che stoppa e manda Foden davanti a Navas con un filtrante. Dopo la parata il guardalinee segnala il fuorigioco ma forse qualcosa nei nervi dei giocatori del PSG non ha recepito l’informazione, sembrano ancora scossi, dopo aver battuto la punizione si chiudono da soli vicino al calcio d’angolo e attirano il pressing adrenalinico del City. Passano a fatica da sinistra a destra, ma il City resta alto, il PSG torna al centro e Marquinhos prova a verticalizzare per Di Maria, ma Fernandinho si mette in mezzo. Fernandinho mette una palla alta in area, la difesa respinge, Foden controlla e calcia in porta, Navas para e la palla arriva tra i piedi di Paredes. De Bruyne sente l’odore del sangue e carica Paredes, che in scivolata riesce solo a passarla a Diallo, a un metro, che la passa a Marco Verratti, a un metro, in mezzo a un rombo di quattro giocatori.
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Questo è il calcio moderno, piaccia o meno. E, se lo giochi, o impari a nuotare oppure affoghi. Verratti nuota. Anzi, surfa su queste onde d’ansia e aggressività, mantiene il controllo, la compostezza, la propria presenza di spirito. Il proprio stile. Mentre Foden tirava, Navas parava e Paredes e Diallo cercavano di dare un senso a una palla che secondo alcuni critici del calcio di questi anni andava spazzata in tribuna, Verratti si muoveva con piccoli passettini circolari, muovendo le braccia per farsi vedere, per farsi più grande di quello che è, per rendersi disponibile ai compagni. Per avvicinarsi magari di pochi centimetri, o per sporgersi da dietro il corpo di un avversario che lo scherma. E che fa Marco Verratti quando riceve quella palla al limite della propria area di rigore? Con Fernandinho che ringhia alle sue spalle e Bernardo Silva a un passo di distanza, davanti?
Resta fermo, immobile, allarga la gamba destra e ci fa passare sotto la palla, poi di piatto – anche se noi questo lo chiamiamo tacco – cambia direzione al pallone, con un angolo stretto, dandola all’unico giocatore della squadra con gli occhi in direzione della metà campo e un minimo di spazio per giocarla come si deve, quella palla che scotta come se fosse uscita dal Fagradalsfjall, il vulcano islandese che un mese fa, dopo ottocento anni, ha cominciato a sputare fuoco e non si è ancora fermato. Marquinhos è preso di sorpresa, come tutti, e per poco non si fa anticipare da Gundogan. La palla di Verratti però gli dà anche il tempo di reagire alla sorpresa, e Marquinhos può giocare di prima per Neymar, una decina di metri più lontano.
Non è finita. Neymar controlla, si gira verso il lato sinistro e scarica di nuovo a Verratti, che nel frattempo (pochi secondi, due o tre al massimo) si è mosso nello spazio. Perché una partita va letta un istante dopo l’altro, come un libro, o un racconto, una riga dopo l'altra. E Verratti è uno dei migliori lettori di tutto il circuito d’élite. Poi Verratti effettua un passaggio per Di Maria che è un po’ lento, un po’ corto, e viene intercettato, ma Di Maria, altro grande lettore, ri-conquista ri-aggredendo, e porta palla a Neymar, che arriva in area e cerca lo spazio per il tiro, cerca lo spazio per il tiro e ignora Icardi, cerca lo spazio per il tiro e anche se non lo trova tira lo stesso su Zinchenko, che quando si alza esulta come avesse fatto un gol. Perdere nel calcio moderno, quando ti accorgi che sai nuotare con intorno squali come Neymar, insomma non è una cosa da poco.
In quel momento la partita era ancora sull’1-0 per il City e questa è stata praticamente l’ultima occasione per il PSG di rimettersi in corsa. Dieci minuti dopo Mahrez segna il suo secondo gol e, altri cinque minuti dopo, Di Maria si fa espellere perché a volte anche grandi lettori perdono la testa e tirano un libro contro il muro. Anche la partita di Verratti a quel punto compie una deviazione poco piacevole, il campo diventa troppo grande per le sue gambe corte e a un certo punto viene ammonito perché Foden è bravo a farselo sbattere addosso, poi Verratti si incazza e per qualche secondo prova a prendere il secondo giallo, ma non ci riesce. Il giudizio sulle sue due semifinali, però, non cambia.
La semifinale di ritorno giocata da Verratti ha confermato quanto avevamo visto in quella di andata, non solo per le sue qualità, ormai arrivate al livello dei migliori del mondo, ma anche per la sua forza mentale, per quella tempra caratteriale che sottovalutiamo da sempre. La stagione 2020/21 con lui è stata violenta e tra infortuni di ogni genere (ha avuto la Covid-19 due volte) ha giocato appena una ventina di partite in campionato. Per giunta, le sue due partite migliori sono arrivate in due sconfitte pesanti per il Paris Saint-Germain. Eppure Verratti non sembra esserne stato danneggiato in nessun modo, fisicamente ma soprattutto psicologicamente.
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Per carità, non sarà Kanté, ma di campo ne copre parecchio il piccolo Verratti.
Sempre nella partita di ritorno con il City, dopo due minuti dal fischio di inizio, ha intercettato una palla sulla trequarti offensiva con una spaccata volante. Dopo quattro minuti ha partecipato dall’inizio alla fine a un’altra azione pericolosa del PSG (la vedete qui sopra), una delle poche, abbassandosi per triangolare con Kimpembe e Paredes, alzandosi poi sulla linea di Icardi nel mezzo spazio di sinistra, e andando dopo pochi secondi a recuperare a destra una palla alta respinta da Foden in marcatura su Di Maria. Palla complicata, che gli viene incontro lentamente, rimbalzando, che lui gioca di prima intenzione a sinistra, alla cieca, mettendo Neymar in condizione di puntare Walker da solo. Una delle poche volte in partita in cui Neymar ha potuto giocare isolato in uno contro uno, e non uno contro tre. In questi pochi secondi ci sono: la sua capacità di aiutare i compagni e organizzare il possesso, la sua capacità di lettura senza palla che lo porta nel posto giusto al momento giusto, una visione di gioco che non si limita a quello che ha davanti, o intorno, ma ance a quello che ha dietro, perché Neymar quando lui gli passa la palla non è neanche nell'inquadratura larga.
Un minuto dopo Verratti è andato in pressione su Walker e ha contrastato, in scivolata, un suo lancio lungo, poi è corso sulla riga di fondo dove si era fermata la palla e, mentre Walker, che è grosso il doppio di lui, la proteggeva di spalle, ha infilato la gamba in mezzo alle sue e gliel'ha portata via. A quel punto è in area di rigore, palla al piede, e serve Neymar che può tirare o mandare al tiro il fantasma di Icardi, anche questa è stata una delle poche occasioni in cui il Paris Saint-Germain avrebbe potuto far male al Manchester City, se Neymar non avesse sbagliato il passaggio per il fantasma di Icardi.
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Swag.
Marco Verratti ha giocato con un’intensità e un’intelligenza pazzesca, toccando palloni in zone di campo lontane a pochi secondi di distanza, giocando con semplicità quando c’era un triangolo da chiudere e ingegnandosi quando andava trovato uno spazio che non c’era. Al 38' gli arriva una palla a centrocampo, leggermente a sinistra, lui controlla ma c'è Mahrez praticamente sulla palla e Gundogan qualche passo indietro. Verratti non si spaventa e anzi frena, aspetta quasi che si facciano sotto poi salta Mahrez con un dribbling di tacco – sì, insomma, facendosi passare la palla dietro la gamba d’appoggio e poi, una volta nascosta, muovendola di nuovo con il piatto – e gira su sé stesso verso sinistra per guadagnare aria e prendere in contropiede la corsa di Gundogan. Porta a spasso Mahrez e poi quando cambia gioco rasoterra è circondato da quattro avversari. E ci sarebbe da parlare per ore solo del modo in cui ha imparato a eludere la pressione avversaria, rendendo di fatto inutile pressarlo se si è in meno di tre. O del modo in cui usa l’esterno del piede destro, per girare in tondo e farsi sfilare gli avversari a fianco con l’eleganza di un torero che toglie il capote all’ultimo.
Marco Verratti è un ladro ma è anche una persona onesta. Un anarchico che non crede nel caos ma, come i veri anarchici, nell’organizzazione spontanea, collettiva, dal basso. Che collabora con chi ha intorno ma non si spersonalizza, non cede neanche un pezzo della sua individualità. È uno dei giocatori che tratta meglio la palla al mondo (per i dati Statsbomb è tra il 97esimo e il 99esimo percentile di tutte le statistiche qualitative: numero passaggi, passaggi in avanti, precisione passaggi, dribbling, conduzioni palla al piede) ma gioca ancora come uno scappato di casa, come un ragazzino rapito da un paesino e portato a fare la guerra – che è più o meno quello che gli è successo veramente. Gioca con il coraggio che aveva a Manoppello, quando doveva dribblare stando attento a non cadere e sbattere la testa sui gradini della fontana in piazza. Gioca con il coraggio, anzi, di chi sa di parlare la stessa lingua calcistica di gente come Neymar e De Bruyne, che sa di poter influenzare con il proprio talento, la propria intelligenza, la propria lingua calcistica, anche una semifinale di Champions League di questo livello, da area ad area.
Per provare a sfuggire a Ercole, Caco ha soffiato fuoco all'entrata di una caverna, sperando che Ercole non lo oltrepassasse. Si Sbagliava, perché Ercole, be', è Ercole. Ma il fascino di Caco è quello di un piccolo ladruncolo a suo agio in mezzo alle fiamme. Per provare a prenderlo, si rischia di bruciarsi.