In campo è esploso, invece di germogliare, stracciando record che appartenevano a giocatori leggendari di un leggendario club. Fuori, è un ragazzo che vuole far passare i messaggi secondo lui importanti, perché è uno che cerca messaggi anche quando ascolta musica. E sfrutta politicamente la sua immagine, si espone in modo mirato, diretto ma sobrio.
Appartiene a una generazione che non ha ricordi del Novecento, al suo primo allenamento (aveva cinque anni) tagliò il campo con un filtrante che disse di aver imparato giocando a Fifa. Rappresenta il futuro della sua squadra, eppure guarda indietro – punta al Manchester United del passato, quello di Alex Ferguson che ha fatto in tempo a vedere coi suoi occhi. Sostiene che il calcio sia cambiato ma è quello, coi dovuti adeguamenti, il modello a cui rifarsi.
«Mai dimenticare da dove vieni» ammonisce, sé stesso per primo. Lo aggiunge, di impegnarsi a non separare quel che è diventato dalle radici che ha. Marcus Rashford, un ragazzo di Manchester. Nato sulle macerie del thatcherismo (31 ottobre 1997), cresciuto nelle case popolari di Wythenshawe. A cinque anni imparava a correre col pallone al Fletcher Moss Rangers FC, in un'ansa del Mersey nell'hinterland meridionale. Una scuola calcio che è una fucina per i club della città e ha formato, per esempio, Wes Brown e Danny Welbeck. Il presidente, Dave Horrocks, spiegherà alla BBC che passano di lì soprattutto «street kids, cresciuti per strada, tosti». Spesso vengono da famiglie povere, molti genitori si illudono che il talento dei bambini illumini il futuro. Rashford andava al campo in bicicletta, erano pochi minuti da casa.
E anche a casa giocava a pallone. In giardino si allenava con i fratelli, dribblavano i coni che avevano disposto sull'erba. Con loro c'erano due sorelle, erano in cinque figli. Una casa nuova, Rashford l'avrebbe poi regalata alla madre non appena gli sarebbe stato possibile. «Non stai giocando solo per te stesso», spiega oggi: «Stai giocando per la tua famiglia e i tuoi amici. Un sacco di gente che ha condiviso lo stesso sogno». Per quanto non si direbbe, a vederlo così agile in campo, la responsabilità esercita un peso sul suo corpo in ogni momento di gioco. In cambio, dai suoi cari, riceve qualcosa di prezioso: «Puoi essere circondato da persone che ti dicono sì per tutto il tempo. Invece le persone intorno a me – i miei amici, la mia famiglia – se faccio qualcosa di sbagliato me lo dicono». Sono i due fratelli, più grandi di lui, a rappresentarlo. Lo seguono da sempre. Non appena il primo – Dwaine – ebbe l'età per la patente, fu lui ad accompagnare Marcus in giro per l'Inghilterra, risparmiandogli le attese e i saliscendi degli autobus col borsone addosso (la madre non guidava).
Le radici sono anche caraibiche, il che nel Regno Unito significa una notevole probabilità statistica di esposizione alla povertà. Ben prima degli ululati che lo stadio di Sofia gli tributò nel 2009, Rashford aveva dovuto imparare a cavarsela nel margine.
«È pieno di persone che vengono dal tuo stesso ambiente e non sono stati abbastanza fortunati da farcela» dice Rashford. Potrebbe sottolineare le proprie doti e la propria tenacia, trascurare chi ha superato – chi è rimasto indietro. Invece inserisce la fortuna come elemento determinante. Pure, il calcio professionistico e lo United in particolare sono stati i suoi obiettivi, lo scriveva nei temi scolastici a undici anni.
La sua famiglia aveva problemi economici, la madre faceva turni da 14 ore come cassiera ma non sempre riusciva a evitare di rivolgersi alle mense per i poveri. A volte lavorava in tre posti diversi, a volte saltava i pasti per far mangiare i figli. «La ricordo piangere fino ad addormentarsi» dice il figlio, perché la mancanza di soldi era un tormento. Adesso che lui guadagna oltre dieci milioni di sterline all'anno, agisce.
Dai primi mesi del 2020, nella Gran Bretagna con circa il 30% dei bambini in condizioni di povertà già prima della pandemia, Rashford si è impegnato per garantire un sostegno economico alle fasce economiche più deboli. Era infortunato e – come ha notato Jack Monroe di «GQ» – invece di ripiegarsi egoisticamente si è aperto sui problemi fuori da lui. Pensava di focalizzarsi sull'area della Greater Manchester, ma la questione è diventata presto nazionale. Ha lanciato una campagna di beneficienza che ha raccolto più di venti milioni di sterline. Ha battuto la resistenza del governo di Boris Johnson, ottenendo che i pasti gratuiti per gli studenti poveri fossero garantiti anche durante le vacanze scolastiche. Ha riunito attorno a sé una Child Food Poverty Taskforce, facendo collaborare agenzie alimentari, grandi marchi e supermercati. Nel Regno Unito dove 380.000 bambini non hanno mai avuto un libro, ha anche fondato un book club per regalare un'opportunità che lui non ha avuto (“Ho iniziato a leggere soltanto a diciassette anni. È un'evasione che mi avrebbe davvero aiutato”).
Per questo impegno, per l'energia della sua azione politica e per la sua efficacia, a ottobre è stato fatto Most Excellent Order of the British Empire, ricevendo l'onoreficenza dalla regina.
Sono cinque anni che il mondo conosce Marcus Rashford. La sua è stata un'irruzione nel grande calcio. Da giovanissimo, superando i record di precocità di George Best, in tre mesi che hanno cambiato tutto.
Il 25 febbraio 2016 debutta in prima squadra, contro il Mijdtjlland in Europa League, e segna una doppietta. Passano tre giorni ed esordisce in Premier, da titolare contro l'Arsenal, e segna una doppietta. Nell'arco di poche ore diventa un personaggio pubblico, che presto significherà essere interrotto mentre gioca al parco con gli amici e in generale smettere di essere libero – spiegherà – di fare tutto quello che vuole. Già a novembre Van Gaal l'aveva benedetto («Fantastic talent») prevedendo che sarebbe tornato utile nel corso della stagione. Rashford aveva appena compiuto diciott'anni. A marzo gioca il suo primo derby con il City, e segna. Il 21 maggio vince da titolare la FA Cup. Nella stessa settimana, da titolare indossa la maglia della nazionale maggiore, e segna dopo tre minuti. È il più giovane marcatore al debutto nella storia dei Tre Leoni. In novantatré giorni, da non aver mai giocato come professionista, diventa uno dei calciatori più promettenti del mondo.
Poi verranno la convocazione e qualche minuto agli Europei 2016, verranno le aspettative e le frenate nel biennio di Mourinho («Ho imparato molto su me stesso, su quali doti avessi e fino a dove potessi spingermi. Ho anche imparato che potevo fare più di quel che stavo facendo, quindi è stato un bel periodo»). Verranno stagioni di numeri e rendimenti significativi al livello individuale, nonostante uno United che ha perso posizioni nelle gerarchie.
Rashford oggi ha 238 presenze con la maglia dei Red Devils (81 reti, 48 assist): davanti ci sono solo Ryan Giggs, George Best e Norman Whiteside, e lui ha appena ventitré anni – ha il tempo per sfidare le divinità del pantheon.
Considera tutte queste esperienze un avvicinamento all'espressione delle potenzialità tutte: «Probabilmente il miglior calcio si esprime intorno ai 26 anni». D'altronde le sue ambizioni sono sempre state più grandi di una maglia da calciatore: «Quando sogni di giocare per il Manchester United, non sogni solo il debutto: vuoi essere come Beckham, Scholes e Giggs». Dev'essere per questo che quando il debutto è arrivato, ciò che davvero Rashford ha temuto – «la mia più grande paura» – è stato mettersi comodo. Adagiarsi.
Al talento e alla completezza, aggiunge l'intelligenza e il carisma. Solskjaer un paio di anni fa poneva l'asticella all'altezza di Harry Kane. Rashford ha convinto tutti gli allenatori che ha incontrato, nel club e in nazionale (dove conta già 39 presenze). Figure diverse per idee di calcio, età, carattere. Van Gaal e Hodgson gli hanno dato piena fiducia da subito, Mourinho gli ha fatto sudare il posto ma l'ha anche premiato, Solskjaer lo ha reso il motore della sua squadra, Southgate gli ha fatto giocare l'unica gara in Under 21 (una tripletta, nel settembre 2016) e ora se lo gode in Nazionale maggiore da Ct («Tremendous talent» lo definisce). Già a quindici anni, d'altronde, Rashford era stato chiamato a un allenamento con la prima squadra di David Moyes.
Uno dei compagni di squadra di Solskjaer era l'idolo di Rashford bambino. Una figura di secondo piano, spesso sommersa dalle critiche e in effetti tutt'altro che infallibile: Tim Howard, il portiere, l'americano. Il guardiano della porta dello United, certo, una figura rassicurante. E poi Rashford aveva l'età, nelle stagioni tra il 2003 e il 2006, in cui l'immaginario si popola d'eroi in base a lampi capricciosi e corrispondenze inconsapevoli. Ma c'è altro: Rashford voleva fare il portiere.
Sembra il rovescio del suo mestiere da adulto, eppure a sentir lui l'opposizione non è altro che coincidenza: «Il brivido di segnare un gol è lo stesso di quando sventi un’occasione pericolosa». Il portiere: il ruolo a sé, il ruolo del diverso, dell'isolato che può fare quello che a nessun altro è concesso – prendere la palla con le mani. Ma anche fare l'attaccante, secondo Rashford, ha un'unicità: impone di andare a caccia di occasioni e doverle cogliere, e rispetto agli altri ruoli lavora «una zona diversa del cervello».
La sua prima volta allo stadio, bambino, capita in una serata memorabile per chiunque segua il calcio. Il 23 aprile 2003, nel ritorno dei Quarti di CL contro il Real Madrid, lo United battaglia e vince 4-3 in una gara destinata a restare. I Red Devils vengono eliminati (all'andata avevano perso 3-1) ma la gratitudine per quello spettacolo sembra andare al di là. La tripletta di Ronaldo fa alzare l'Old Trafford per la prima ovazione della sua storia a un avversario. «È stato un piacere aver preso parte a una serata del genere», commenterà Alex Ferguson, «si è giocato un calcio inimmaginabile». Marcus Rashford, cinque anni e mezzo, c'era.
Da quando ne ha otto o nove, va a tutte le partite in casa. Nel frattempo era entrato nel programma Pre-Academy dello United. Aveva avuto addosso gli occhi del City, con la squadra rivale si era allenato per una settimana, poi aveva scelto lo United. Oggi a proposito dei tifosi spiega: «So come si sentono quando vinciamo e so come si sentono quando perdiamo».
La svolta nell'organizzazione delle giovanili del Manchester United può esser fatta coincidere con la firma di un giovane promettente dai rivali del City, Ryan Giggs, nel 1987 – dieci anni prima che Rashford nascesse. Da poco era arrivato Alex Ferguson che, molto tempo e molte vittorie dopo, in quel settore giovanile avrebbe avuto a che fare con il sacro: «Da ragazzino, le parole che uscivano dalla sua bocca ti guidavano per uno o due mesi» spiega Rashford.
Ha avuto le sue crisi all'epoca. Intorno ai dodici anni, quando il suo corpo cambiava e lui si ritrovò senza più ritmo né fluidità, deciso a diventare un centrocampista di contenimento. O nella partita con l'Under 16 inglese in cui gli tremavano le gambe per il disagio («Era come se non fossi lì»).
La spinta decisiva, quella che gli ha permesso di crederci, dice che è stata vedere i ragazzi del vivaio raggiungere la prima squadra. Quando è stato lui ad arrivarci, ha capito che a sua volta desiderava motivare i più piccoli.
In questi anni Rashford ha rappresentato l'identità dello United, il perno stabile cui appoggiarsi, la torre ferma che non crolla nello smarrimento d'un tempo di crisi. Ha già portato al braccio la fascia da capitano, ha già alzato qualche trofeo da protagonista.
Nel 2008 comparve in uno spot pubblicitario: in un parco, assieme ad altri ragazzini, chiedeva indietro il pallone perduto a Bobby Charlton. Ci è voluto qualche anno ma si può dire che quel pallone sia tornato nei piedi giusti.