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Marekiaro
19 ott 2016
Perché la grandezza del capitano del Napoli ci riguarda tutti.
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Hamsik al Brescia, la finta giovinezza

di Emanuele Atturo

È il campionato under-17 del 2003, si gioca in Francia, Marek Hamsik ha 16 anni e gioca nelle giovanili dello Slovan Bratislava. Maurizio Micheli, scout del Brescia che non può permettersi giocatori già di prima fascia, va alla ricerca di pepite d’oro nel girone composto da Isole Far Oer, Slovacchia e Grecia. La Slovacchia stava per entrare nella comunità Europea e gli avevano parlato bene della punta, Juraj Piroska - che snobbò il trasferimento al Brescia e oggi gioca nel Senica - ma alla fine venne colpito da un centrocampista con un taglio di capelli ridicolo. Micheli racconta di «Un giocatorino bravissimo nel dialogo a centrocampo e soprattutto nell'attaccare la profondità, nella capacità di inserimento».

Quel torneo rappresentava il punto d’arrivo di un percorso prodigioso, nel quale Marek Hamsik aveva ricoperto con disinvoltura il ruolo di talento fuori dal normale. Si raccontano di annate nelle giovanili dello Jupie Podlavice con più di 100 gol in 30 presenze, di partite in cui era riuscito a segnare 16 gol, di un provino con lo Sparta Praga andato bene ma non risoltosi in un trasferimento perché il club non aveva trovato un lavoro ai genitori. Pare che per definire il suo passaggio allo Slovan Bratislava in crisi economica il padre, un ex calciatore, abbia dovuto vendere la sua Skoda e mettere di tasca sua i 5.000 euro mancanti.

Micheli invita Hamsik con tutta la famiglia a vedere le strutture di allenamento del Brescia e lo convince a firmare, lì incontra Roberto Baggio: «Rimasi folgorato, questo influenzò la mia scelta». Arriverà per 60 mila euro e se ne andrà al Napoli quattro anni dopo per 5 milioni e mezzo. Oggi Hamsik è una statua e se sembra essere in Serie A da sempre, al punto che abbiamo quasi perso contatto con la sua grandezza calcistica, è anche perché non è mai stato davvero giovane. Riguardando il suo periodo al Brescia non se ne può apprezzare una versione più giovane, almeno non nel senso in cui potremmo intenderlo per altri giocatori: più acerbo, più discontinuo, meno formato. Come se fosse un composto genetico, non soggiogato dalle leggi del tempo, Hamsik era all’incirca lo stesso giocatore: i calzettoni dentro i parastinchi, la cresta alta, la faccia da bambino in fase di sviluppo. L’unico dettaglio diverso è la maglia troppo larga, che nel tempo ha riempito via via che cresceva il suo carisma e il suo spessore calcistico.

Già con la fascia da capitano.

Già a 18 anni Hamsik aveva una lettura formidabile del gioco: capiva quando dialogare a centrocampo e quando tagliare verticalmente verso la porta con l’essenzialità marziale che ancora gli appartiene. Già correva per il campo come un’intensità furiosa, senza però perdere neanche il più piccolo granello della sua perfezione tecnica e balistica, come una specie di berserk dello spazio. Dopo una stagione di ambientamento, quando il Brescia è retrocesso in Serie B, Hamsik è diventato subito titolare. Si racconta che nel ritiro estivo sia riuscito a segnare una serie di 56 rigori consecutivi ad Agliardi e Viviano, e a quel punto è diventato anche rigorista.

Quando si era visto un giocatore così giovane e così formato? Con un’interpretazione così moderna del ruolo?

Hamsik sembrava essere arrivato al calcio avendo letto solo le ultime pagine del suo manuale, nel quale i fondamentali si giocano col massimo della pulizia ma al triplo della velocità rispetto al passato (forse per questo Corioni all’epoca diceva «Hamsik non ha una qualità in cui eccelle»). Nel tentativo di contenerlo dentro delle categorie, Hamsik conduceva per forza di cose a sottovalutazioni o fraintendimenti che oggi suonano comici. Serse Cosmi, suo allenatore a quei tempi, lo definì: «Un incrocio tra Gatti e Nedved, ha la maturità di un trentenne»; peggio ancora Dario Marcolin: «Se devo paragonarlo a qualcuno, direi che è un Cambiasso con maggiori potenzialità. È uno che decide cosa fare con il pallone massimo in due tocchi. E se ha l'occasione buona negli ultimi 20-25 metri non se la lascia sfuggire: tira e spesso inquadra la porta, ha una stoccata precisa e molto potente». Solo Nedved, nel 2008, capì la portata anche cronologica del giocatore: «Hamsik è il giocatore che mi somiglia di più, è il futuro del calcio».

Durante il secondo anno in Serie B Hamsik riesce a segnare 11 gol, tirando di destro e di sinistro, dando sempre l’impressione di cambiare la consistenza della gravità terrestre una volta in possesso del pallone. Col campo che precipita improvvisamente verso la porta avversaria, e la palla punita da conclusioni sempre di una secchezza geometrica.

Marek Hamsik si inserisce da dietro e tira fortissimo, di piatto, sotto la traversa. Niente di originale.

È in quella stagione, in una trasferta del Brescia contro l’Albinoleffe, che lo nota Pierpaolo Marino, ds del Napoli. Era andato a osservare Omar Milanetto, a cui stava per scadere il contratto, e dice di essere rimasto solo per vedere come giocava un giocatore che aveva i capelli come suo figlio. Il suo racconto ricalca tutti gli stilemi dello scout davanti all’apparizione di un talento: «Ero rimasto folgorato da un giovane straniero che giocò una mezz’ora e poco più. Un regista in erba. Pensai: questo diventa un grande». Anche la trattativa possiede i dettagli caserecci dell’illuminazione vera e propria: «A una delle prime riunioni di Lega alla quale partecipò De Laurentiis, gli presentai Luigi Corioni, il presidente del Brescia. De Laurentiis disse a Corioni: “Mi devi dare un tuo giocatore perché devo fare un regalo a questo ragazzo”, indicandomi. “Per sei milioni me lo dai?”. Corioni disse sì. I due presidenti si strinsero la mano e la trattativa restò virtualmente legata a quel gesto». Alla fine la trattativa rischiò persino di saltare, perché De Laurentiis voleva pagare - per una questione di principio che possiamo immaginare - solo 5 milioni e mezzo e non 6, tanto che Marino si propose di mettere il mezzo milione restante di tasca propria (con la promessa che li avrebbe ripresi alla futura cessione).

Quando Hamsik è arrivato a Napoli, ad appena 20 anni, aveva già 74 presenze e 12 gol tra i professionisti: le tappe che fanno di un giocatore un grande giocatore erano già state quasi tutte bruciate.

Tre azioni per spiegare Hamsik

di Dario Saltari

Vedendo i gol di Hamsik uno dietro l’altro, come si fa con le foto delle vacanze, non si può fare a meno di notare che molti nascono da rinvii sbucciati, o errati, da rimpalli, insomma da palle vaganti raccolte dentro l’area e scaraventate in rete. In Marek Hamsik non si può non notare una volontà, prima di una capacità, di voler incidere sull’andamento della partita in maniera diretta, di ordinare il caos per ottenere un risultato tangibile, di tagliare il nodo gordiano per risolvere i problemi. Lo si nota in tutto, anche in quelle esultanze rabbiose, quasi spaventose, con cui sembra bruciare lo stadio. La palla vagante conquistata e trasformata in gol come sineddoche.

Volontà prima della capacità, ma non in ordine d’importanza. Perché Hamsik non è il tipo di giocatore che cerca di arrivare al risultato con le scorciatoie e sa che la via più difficile è molte volte la più breve. Già solo il fatto di essersi ritrovato così tante volte in carriera nel posto giusto al momento giusto in area, anticipando sul tempo i difensori avversari in quella che dovrebbe essere la loro comfort zone, ci dovrebbe illuminare sulla sua capacità di occupare lo spazio e di prevedere l’andamento del gioco, anche quando, com’è nel caso delle palle vaganti, è invece apparentemente imprevedibile.

È proprio la comprensione del gioco a rendere Hamsik un calciatore straordinario, l’intelligenza unita ad un bagaglio tecnico sconfinato a trasformarlo in un’incognita irrisolvibile per gli avversari. Ed è forse anche per questo, cioè per il fatto che l’intelligenza non è una qualità immediatamente visibile, che solo oggi il pubblico si accorge della grandezza di un centrocampista che comunque ha mantenuto una media assurda di circa 10 gol e 10 assist a stagione per un decennio.

Hamsik ha una lucidità costante nel saper cosa fare e quando farlo, soprattutto calcolando l’intensità fisica del suo gioco. Poco prima di ricevere la palla lo si vede spesso guardarsi intorno per calcolare la posizione dei compagni e degli avversari, una consapevolezza estrema della propria posizione in relazione agli altri 21 giocatori in campo e alla palla, che viene ricalcolata in continuazione al fine di prendere sempre la decisione ottimale. In questo senso, Hamsik ha una resistenza mentale prima che fisica fuori dal comune, che gli permette di optare per delle scelte che non sono quasi mai banali.

In Napoli-Fiorentina dell’anno scorso, probabilmente la partita dal più alto contenuto tecnico e tattico della Serie A 2015/2016, Hamsik ha rotto l’equilibrio del risultato con un filtrante che ha bucato le due linee viola di centrocampo e difesa, mettendo Insigne nella condizione migliore di poter mettere la palla alla sinistra di Tatarusanu.

Ma Hamsik ha ricevuto palla nel cerchio di centrocampo, toccandola la prima volta addirittura nella propria metà. Ha fatto scorrere il lento passaggio di Hysay non certo per aver sbagliato lo stop, ma in modo da prendere tempo nei confronti del pressing di Kalinic e Ilicic, alzando la testa e guardare i compagni una prima volta. Poi la stoppa lunga con l’interno sinistro, una cosa rarissima per lui e che infatti non è casuale: alza di nuovo la testa, nonostante abbia lo scarico per Ghoulam semplice davanti a sé. La ritocca di nuovo, questa volta corta e con l’esterno destro, che teoricamente non è il suo piede naturale. Ha ancora la testa alta, per vedere Insigne che va alle spalle della difesa della Fiorentina.

Hamsik è un creatore e un finalizzatore di gioco allo stesso tempo, e i due ruoli si arricchiscono vicendevolmente. Hamsik sa creare gioco perché conosce i movimenti migliori per arrivare in porta e contemporaneamente sa finalizzarlo perché vede il matrix della sua creazione. In questo contesto, persino il dribbling, che di solito consideriamo come il trionfo dell’autorappresentazione, diventa in realtà una scelta razionale per arrivare in porta.

Nel suo primo gol in Serie A con la maglietta del Napoli, contro la Sampdoria, si vede Hamsik ricevere palla al limite dell’area da Zalayeta. Ha un avversario di fronte, ma Hamsik lo evita fintando un passaggio verso quello che mi sembra essere Grava, che accorre da destra. Un passaggio che non avrebbe senso, perché Grava è completamente chiuso da un avversario, cosa che Hamsik sa e il difensore della Sampdoria no. Allo stesso modo, quando lo slovacco si ritrova di fronte al portiere, il tiro è verso l’angolo meno scontato, quello più chiuso, ma effettuato con il sinistro, in modo da anticipare l’uscita del portiere, che comunque si era buttato dalla parte opposta, per coprire la porzione di porta più scoperta.

Di solito sono i giocatori meno tecnici o meno fisici a sviluppare una comprensione del gioco superiore, un’evoluzione darwinista capace di salvarli da avversari superiori. Hamsik non ha nessuna qualità fisica o tecnica che gli permetta da sola di dominare i suoi avversari, ma non è neanche un giocatore modesto. La sua intelligenza non si è sviluppata come strumento di difesa nei confronti di una competizione sempre più alta, fa parte del suo stesso corredo genetico.

È la volontà di plasmare il gioco che lo ha portato a coniugare la tecnica e la capacità di prevedere il gioco. Ed è questo, non la capacità di giocare con entrambi i piedi, o di tirare sotto il sette da fuori area, che gli ha permesso di affermarsi a livelli così alti, per così tanto tempo, in un gioco in cui, come gli oceani con il global warming, gli standard fisici e tecnici si alzano impercettibilmente ogni anno.

Storia di un innamoramento

di Anna Trieste

Che tra Hamsik e Napoli sia amore è un fatto. Che non sia stato un colpo di fulmine, pure. Quando arrivò ai piedi del Vesuvio il 28 giugno del 2007, infatti, con una crestina ancora timida e Ezequiel Lavezzi detto il Pocho al suo fianco, Marek fu accolto da poche centinaia di tifosi che, più che dare il benvenuto a lui, chiedevano a gran voce a De Laurentiis di “smetterla con gli acquisti di giovani promesse” e di puntare su più famosi e acclarati campioni. “Meritiamo di più” dicevano e scrivevano sugli striscioni. “Basta con i giovani”. E il giovine Marek assisteva a tutto questo con lo stupore, il candore e forse la delusione dei suoi 20 anni, trascorsi per lo più a Bratislava e un poco a Brescia, dove l’allora diesse azzurro Pierpaolo Marino era andato a scovarlo.

In realtà, Marino era andato là per visionare ed eventualmente prendere un altro giocatore, Milanetto, ma poi, manco fosse la pinna di uno squalo affiorata a pelo d’acqua, fu folgorato da quella crestina e dai tacchetti che la sorreggevano. Insomma, almeno per Marino fu amore a prima vista. Non così per i tifosi e men che meno per l’allora tecnico azzurro Edi Reja che quando si vide portare Marek al proprio cospetto lo guardò e sbottò: “Ma che mi avete portato, un bambino!”. Ecco, fu questa la prima reazione di allenatore e città davanti allo slovacco destinato a diventare capitano e poi bandiera del Napoli. Dubbi e perplessità che Marek spazzò via subito, là dove si conviene, in campo: esordio in maglia azzurra in Coppa Italia e gol.

Da lì iniziò quella che con sufficiente approssimazione possiamo definire la storia d’amore più bella di tutti i tempi dopo Cenerentola. Solo che qui la Cenerentola è Napoli e il principe azzurro, come lo ha ribattezzato il decano dei giornalisti sportivi partenopei, Mimmo Carratelli, è proprio lui, Marek. Che l’ha conquistata poco alla volta. In barba a tutti i luoghi comuni. Più che allo scugnizzo sfacciato e indolente, infatti, che secondo l’oleografia più stantia dovrebbe rappresentare i napoletani, Hamsik incarna all’opposto il prototipo del principino. Sempre educato, sempre gentile. Mai una parola fuori posto. Nemmeno quando era evidente ai più che i napoletani impazzivano per il più sanguigno Lavezzi, poi per il più Matador Cavani e infine per il più crudele Higuain. Dalla sua bocca mai niente: mai una lamentela, mai una parola di rabbia. Mai.

Nemmeno quando è stato rapinato (come d’altra parte accade in tutte le città del mondo). Mentre la fidanzata di Lavezzi si lasciava andare a strali sui social come “Ciudad de mierda” e Behrami si stracciava le vesti non in Questura bensì su Twitter per il furto subito di una Smart noleggiata, Marek veniva rapinato e non vilipendeva pubblicamente la città in cui a 19 anni aveva scelto di vivere, sposarsi, mettere su famiglia. Ecco, forse è stato allora che è nato l’amore. Quando è parso evidente che gli altri strillavano, lui no. Quando è diventato palese che gli altri passavano, lui no. Quando ci si accorse che tutti si godevano la vita tra Vomero e Posillipo, lui no. Lui a Castelvolturno, dove senza troppi riflettori sistemava campetti di calcio pubblici e palleggiava coi bimbi del posto.

È stato allora che è scoppiato l’amore. Certo, c’è chi non crede alle favole e propende per la tesi più deterministico-materialista di Raiola secondo cui Marek non sarebbe andato via per pusillanimità. E c’è pure chi, tra i tifosi azzurri, non lo ama affatto e lo accusa di scarsa personalità soprattutto nelle partite difficili, quando le palle in campo dovrebbero essere più di una. Ecco, escluse queste due eccezioni, per i più invece è amore, tanto da ribattezzare Marekiaro una celebre discesa a mare di Napoli e far pensare a un disperato Silvio Berlusconi di farne uso addirittura in campagna elettorale. Era il 2011 e quando vide che verso il Comune marciava a passo svelto de Magistris, per convincere piazza del Plebiscito a votare il suo candidato Berlusconi affermò perentorio “Giuro, non compro Hamsik!”. Perse lo stesso, ma Marek vinse. E oggi, finalmente, Napoli è tutta sua.

L’evoluzione tattica di Marek Hamsik

di Alfredo Giacobbe

Gli anni napoletani sono stati decisivi nella formazione di Marek Hamsik, nella definizione del calciatore che è oggi, soprattutto dal punto di vista tattico. Grazie al lavoro svolto con i tecnici che lo hanno allenato in questo periodo – Reja, Donadoni, Mazzarri, Benitez, Sarri – Hamsik ha aggiunto ingredienti alla propria ricetta anno dopo anno.

Lo slovacco arrivò al Napoli nel luglio del 2007 in seguito ad un’intuizione del direttore sportivo Marino e la sua presentazione, contestuale a quella del “Pocho” Lavezzi, fu occasione per i tifosi per esprimere il loro disaccordo verso una compagnia acquisti giudicata low profile. Edy Reja invece intuì subito che il diciannovenne Hamsik aveva delle qualità che nessun altro aveva nella rosa a sua disposizione. Tant’è vero che Marek partì titolare già alla prima di campionato.

L’interpretazione del 5-3-2 da parte di Reja, in un Napoli appena promosso dalla Serie B, era piuttosto difensiva: due terzini veri come esterni a tutta fascia (Savini e Grava) e due mediani di rottura nel terzetto di centrocampo (Blasi e Gargano). In questo contesto, le doti in progressione in possesso di Hamsik fungevano da collegamento tra il centrocampo e l’attacco, formato dalla classica coppia “lungo-corto”. Il Napoli aveva due modalità per risalire in campo, dopo aver riconquistato il pallone solitamente nella propria metà campo: appoggiandosi a Zalayeta e confidando nella sua fisicità a protezione della palla; lanciando Lavezzi nello spazio, inarrestabile in campo aperto. Hamsik colmava i metri tra un’area e l’altra ad ampie falcate. Le sue incursioni, che partivano da lontano e terminavano profonde nei sedici metri avversari, erano difficili da seguire e annullare per i centrocampisti avversari. Hamsik si fece notare per le sue doti realizzative: 10 reti alla fine della sua prima stagione da titolare in Serie A.

Quando prese in mano il Napoli, Roberto Donadoni ebbe la tentazione di avvicinare ancora di più Hamsik alla porta. Infatti nella sua primissima uscita contro la Reggina, il tecnico bergamasco organizzò il Napoli in campo secondo il 4-3-1-2, posizionando Hamsik giusto dietro le due punte. Le contingenze di una rosa costruita avendo come riferimento un altro modulo, e quelle di una stagione da condurre in porto limitando i danni (Donadoni sostituì Reja tra la ventisettesima e la ventottesima giornata del campionato 2008-09), costrinsero il tecnico a tornare al 5-3-2, con Hamsik riportato al ruolo di mezzala sinistra.

Donadoni lasciò presto il posto a Walter Mazzarri, che preparò il terreno per la nuova evoluzione di Marek Hamsik. Inserito nel 3-4-2-1 in coppia con Lavezzi alle spalle della punta Quagliarella, Hamsik imparò la nuova essenzialità dei suoi movimenti senza palla. Quando si spostava spalle alla porta verso l’interno del campo, liberava lo spazio per permettere a Maggio di arrivare al cross dal fondo. Quando invece faceva il movimento interno-esterno, creava spazi per gli inserimenti della punta o dell’altro trequartista.

Le migliori stagioni dal punto di vista realizzativo, con 48 gol segnati in 4 annate, Hamsik le ha vissute in coincidenza del periodo napoletano di Edinson Cavani. La capacità dell’attaccante uruguaiano di attaccare la profondità creava spazi enormi tra le linee nei quali Hamsik prosperava. Anche quando Hamsik non arrivava al gol in prima persona, la sua opera di cucitura tra i reparti e i movimenti senza palla a rompere l’ordine delle linee avversarie, erano un lavoro difficile da apprezzare, ma indispensabile al Napoli.

Gli anni più bui, in ogni senso, Hamsik li ha vissuti durante la reggenza di Rafa Benitez. Un infortunio piuttosto grave rallentò il suo apprendimento in un sistema di gioco completamente differente dai precedenti. Con Mazzarri il Napoli tesseva un gioco fatto di ripiegamenti, per creare spazi nell’altra metà campo, e di ripartenze per aggredirli. Con Benitez gli azzurri provarono a imporsi su ogni avversario, attraverso la superiorità tecnica e numerica nella metà campo opposta. Nella posizione di trequartista dietro l’unica punta, costretto il più delle volte spalle alla porta e circondato dagli avversari raccolti in numero a proteggere la zona centrale del campo, Hamsik ha sofferto l’assenza di spazio.

Con Sarri, Hamsik è ritornato al ruolo di mezzala sinistra, stavolta con una maturità completamente differente, che lo mette al centro del nuovo progetto tecnico.

Le statistiche di Hamsik negli anni

di Flavio Fusi

L’ordine di grandezza di Marek Hamsik è apprezzabile anche solo esaminando il suo contributo realizzativo, cosa più unica che rara per un mezzala, anche con un passato da trequartista. Con i 2 gol segnati in quella che è la sua decima stagione in Serie A con la maglia del Napoli, lo slovacco ha portato il suo bottino di reti nel campionato italiano a 83 (con il gol al Palermo ha superato Maradona al secondo posto dei marcatori azzurri di tutti i tempi in A), mentre sono 71 gli assist complessivi, per un totale di 164 reti in cui è stato direttamente coinvolto. Se poi si considerano tutte le competizioni il suo bottino sale a 101 reti e 86 assist con il Napoli a cui vanno aggiunti le 12 marcature tra B e Coppa Italia con il Brescia.

Di fatto, se escludiamo la campagna appena iniziata, in media Hamsik ha segnato 10 gol e servito 8 assist in ciascuna delle stagioni spese con la maglia della squadra partenopea. Tra l’altro il capitano azzurro ha toccato queste medie marcando solo 8 reti dagli undici metri (9 invece i tentativi falliti).

È interessante esaminare nel dettaglio le ultime quattro stagioni, che oltre ad essere quelle su cui abbiamo a disposizione più dati sono anche quelle che hanno determinato anche importanti cambiamenti dal punto di vista tattico. Nel 2012/2013, Hamsik giocava con Lavezzi dietro a Cavani nel 3-4-2-1 di Mazzarri, ma con l’arrivo di Benítez nel 2013/2014 ha cominciato a giocare da trequartista unico nel 4-2-3-1 dello spagnolo, ruolo che non ha mai assimilato del tutto. Dopo due stagioni con un minutaggio ridotto rispetto al solito anche a causa di un infortunio, “Marekiaro” è tornato a ricoprire il ruolo di mezzala nel 4-3-3 di Sarri e si è imposto tra i “titolarissimi” del tecnico toscano.

Ciò che stupisce di questi anni è la costanza di rendimento di Hamsik, soprattutto dal punto di vista creativo. Il numero di occasioni create dal capitano del Napoli non è praticamente variato nonostante le sue peripezie tattiche: dai 2,74 passaggi chiave per 90 minuti con Mazzarri nel 2012/2013 ai 2,48 nel biennio Benítez, prima di sperimentare un nuovo leggero incremento sotto la guida di Sarri (2,55). Ma non è solo la quantità delle occasioni create da Hamsik ad essere rimasta costante nel tempo, ma anche la qualità degli ultimi passaggi serviti ai compagni non è poi cambiata molto: 0,29 xA per 90 nell’ultimo Napoli di Mazzarri, 0,23 con Benítez e 0,24 lo scorso anno con Sarri. La forbice di variazione è più alta se si osservano gli assist, 0,38 per 90 con Mazzarri (14 totali, record stagionale di assist nella Serie A 2012/2013), 0,29 Benítez con e 0,30 con Sarri.

Con l’arretramento del suo raggio d’azione, il 17 azzurro ha cominciato anche a tirare meno (e in situazioni meno vantaggiose), assestandosi sulle 2,30 conclusioni ogni 90 minuti dalle quasi 3 che provava da trequartista con lo spagnolo in panchina. Di conseguenza è calato, anzi dimezzato, anche il numero dei suoi gol (da 0,29 a 0,14 ogni 90 minuti) e degli expected goals generati (da 0,27 a 0,15). Nonostante ciò è comunque riuscito a partecipare tra gol e assist, e 16 reti in campionato, lo stesso totale del 2014/2015. Come sottolineato anche da Alfredo Giacobbe, il 2012/2013 con Mazzarri rimane indubbiamente la sua stagione migliore in assoluto: 25 tra gol e assist a fronte di 20,27 xG+xA complessivi.

Nella passata stagione, anche Pjanić e Pogba, gli unici centrocampisti ad aver chiuso la stagione con un contributo realizzativo (somma di reti e assist) per 90 minuti maggiore di quello di Hamsik, hanno toccato cifre praticamente da attaccanti, ma lo slovacco è l’unico ad aver viaggiato su queste medie per un decennio. Il fatto che ora che giochi più lontano dalla porta ma riesca comunque ad essere decisivo in fase di rifinitura e finalizzazione rende l’idea del potenziale offensivo di un centrocampista che a 30 anni da compiere può già dire di aver fatto la storia della Serie A.

Spazio, tempo e sensibilità

di Daniele Manusia

Ok, quindi resta solo da chiedersi che posto occupi Marek Hamsik nel panorama calcistico contemporaneo. Facile, no? Per qualche ragione, quando si parla di un calciatore si parla anche di tutti gli altri calciatori. Ma, al di là delle contraddizioni della cultura di uno degli sport più di squadra (tra gli sport di squadra), sempre con il presupposto che non esiste un fiocco di neve uguale a un altro, astrarre le qualità di Marek Hamsik dal contesto della sua carriera e delle prestazioni di squadra può essere utile per provare a restituirne l’unicità.

Perché ci sono centrocampisti con più controllo sulla partita in zone profonde di campo o più dinamici di lui, con un lancio migliore o con più visione e tecnica dalla trequarti in su, magari anche con entrambi i piedi come lui, centrocampisti più a loro agio negli spazi stretti o che portano meglio palla di lui negli spazi lunghi, ci sono centrocampisti che tirano o si inseriscono in area e finalizzano meglio di lui. Ma sono davvero pochissimi a fare tutto quello che fa lui, tanto bene quanto lo fa lui. Nessuno è completo come Marek Hamsik e per questo, forse, merita di essere inserito tra i migliori quattro o cinque centrocampisti al mondo.

La completezza è una delle qualità calcistiche più sottovalutate, tanto che viene usata quasi esclusivamente per rivalutare giocatori mediocri ma non disastrosi in nessun aspetto particolare. A centrocampo però è fondamentale per distinguere gli ottimi giocatori da quelli determinanti, quelli che cambiano la squadra in cui giocano, come si dice. Certo, il caso di Hamsik è complicato ulteriormente dal fatto che lo abbiamo visto giocare sempre nella stessa squadra, sempre nello stesso contesto con cui rischia di confondersi. Hamsik ha condizionato il Napoli di questi ultimi anni in un modo che forse possiamo notare solo quando non è in campo, e che senz’altro diventerà evidente quando il Napoli dovrà farne a meno sul lungo periodo.

Essere completi non significa essere adattabili all’infinito e anche se qualcosa mi dice che avrebbe avuto una discreta carriera anche come attaccante o esterno di fascia, forse persino come difensore (senza dubbio l’aspetto meno sviluppato, più istintivo, del suo gioco), la sua gestione del tempo, dello spazio, e la grande sensibilità con la palla, fanno del centro del campo la casa di Hamsik.

A una tecnica che a volte è semplicemente sorprendente, per come sa dosare il proprio calcio con entrambi i piedi, Hamsik unisce una forza e un equilibrio da ginnasta, quel controllo costante del proprio corpo grazie al quale non perde la coordinazione neanche quando deve cambiare direzione improvvisamente o compiere un gesto tecnico particolarmente innaturale. Questa combinazione di talenti gli permette di avere un angolo sul campo eccezionalmente aperto. Più aperto di qualsiasi altro giocatore che non abbia doti sovrannaturali di visione periferica (gli occhi dietro la testa dei vari Totti, Iniesta, Busquets, Modric, Özil). Hamsik non ha la visione del trequartista puro ma può controllare palla e giocarla - portandola o calciandola - praticamente dove vuole. Segnate un punto sul campo e disegnate un raggio superiore ai 180°, anzi arrivate vicini ai 360°. Poi però tenete conto che Hamsik si girerà verso la porta avversaria, cercando di raggiungerla il più direttamente possibile.

La vertigine verticale di Hamsik è evidente, ma sarebbe un calciatore meno squisito se non avesse quella necessità di toccare il pallone con continuità che dà ritmo alle sue giocate indipendentemente alla direzione del gioco.

E qui devo sfatare un luogo comune. Non è vero che non sa giocare spalle alla porta, semmai non ama tenere palla e proteggerla con l’uomo addosso (per questo da trequartista, probabilmente, dà meno di quello che darebbe davanti alla difesa dove almeno può giocarla di prima all’indietro). Ma più che una questione tecnica, di controllo e copertura della palla, sembra l’effetto collaterale di un altro problema: che gestendo il pallone con l’uomo alle spalle Hamsik perde ritmo. Se non è libero di muoversi e non ha opzioni di passaggio a disposizione, finisce con il preoccuparsi troppo della palla, abbassa la testa e il campo a sua disposizione diventa sempre più piccolo.

Probabilmente Hamsik avrebbe tutte le qualità necessarie per palleggiare nello stretto al livello dei migliori al mondo se inserito in un contesto ancora più associativo di quello che è stato il Napoli in questi anni, in cui cioè intorno a lui si creassero linee di passaggio sufficienti a compensare la sua momentanea immobilità (e già con il gioco di Sarri si intravede la potenzialità di Hamsik di inserirsi in un gioco meno verticale, che è un paradosso considerato che per Sarri stesso Hamsik è fondamentale proprio perché aggiunge verticalità a ogni giocata o quasi).

Negli anni ha imparato a compensare la scarsa naturalezza nel giocare a ritmi bassi con i movimenti continui in avanti e indietro, venendo incontro al compagno o cercando spazio tra le linee. Se viene servito in poco spazio gioca la palla di prima intenzione, con sponde all’indietro che non danno il tempo all’avversario di accorciare la distanza, o con scambi dalla geometria semplice che gli permettono di far ruotare la squadra su di sé, come un perno.

Quando invece sente di essere solo si gira su se stesso, o apre il piatto del piede (preferibilmente il destro, per girarsi verso sinistra) e da seguito alla giocata con il tocco successivo. E questo tipo di gioco se lo possono permettere solo quei giocatori in grado di mappare le posizioni e i movimenti degli altri giocatori in campo prima ancora di ricevere palla.

Ma la verticalità e il ritmo di Hamsik non dovrebbero metterne in ombra la sensibilità. Non solo per il repertorio sterminato di passaggi con il destro e con il sinistro, la capacità di trasformare i palloni che passano dai suoi piedi in pietra e in palloncini, ma per l’incredibile tempismo con cui sceglie le sue giocate migliori.

Questo forse è l’aspetto più nascosto del bagaglio tecnico di Marek Hamsik, ma se si guardano con attenzione i suoi filtranti sono quasi sempre preceduti da un rallentamento che gli serve sia ad alzare la testa, sia a prendere il tempo ai movimenti di avversari e compagni. Un rallentamento che a volte è quasi impercettibile ma che comunque è una vera e propria pausa, ma che è comunque distintivo in un centrocampista conosciuto più che altro per l’energia e il dinamismo.

Per apprezzare il gioco di Hamsik non bisogna pretendere che diventi qualcosa che in realtà non è. In questo senso, il limite più evidente del suo gioco è che Hamsik non ama inventarsi giocate dal nulla: può mettere la palla in qualsiasi spazio vede, o correrci dentro, ma quello spazio deve essersi già aperto. Quando sbaglia scelta è per mancanza di fantasia, perché è a corto di idee. Ha pensato una giocata ma magari mentre la eseguiva quella porta si è chiusa e non ha saputo trovare un’alternativa, oppure ha dato la palla corretta solo in teoria a cui non corrispondeva il movimento del compagno.

Forse per questo quando Hamsik finisce nell’ombra è spesso nelle partite più difficili. Non perché manchi di carattere, ma perché più si sale di livello più gli avversari sono abili a non lasciare spazi. D’altra parte anche i giocatori più decisivi al mondo, quelli in grado di modificare il piano del reale sulla loro fantasia, vengono criticati perché non riescono a farlo sempre e comunque. Forse dovremmo accettare che il calcio è difficile per tutti (più difficile di come sembra dall'esterno) e che solo in pochissimi riescono a trasformare il calcio da sport di squadra a sport individuale, cambiando da soli il corso delle partite sempre o quasi sempre.

La costanza con cui Hamsik esprime le sue qualità sui campi di Serie A da quasi dieci anni ha comunque del miracoloso. Viviamo un’epoca calcistica fin troppo generosa da questo punto di vista, forse per questo ci stiamo abituando ai miracoli meno vistosi.

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