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No, non dobbiamo fare come la Thatcher
21 gen 2019
21 gen 2019
Tutti gli equivoci di quando si parla del "modello Thatcher".
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Succede sempre così, in Italia, da diversi anni a questa parte: ogni volta che si verifica un episodio increscioso legato allo svolgimento di una partita di calcio, ecco che dai salotti della politica e di alcuni osservatori si alza unanime lo slogan “Bisogna fare come la Thatcher”. La maxi rissa dello scorso 26 dicembre prima di Inter-Napoli che ha portato alla morte dell’ultrà Daniele Belardinelli non ha fatto eccezione, anzi probabilmente ha enfatizzato ulteriormente il dibattito attorno alla violenza e alla necessità di punire i responsabili seguendo il fantomatico modello inglese.

Sulla vicenda sono intervenuti il presidente della Fifa Gianni Infantino e quello del Coni Giovanni Malagò. A pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, entrambi hanno invocato l’adozione di quei provvedimenti anti hooliganismo sull’esempio dell’Inghilterra – rispettivamente in occasione delle premiazioni dei Globe Soccer Awards a Dubai e ai microfoni di Radio Anch'io lo sport su Rai Radio 1.

Ma siamo davvero sicuri che il pugno di ferro voluto dall’allora primo ministro britannico negli anni Ottanta sia la miglior soluzione al problema? E soprattutto, di cosa parliamo realmente quando invochiamo il modello inglese?

Fino al 1979

L’esecutivo di Margaret Thatcher fu effettivamente il primo ad affrontare con risolutezza la piaga dell’hooliganismo dopo averne inizialmente sottovalutato gli effetti. La violenza durante le manifestazioni sportive era peraltro un problema risaputo: il Chester Report, un’inchiesta sullo stato di salute del calcio nel Regno Unito, aveva mostrato come gli atti di teppismo fossero raddoppiati nei primi cinque anni del decennio rispetto ai precedenti venticinque. La commissione aveva evidenziato un peggioramento nel comportamento della folla e abbozzato un possibile rimedio attraverso l’incremento dei servizi negli stadi e un deciso intervento delle società. Era il 1966, e questo leitmotiv si sarebbe ripetuto più volte nei decenni successivi senza tuttavia trovare una concreta attuazione.

Due anni più tardi l’inchiesta Soccer Hooliganism – A Preliminary Report identificò, da un lato, le diverse manifestazioni dell’hooliganismo, ovvero il comportamento minaccioso e turbolento, il lancio di razzi, risse tra tifoserie rivali, assalti ai poliziotti e vandalismo; dall’altro analizzò le cause del comportamento degli hooligan e le soluzioni per arginarne le azioni. Queste ultime prevedevano misure preventive e repressive: per quanto riguarda le prime, si scrisse che «la risoluzione dei problemi di hooliganismo negli stadi è compito dei singoli club, che se ne devono occupare alla luce delle circostanze locali». Riguardo alle seconde, invece, il report invocò punizioni più dure che potessero fungere da deterrente, facendo notare come la maggior parte degli hooligan fosse incentivata a compiere misfatti perché consapevoli che «molto probabilmente l’avrebbero fatta franca».

Nel 1969 il Lang Report chiarì che non esisteva una «soluzione unica ad un problema che è spesso dovuto a una combinazione di fattori» e si concluse con un totale di 23 raccomandazioni, tre delle quali evidenziate con particolare enfasi: massima cooperazione tra società e polizia; totale accettazione delle decisioni dell’arbitro; fornitura di seggiolini invece di posti in piedi – dettaglio, quest’ultimo, che negli anni ricoprirà un ruolo fondamentale nella rivalutazione degli stadi inglesi.

Il Lang Report fu il primo a ricercare concretamente delle soluzioni – per esempio i benefici apportati dalle telecamere a circuito chiuso o le stanze di detenzione all’interno degli stadi in cui trattenere il tifoso prima del trasferimento in una stazione di polizia – ad un problema che, in quel tempo, non era stato ancora chiaramente definito e ancora meno capito.

Non esistevano dati specifici che ne indicassero la portata, ed erano persino assenti le statistiche relative ai danni e agli arresti. La ricerca conteneva anche un auspicio affinché le pene fossero consone alla gravità del reato, oltre a una dichiarazione secondo cui «non vi è alcun dubbio che il consumo di alcol è un importante fattore nel comportamento scorretto della folla», senza tuttavia menzionare alcuna prova a sostegno di questo rapporto causa-effetto.

Vennero poi gli anni Settanta, durante i quali si manifestò un’inaspettata inversione di tendenza che innescò un meccanismo perverso nella classe politica e nei media. Di fronte al calo di incidenti legati al football, il governo di James Callaghan commissionò nel 1978 allo Sports Council e al Social Science Research Council una ricerca che ridusse l’hooliganismo a un «element of fashion» equiparandolo a una moda giovanile destinata prima o poi a scomparire. Questa errata considerazione autorizzò a non intervenire e sottovalutare la situazione, dimostrandosi un boomerang per la società inglese negli anni Ottanta.

Oltre all’hooliganismo, c’era un’altra deficienza nel sistema calcistico: la pessima condizione in cui versavano praticamente tutti gli stadi. La primissima indagine relativa alle carenze strutturali era stata svolta nel 1924, un anno dopo la finale di Fa Cup disputata a Wembley tra West Ham e Bolton. Una moltitudine di almeno 200mila persone accorse nell’impianto aveva costretto a rinviare il calcio d’inizio di 46 minuti per consentire alla polizia di liberare il terreno di gioco spingendo la folla all’esterno delle linee laterali. Poi fu la volta del Moelwyn Hughes Report nel 1946, in risposta al disastro di Burnden Park, in cui si ribadì l’importanza di vie di fuga per il deflusso degli spettatori e di adeguati tornelli all’ingresso di ogni settore, oltre all’adozione di un criterio meccanico per la fissazione del numero massimo di persone all’interno degli stadi. Hughes parlò per la prima volta della necessità di introdurre una normativa che mettesse il Segretario di Stato per gli Affari Interni in condizione di fornire regole generali per la sicurezza. Nessun campo da gioco, infatti, avrebbe dovuto essere aperto senza l’autorizzazione ottenuta dall’amministrazione comunale. La concessione della licenza sarebbe dovuta dipendere dal soddisfacimento dei criteri di costruzione ed equipaggiamento della struttura, dalla conformazione alle normative e dalla determinazione della capienza massima in ogni zona dell’impianto.

Nel 1971 arrivò il secondo disastro di Ibrox, a seguito del quale il Wheatley Report ripeté quanto fosse fondamentale per i club compiere accertamenti sulla sicurezza dei propri stadi. Nacque la necessità di imporre criteri inderogabili, individuati in un sistema di licenze gestito dalle amministrazioni comunali. Queste accortezze furono la base da cui nel 1973 scaturì la prima edizione del Guide to Safety at Sports Grounds o Green Guide (dal colore verde della copertina), un fascicolo finanziato dal governo britannico sulla salvaguardia del pubblico negli stadi. La guida, priva di carattere vincolante, specificava che «la responsabilità della sicurezza degli spettatori è sempre a carico di chi gestisce l’impianto, normalmente il proprietario o il locatario dello stesso». Si parlava quindi di società sportive e non dell’autorità pubblica, che poteva comunque assumere l’incarico di presidiare alcune aree all’esterno considerate a rischio. La polizia, dunque, aveva il solo compito di assolvere alle operazioni di emergenza e di soccorso.

Nel 1975 molte delle direttive del Wheatley Report e della Green Guide portarono alla promulgazione del Safety of Sports Grounds Act, che prevedeva l’obbligatorietà delle licenze per l’agibilità degli stadi e una serie di misure volontarie a discrezione dei singoli club. Per la prima volta i contenuti di un report davano origine a una legge emanata dal Parlamento. Eppure, di fronte alla crescita del football hooliganism, lo spettro del tifo violento oscurò il problema altrettanto grave dell’inadeguatezza di molte strutture e della pessima gestione dell’ordine pubblico. Più che risolvere il preoccupante allarme sicurezza, la politica badò a individuare gli hooligan e a punirli con pene severissime, generando un forte senso di reciproca insofferenza tra tifosi e forze dell’ordine.

L’arrivo di Margaret Thatcher

Salita al potere nel 1979, Margaret Thatcher ereditò una situazione già di per sé abbastanza disastrosa che avrebbe richiesto misure oculate e calibrate per essere risolta – soprattutto alla luce dei risultati delle precedenti inchieste governative. E invece, il suo esecutivo scelse di risolvere la questione utilizzando la sistematica repressione. A risultare decisivi furono tre eventi occorsi nel 1985, annus horribilis del calcio inglese nonché spartiacque nella storia dell’hooliganismo. Gli scontri trasmessi in diretta nazionale del 13 marzo 1985 a Kenilworth Road tra gli hooligan di Luton Town e Millwall con conseguente sospensione della partita e danneggiamento dell’impianto portarono la Thatcher, due settimane più tardi, a tenere un vertice con la federazione per arginare la violenza. Ne uscì un piano composto da sei punti che prevedeva di incrementare l’utilizzo delle telecamere, conferire maggiori poteri alla polizia, vietare la vendita di alcool negli stadi, migliorare le recinzioni, aumentare il numero di all-ticket match e introdurre l’uso delle carte di identità.

Fu in questo frangente che il primo ministro maturò l’idea di un sistema di schedatura obbligatorio, inizialmente finalizzato ad escludere i tifosi ospiti, per poter accedere allo stadio – idea che nel 1989 troverà una concreta regolamentazione nel Football Spectators Act. A convincerla della bontà dell’iniziativa fu David Evans, presidente del Luton Town nonché deputato dei Tory, probabilmente spinto dal desiderio di amicarsi il primo ministro per guadagnarsi un posto in Parlamento – cosa che poi effettivamente avvenne nel 1987.

Ma fu nel mese di maggio che due disastri costati la vita a un totale di 95 persone accelerarono l’implementazione di una nuova legislazione: prima il rogo di Bradford in un impianto in cui erano stati tolti gli estintori per paura che venissero utilizzati come armi, poi il dramma dell’Heysel segnarono il punto di non ritorno. Sebbene avvenuto in Belgio, l’Heysel fu il manifesto dei tre grandi problemi – hooliganismo, controllo del pubblico e stadi fatiscenti – che affliggevano il calcio inglese, nonché l’inevitabile conseguenza della sua totale trascuratezza. L’Inghilterra aveva già avuto esperienza di incidenti mortali simili, ma non aveva mai assistito alla contemporanea deflagrazione di tutte queste criticità. L’elevato numero di vittime, il contesto (una finale di Coppa dei Campioni tra due delle squadre più forti e famose d’Europa) e la copertura in mondovisione indussero tifosi e addetti ai lavori a un esame di coscienza circa gli effetti dell’English disease e della violenza nelle partite che aveva preso piede in modo repentino anche nel resto del continente.

Una volta raggiunto il capolinea non si poteva più procrastinare: servivano misure drastiche e immediate per fronteggiare una situazione divenuta insostenibile. Fu allora che Margaret Thatcher studiò seri provvedimenti incentrati su hooliganismo e gestione dell’ordine pubblico. Era la prima volta che la politica inglese interveniva in maniera decisa nel calcio. La ricetta applicata consistette in dosi massicce di prevenzione e repressione, attraverso la militarizzazione degli stadi, un uso ingente di poliziotti e l’innalzamento di gabbie e recinzioni – secondo il principio che gli hooligan andassero ingabbiati come gli animali per essere resi innocui. Indicativi, a riguardo, i contenuti del McElhone Report del 1977 – che consigliò l’installazione di robuste barriere perimetrali alte almeno 1.8 metri all’interno delle terraces per contenere i movimenti della folla ed impedire invasioni di campo – e del Popplewell Report, l’indagine sull’incendio di Bradford che esortò di ampliare i poteri di arresto della polizia, renderne illimitato il potere di perquisizione ai tifosi prima del loro ingresso negli stadi e fornì quattro soluzioni in scala crescente per contrastare l’hooliganismo: impedire fisicamente agli hooligan già dentro all’impianto di turbare lo svolgimento delle partite, rendendo per esempio le strutture all-seater oppure utilizzando strumenti di contenimento quali, appunto, gabbie e inferriate; vietare loro di assistere alle gare attraverso l’introduzione, da parte dei club, di un sistema di schedatura finalizzato ad estromettere i non soci (e quindi i sostenitori ospiti) poiché ritenuti più inclini a compiere disordini rispetto al pubblico di casa; inserire le telecamere a circuito chiuso, sia come dissuasore contro i violenti che come prova da utilizzare nei loro confronti davanti ai magistrati; infine, una volta identificati, arrestarli e punirli severamente, rendendo reato il lancio di oggetti in campo.

Le misure della seconda metà degli anni Ottanta si basarono, in pratica, quasi esclusivamente su provvedimenti punitivi e controllo. Un approccio quasi liberticida verso la stragrande maggioranza dei tifosi per bene, che lanciava agli hooligan un chiaro segnale: tolleranza zero per le loro malefatte e leggi ad hoc per stroncare il movimento.

Nel 1985 fu emanato lo Sporting Events Act per contrastare il consumo di alcolici, all’epoca considerato una delle cause della devianza hooligan, che rendeva illegale la vendita e il possesso di alcool – oltre che negli stadi e nelle aree limitrofe – anche su treni e autobus. L’anno seguente il Public Order Act conferì ai tribunali il potere di impedire l’accesso negli stadi ai tifosi responsabili di comportamenti violenti in occasione delle partite. L’interdizione, della durata minima di tre mesi, poteva contemplare anche l’obbligo di firma nelle stazioni di polizia. La legge introduceva i reati di sommossa, disordini violenti, rissa, incitamento alla violenza, molestie, provocazione di allarme o di disagio, oltre a sanzionare la discriminazione razziale. Il Public Order Act pose inoltre una norma che vietava la pubblica diffusione di immagini che includevano scene visive o suoni «minacciosi, abusivi o insultanti», punendo il direttore o l’editore del servizio televisivo in caso di violazione.

Nel novembre 1989 il Football Spectators Act avviò la National Membership Scheme, una schedatura implementata attraverso la carta di identità che obbligava i tifosi di tutte le società ad usufruire di una tessera per entrare negli stadi. Chi ne fosse stato sprovvisto avrebbe commesso un reato e rischiato fino a un mese di reclusione.

L’insieme di queste leggi andò a formare nella stampa italiana il cosiddetto “modello inglese thatcheriano”, inteso come la strategia per debellare l’hooliganismo e ripulire il gioco dai teppisti. La realtà dei fatti, tuttavia, è ben diversa e appare più complessa di quanto si possa pensare. L’adozione di questi provvedimenti si inseriva nel difficile contesto economico, sociale e politico che attanagliava l’Inghilterra e influenzava di conseguenza le scelte di Margaret Thatcher.

Mentre la lotta all’inflazione aveva generato una forte recessione e il vertiginoso aumento della disoccupazione, il primo ministro era sopravvissuto all’attentato dell’Ira a Brighton nel 1984 ed era reduce dal braccio di ferro con i minatori, fino a quel momento considerati il «nemico interno» della nazione, terminato nel marzo 1985 con la revoca dello sciopero ordinata dal sindacato dei minatori del Regno Unito. Considerando anche la guerra delle Falkland nel 1982 combattuta e vinta contro l’Argentina – esito che riportò una ventata di patriottismo in tutto il Paese –, l’agenda politica della Thatcher negli anni Ottanta era particolarmente densa di impegni e spinosità. A queste si aggiungeva l’hooliganismo, e in generale la necessità di riformare un sistema calcistico deficitario che aveva visto l’affluenza negli stadi di First Division toccare i minimi storici con medie spettatori talvolta inferiori a 20mila.

La Thatcher, tuttavia, odiava il calcio, non ne capiva granché e ogni questione che lo riguardava veniva percepita come una seccatura. Sconfitti i minatori, il nuovo nemico interno aveva assunto le sembianze dei tifosi, giudicati alla stregua di criminali. Il suo governo descrisse spesso il gioco come un “problema di legge e ordine” e scelse di trattare il movimento hooligan con risolutezza ma senza alcuna prudenza – tanto da allestire un gabinetto di guerra –, fino ad instaurare uno stato di panico nella popolazione e nelle forze dell’ordine. Assistere alle partite era diventato frustrante: gli stadi erano talmente sgangherati che sembravano delle fortezze medievali e i tifosi erano ammassati in gabbie metalliche protette da recinzioni con spuntoni di ferro; la polizia, d’altra parte, era stata investita di un apparente senso di immunità ed era disposta a privare l’individuo delle sue libertà pur di far rispettare l’ordine pubblico.

La Thatcher era convinta che a sbagliare fossero sempre e comunque i tifosi, senza tuttavia considerare la possibilità che ad essere in errore fossero la polizia, i club e la federazione. Chiunque non appoggiasse gli ideali dell’establishment veniva descritto come un «demolitore»: la lista era lunga e comprendeva hooligan, giovani delinquenti, omosessuali e tutti coloro che votavano a sinistra.

D’altra parte, però, la sicurezza degli impianti e la salvaguardia di chi li frequentava rimasero trascurati. Nonostante la quantità di consigli e raccomandazioni ripetuti e spesso simili tra loro, la sensazione è che le società e la politica fossero riluttanti ad investire in strutture di qualità in grado di aumentare il benessere generale intorno all’evento: le prime poiché intente solo ad acquistare i migliori giocatori sul mercato, le secondo perché focalizzate unicamente su un singolo aspetto, l’hooliganismo, di un ben più vasto quadro di decadenza.

Questo complesso deprimente fatto soprattutto di pauradell’hooliganismo, stadi pessimi e una cattiva gestione dell’ordine pubblico si rivelò letale a Hillsborough nel 1989 – fermo restando che le acclarate responsabilità furono gli errori della polizia e i soccorsi tardivi. Hillsborough fu l’evento che concretamente avviò il modello inglese per come lo intendiamo oggi, ovvero quel sistema di riforme finalizzate a creare impianti belli e funzionali e aumentare la sicurezza del pubblico. A idealizzarlo e concretizzarlo non fu la Thatcher, ma il giudice Peter Taylor –nominato dal Segretario di Stato per gli Affari Interni Douglas Hurd – mediante la stesura del Taylor Report all’indomani del disastro di Sheffield.

Modello Taylor

Era il 1990 quando l’edizione finale dell’indagine – racchiusa nei termini di riferimento «di indagare sugli eventi del 15 aprile 1989 allo stadio dello Sheffield Wednesday e di formulare raccomandazioni riguardo i bisogni di controllo della folla e di sicurezza durante le manifestazioni sportive» – venne completata. La Thatcher si dimetterà dieci mesi dopo, quando la ripresa del calcio inglese era appena agli inizi.

Il lavoro di Taylor toccò tutti i problemi del calcio inglese. Se nell’Interim Report si era concentrato sul sovraffollamento perché era stato la causa del disastro di Hillsborough, bisognava pur notare come lo stesso sovraffollamento fosse soltanto una delle criticità in grado di danneggiare il gioco. Esisteva un ben più ampio "malessere generale" provocato da una serie di fattori: stadi vecchi, strutture deficitarie, hooliganismo, ubriachezza e scarsa leadership. Non era quindi solo colpa degli hooligan, ma anche di presidenti che avevano badato ai propri guadagni, non avevano promosso un buon comportamento e apparivano poco interessati ad agire nell’interesse dei tifosi; i giocatori erano arroganti, poco inclini ad accettare le decisioni dell’arbitro e provocatori nelle esultanze – atteggiamenti che avevano portato ad innalzare l’isteria e la tensione tra il pubblico; i comuni e i club non avevano investito a sufficienza per migliorare la qualità delle strutture e offrire qualche attività di intrattenimento nel prepartita, mentre i giornalisti avevano avuto la colpa di mostrare tutti gli atti di violenza senza filtrarne i contenuti e aver costruito una narrazione distopica secondo la quale i tifosi inglesi fossero tutti hooligan pronti a scatenare disordini nelle loro trasferte internazionali.

Taylor riscrisse le norme di sicurezza degli stadi inglesi e concepì una nuovo modo di intendere il gioco: più moderno, più bello ma soprattutto più sicuro. Essendo la «sicurezza e il comportamento della folla strettamente connessi alla qualità delle strutture e a quelle norme che in esse vengono incentivate», il giudice ritenne doveroso analizzare ogni singolo aspetto del problema. Il ragionamento di base era questo: servizi deficitari abbassano gli standard di condotta, mentre impianti adeguati migliorano (soprattutto in termini di sicurezza) il comportamento degli spettatori. Pur ammettendo che «non esiste una panacea che garantisca la sicurezza assoluta e risolva tutti i problemi relativi al comportamento e al controllo della folla», Taylor scrisse di essere «soddisfatto che i posti a sedere si avvicinino a questi obiettivi meglio di qualsiasi altra singola misura».

L’assenza di adeguati servizi igienici e di contenitori dei rifiuti aveva incoraggiato i tifosi a comportarsi in modo primitivo, orinando sui muri e gettando le cartacce per terra, con la polizia che si limitava ad un richiamo verbale.

L’esperienza da stadio era diventata poco attraente e Taylor constatò come l’hooliganismo avesse costituito una piaga a partire dagli anni Settanta a causa di comportamenti aggressivi e violenti che si tramutavano in invasioni di campo, assalti ad arbitri e giocatori, lancio di monete alla polizia, cori osceni e razzisti e devastazioni sui mezzi di trasporto e nei locali. La politica della segregazione dei sostenitori ospiti in gabbie rinforzate con spuntoni e filo spinato, principale caratteristica della strategia di controllo della folla, aveva portato più danni che benefici, limitandosi soltanto a contenere l’hooliganismo ma non ad eliminarlo. I tifosi, ingabbiati in strutture più simili a prigioni che a settori di uno stadio, avevano maturato un’accentuata ostilità nei confronti degli altri spettatori – ulteriormente esasperata dal percorso di avvicinamento allo stadio che ricordava più una «colonna di prigionieri di guerra fatti marciare sotto scorta». La crescita dell’hooliganismo era avvenuta in parallelo con l’assunzione di alcolici, nonostante si facesse presente che la stragrande maggioranza degli spettatori detestasse la violenza e desiderasse solo passare un pomeriggio di svago guardando le partite.

Il modello proposto da Taylor riconobbe che per contrastare le nefandezze di pochi non bisognasse creare disagio alle milioni di tifosi per bene, ma soltanto individuare – attraverso le telecamere e il nome dell’intestatario del biglietto cui è assegnato un preciso posto a sedere – e arrestare i colpevoli. Da qui ecco il suo secco rifiuto alla schedatura obbligatoria perché «ingiusta» e «sproporzionata». Le linee guida da lui tracciate avevano a che fare, al contrario, con il potenziamento delle telecamere e degli exclusion order – l’equivalente dei nostri Daspo – cui affiancare l’obbligo per i colpevoli di football-related offence di trascorrere le due ore della partita all’interno di attendance centre oppure di considerare l’introduzione di un sistema di tagging attraverso l’utilizzo di braccialetti elettronici. Anziché l’approccio draconiano thatcheriano, la sua indagine richiamò ad una maggiore sinergia tra le società ed i propri sostenitori, chiedendo al tempo stesso che le forze dell’ordine utilizzassero quando possibile l’arma del dialogo e della collaborazione.

Se la Thatcher non risolse il problema ma lo esasperò, promuovendo un modello inglese sinonimo di repressione sistematica, costruzione di barriere e creazione di uno stato di polizia – cui aggiungere un disprezzo generale verso la categoria del tifoso –, Taylor partì dal presupposto che stadi belli avrebbero migliorato il comportamento degli spettatori e con esso la fruibilità dell’evento. Quindi via le gabbie a forma di prigione e gli spuntoni a strapiombo perché «intimidatori» e limite massimo per l’altezza delle recinzioni fissato a 2,2 metri – dando comunque margine alle società di decidere se continuare ad adottarle o rimuoverle del tutto –, ristrutturazione totale degli stadi entro il 1994-95 a carico dei club e in parte sostenuta da un fondo di circa 120 milioni di sterline messo a disposizione dal governo e una stretta sui certificati di sicurezza. Le amministrazioni comunali avrebbero dovuto indicare le disposizioni vincolanti della Green Guide e quelle da attuare con una maggiore flessibilità, coadiuvate da un Advisory Group di professionisti deputati a consultare la dirigenza e delle associazioni di tifosi prima di prendere qualsiasi decisione riguardo il miglioramento della sicurezza del pubblico.

Sulla questione delle responsabilità, il giudice scrisse che i club avrebbero dovuto smettere di delegare il controllo del pubblico alla polizia, prediligendo invece l’utilizzo di steward «in salute, dinamici e robusti, di età compresa tra i 18 e i 55 anni e ben addestrati». Questo avrebbe ridotto le spese a carico delle singole società, sulle quali gravavano (e gravano tuttora) i costi per l’impiego di agenti all’interno dello stadio, portando al tempo stesso un clima più amichevole e meno inquisitorio rispetto al passato. Gli steward avrebbero dovuto presenziare le uscite, tenere liberi i cancelli e direzionare gli spettatori ai rispettivi posti, mentre la polizia si sarebbe occupata dei tifosi ospiti e della gestione di gare ad alto rischio. Taylor ritenne opportuno non vendere alcolici dentro gli impianti e rendere reati, passibili di arresto, l’invasione di campo e il bagarinaggio. Infine, gli all-ticket match avrebbero dovuto essere limitati solo a quelle partite con un’alta probabilità di fare il tutto esaurito, senza alcuna possibilità di vendere biglietti il giorno stesso dell’incontro.

Taylor, di fatto, definì le linee guida di un calcio prima morto e grazie a lui rinato che portarono nel 1992 alla nascita della Premier League – anche sulla scia dell’enorme impatto avuto dai Mondiali di Italia 90 sui tifosi inglesi. Quell’edizione della Coppa del Mondo fu l’ultimo step che trasferì il gioco in una nuova dimensione borghese: non più come un semplice evento sportivo monopolizzato da delinquenti, stadi fatiscenti e una sicurezza pressoché assente, ma come uno spettacolo mediatico dotato di valore e in grado di generare profitti. Se il calcio inglese di oggi è diventato lo spettacolo dentro e fuori dal campo che siamo abituati a vedere non è perché lo ha voluto, ma perché è stato costretto ad esserlo.

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