Il 14 maggio 2017 Maria Sharapova è al Colosseo per un evento promozionale. All'uscita riesco a darle un mio biglietto scritto a mano e firmato con la mia mail. Qualche ora dopo il suo allenatore mi scrive: ha un accredito per me come ospite di Maria Sharapova per la sua prima partita agli Internazional BNL d'Italia. Il giorno dopo sto guardando la partita di primo turno contro Christina McHale dalla tribuna giocatori e non me lo dimenticherò mai.
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Maria Sharapova rientrava da pochissimi giorni dopo la squalifica per l'assunzione di meldonium che l’aveva tenuta lontana dal tennis sedici mesi, e avevo bisogno di vederla vincere più di quanto avrei voluto vincere io se mi fossi ritrovata per qualche motivo nel main draw di un WTA Premier. Volevo vederla vincere, ma Maria Sharapova è sempre stata il mio unico vero idolo sportivo dal momento in cui l’ho vista perdere.
Christina McHale c’era quasi riuscita nel 2014 a Madrid, al secondo turno, quando si era ritrovata in vantaggio 4-1 al terzo set, dopo aver vinto il secondo per un break fortunato sull’ultimo gioco, e aveva avuto una palla per andare sul 5-2. A cinque punti dall’uscire dal primo Premier Mandatory della stagione su terra, quella volta Maria Sharapova aveva vinto la partita in rimonta, poi il torneo, poi il secondo slam sul rosso. Quest’anno invece era uscita davvero al secondo turno a Madrid, grazie alla miglior performance della carriera di Eugenie Bouchard; le serviva una striscia di vittorie per riprendere punti e confidenza, e McHale a Roma poteva essere un segno del destino. È una partita facile, vince davvero, e il giorno dopo sono di nuovo lì per il secondo turno contro Lucic-Baroni, quando all’inizio del terzo set un infortunio alla coscia la costringe al ritiro, e a rimanere fuori ancora per metà stagione.
Il tennis ti fa vedere nel gioco, nel rettangolo delle linee del campo, l’infinita solitudine di un essere umano che lotta contro le proprie imperfezioni – ed è quando quella lotta è particolarmente difficile che si vede meglio chi sei. Vedendola giocare ho amato il modo in cui, vincendo, imponeva il proprio dominio su tutto il campo, sull’avversaria e su sé stessa; e il modo in cui, pur perdendo una partita, non ha perso mai almeno l’ultima parte di quel dominio – il poter sempre vincere la partita successiva.
Questo per me è il significato che ha intessuto il tempo dei suoi infortuni e quello della sua squalifica: sei un essere umano imperfetto, ma non lascerai che siano paure e difficoltà a prendere il sopravvento. Il suo ritiro lascia un vuoto nel tennis, ma il senso non cambia: Maria Sharapova è stata l’idea che ti costringe a essere, sempre, la versione migliore di te stesso.
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Quando il 7 marzo 2016 Maria Sharapova convoca una conferenza stampa in California, trasmessa in streaming ovunque, tutti pensano che possa essere soltanto per annunciare il ritiro. Le sue prime parole sono: «Se avessi voluto annunciare il mio ritiro non l’avrei fatto in un hotel della periferia di Los Angeles su un brutto tappeto del genere». La notizia era in realtà quella di essere risultata positiva a un test antidoping, aveva chiesto e ottenuto da ITF e WADA di poter essere lei a darne l’annuncio, e l’intento quello di spiegare l’uso della sostanza e di assumersene la responsabilità.
Io ero quasi contenta: un errore umano, la dignità di non cercare scuse e di non dare la colpa ad altri; tra i vari annunci possibili non mi sembrava il peggiore. Dice di aver usato il meldonium, anzi il mildronate, per anni su prescrizione del medico di famiglia: scopro da internet che in Russia è diffuso come da noi l’aspirina (e poco dopo scopro anche che il suo ban può essere visto come una mossa strategica della WADA per danneggiare gli atleti russi alle Olimpiadi di Rio). Invece per settimane il tennis non parla d’altro e le reazioni più aggressive sono quelle con più eco: per alcuni è l’occasione di condurre la competizione fuori dal campo, da una posizione ribaltata, e nei primi mesi in cui sconta la squalifica tutti i titoli sono su di lei, nemico pubblico dello sport. Il tribunale ITF inizialmente chiede la squalifica massima, di 4 anni. In appello sarà ridotta a 15 mesi: il TAS dichiarerà non intenzionale la violazione, stabilendo che la sostanza non era utilizzata per migliorare le prestazioni ma per ragioni mediche; ma il risentimento è radicato altrove.
L’annuncio del suo ritiro, invece, è arrivato il 26 marzo 2020, nella forma di un essay dal titolo “Tennis – I’m saying goodbye” pubblicato in contemporanea e in esclusiva su Vogue e Vanity Fair, con un video di lei stessa che lo legge seduta su una poltrona di velluto, con accanto un tavolino in ferro battuto con sopra un vaso di rose bianche. In bianco anche lei, un po’ come a Wimbledon, dove ha vinto il suo primo slam, e come nella foto da bambina che ha pubblicato sul retro della copertina del suo libro e poi su Instagram per l’addio.
Appartiene alla natura del tennis il fatto di vivere di buoni e soprattutto di cattivi presagi. Il ritiro è un evento che ogni giocatore può solo allontanare a spinte di stati di grazia, ma trovare il momento e il modo giusto di prendere questa decisione può fare la differenza tra l’immagine di un vincente e quella di chi si trascina fino a fare un po’ pena per la propria ostinazione. Nel carattere di chi resiste abbastanza da arrivare ad alti livelli, i sintomi della pressione emergono con forme private di ritualità, e di follia. Il presagio di un ritiro può stare in una sconfitta, in un infortunio, nel logoramento della tenuta mentale. E il tennis vive nel presagio del ritiro di quei campioni leggendari, più grandi dello sport che giocano, che se ne vadano portandosi via la possibilità stessa della luce.
Il ritiro di Maria Sharapova è stato curato da redazioni d’alta moda perché nulla nella luce potesse essere meno che perfetto. Non c’è nulla che non fosse già noto di quello che racconta di sé stessa nel video; non c’è nulla che possa stupire nella sua decisione, non c’è alcun dubbio che sarà ancora Maria Sharapova anche dopo lasciato il tennis. Senza mostrare emozioni, come è sempre stata in campo, riappare già al di là della scelta, in un bianco senza contorni.
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Gli articoli che raccontano il suo ritiro parlano di uno strano silenzio, ma in realtà si riferiscono prevalentemente al fatto che Serena Williams non ha fatto alcun commento, e come lei qualche altra tennista. Nel 2018, raffreddate ma non estinte le critiche sul meldonium, Maria Sharapova rispondeva a una domanda sui suoi rapporti nel circuito: «Far parte di uno stesso sport non vuol dire dover essere amici di tutti. Sei una tennista, allora devi frequentare tenniste. Ma il tennis è solo una parte della nostra vita, abbiamo altri interessi, facciamo altre cose». Nel tennis gli omaggi alla sua carriera sono arrivati dalle colleghe russe e da quei pochi altri che si sono avvicinati a lei: Kei Nishikori, Monica Puig, Petra Kvitova, Stefanos Tsitsipas, oltre che Riccardo Piatti, che è stato il suo ultimo allenatore, e Jannik Sinner. In una settimana sono usciti centinaia di migliaia di contenuti, omaggi, commenti, celebrazioni e critiche, la sua faccia è su un maxi-cartellone pubblicitario Nike a New York, lei è stata in tv, ha partecipato alle riprese di un film, studierà architettura.
Non sono sicura che mi piacerà la nuova versione di Maria Sharapova, ma la mia tesi per cui Maria Sharapova sia l’idea che ti costringe a essere la versione migliore di te stesso prevede che la versione migliore non sia necessariamente la più giusta, né tantomeno quella che gli altri si aspettano. La versione migliore corrisponde semplicemente a fare il meglio che puoi, non secondo un criterio esteriore, ma per quello che tu ritieni sia la cosa migliore da fare, sulla base delle tue capacità ma anche delle regole che scegli di rispettare e della tua visione del mondo.
Nell’ultima finale slam della sua carriera, giocata agli Australian Open del 2015, Maria Sharapova ha perso 6-3 7-6(5) contro Serena Williams. Poi ha perso ancora con lei in semifinale a Wimbledon quello stesso anno, di nuovo agli Aus Open l’anno dopo ai quarti, e infine agli US Open del 2019, con un brutale 6-1 6-1 in cinquantanove minuti al primo turno, chiudendo per 20 a 2 il bilancio della non rivalità più famosa di questo sport. Il secondo set di quella finale è un tennis ai limiti dell’impossibile, e contiene uno dei punti per me più indimenticabili mai giocati da Maria Sharapova. Sul 4-5, 30-40 Sharapova annulla un championship point tirando prima un rovescio lungolinea e poi un dritto inside out in accelerazione esattamente sull’incrocio delle righe.
Foto di Timothy A. Clary / AFP via Getty Images.
Quel set mostruoso è tutto giocato a un’intensità tale che è difficile respirare anche a guardarlo: non è trance agonistica, è lucida fame di violenza; ma puoi tirare così solo senza guardare, solo senza preoccuparti del punteggio, solo senza pensare alla coppa che ti stai giocando. Tante volte per spiegare la sua mentalità è stato raccontato che già da ragazzina si allenava mettendo in ogni singolo colpo la concentrazione che si mette per un match point a Wimbledon, ma quello che è davvero oltre l’umano in lei è la capacità di annullare un match point dell’avversaria tirando con la sicurezza con cui si colpisce la palla in allenamento: la versione migliore del tuo colpo.
Serena vince, con la sua quota collaterale di dramma, ma quello che c’è nel corso della partita non è soltanto competizione, competitività agonistica. È rivalità, che più che un criterio misurabile è il sentimento provato nei confronti di un avversario. L’etimologia viene dal condividere una stessa riva di un fiume ed essere gelosi che l’altro possa prendersi l’acqua più buona. Ci sono diverse tenniste che non sono state semplicemente avversarie di Maria Sharapova, ma hanno voluto essere sue rivali. Una rivalità che in alcuni casi è stata fabbricata dai giornalisti, alimentando le polemiche e creando un aperto contradditorio, come per i primi tornei giocati dopo il rientro dalla squalifica. Eugenie Bouchard e Dominika Cibulkova hanno giocato il miglior tennis della propria carriera contro Maria Sharapova, e anche Kristina Mladenovic e Caroline Wozniacki contro di lei hanno messo in campo performance di livello eccezionalmente alto.
L’aggettivo “femminile” messo vicino a rivalità ha impedito che questi sentimenti venissero raccontati sul piano sportivo, riducendoli a qualcosa di appartenente alle donne in quanto donne – che sono fatte così, che si fanno battute invidiose perché vogliono essere le più belle. Le conferenze stampa delle tenniste sono desolanti, ma non per colpa loro. Dal tennis femminile è stato cancellato ogni motivo agonistico: il racconto ha preso in prestito di volta in volta le vite private, il femminismo commerciale à la Taylor Swift, pretesti da star system.
Il critico d’arte Sebastian Smee ha scritto un libro sul ruolo delle rivalità nell’arte, in una prospettiva in cui non si tratta di risentimento, ma di una relazione in cui ci si apre a qualcun altro che incarna le nostre debolezze, un confronto con la vulnerabilità dal quale emerge la grandezza di un artista, come di una vittoria sportiva. Per come Maria Sharapova imponeva il proprio gioco, in partita, era sempre necessario affrontarla come una rivale, più che come un’avversaria: non solo rispondere ai suoi colpi, ma difendere la propria metà campo opponendo qualcosa (di emotivo, caratteriale, volitivo) al suo modo di dominare l’intero campo. Ha elevato ogni partita al massimo livello di competizione e di agonismo, lottando come se ci fosse sempre dalla sua parte qualche divinità, e questo tipo di rivalità è quanto di più bello e intenso si possa trovare nel tennis. Se hai bisogno della versione migliore di te stesso, hai bisogno che esista qualcun altro, oltre te stesso, in grado di farla venire fuori, e magari di spingerla ancora oltre (e quel bisogno può essere, dentro di te, più o meno maturo o conflittuale).
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In effetti, se Serena avesse giocato contro tutte le avversarie come ha giocato contro Maria Sharapova nel corso della carriera, oggi avrebbe circa 47 slam, e per crederci basta guardare i quarti di finale dell’Australian Open 2016 e poi pensare che perderà in finale da Angelique Kerber. Comunque Serena è probabilmente la più grande tennista di tutti i tempi, e questa epoca tennistica le appartiene. Maria Sharapova, però, è l’unica altra giocatrice ad aver completato il career gran slam negli ultimi vent’anni, ad aver vinto anche le WTA Finals e una Fed Cup, e ad aver occupato un posto in top 10 per dieci anni. Meglio di Serena: per 13 anni consecutivi ha vinto almeno un titolo, per 11 è stata l’atleta più pagata al mondo. Senza il talento di Williams, ha spinto sempre più in alto il livello della competizione, dentro e fuori dal campo.
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I loro momenti di rivalità sono stati lo scontro tra due opposte versioni dell’agonismo, della forza, e del dominio. In gioco c’era la definizione di un paradigma morale, e una narrazione in grado di scavalcare il soffitto di cristallo: proprio perché il tennis è lo sport femminile più seguito, pagato e professionalizzato, ha la possibilità e la responsabilità di creare le storie che trovino posto in una mitologia universale. Serena è in sé una leggenda, ma ha bisogno di un’antagonista per essere raccontata. Williams e Sharapova sono due contrari assoluti, trascendono il campo da tennis e incarnano tutte le simbologie di opposti possibili. Ancora più che esteriori, identitarie, estetiche, le differenze più forti sono nel gioco: da una parte controllare le proprie emozioni oltre ogni resistenza, dall’altra esoricizzarle e sfogarle, drammatizzando ogni punto. Questo ha reso le loro partite le più affascinanti e divisive di sempre, malgrado i risultati; e questo le ha rese antipatiche a chi le ha giudicate come donne prima che come sportive.
È impossibile non schierarsi da qualche parte di questo spettro emotivo, e per quanto entrambi gli estremi siano controversi, le emozioni sono umane e annullarle non sarà mai un buon modo per conquistare il cuore della gente. Dipende da cosa scegli di vedere nella freddezza di Maria Sharapova: per me è stata il valore del rispetto per sé stessi, di quello che fai per migliorarti, anche quando il sacrificio non ti ripaga, anche quando vieni criticata. In realtà penso che l’intero genere femminile avesse bisogno di assistere allo spettacolo dell’atleta più pagata al mondo a cui viene chiesto da milioni di persone di sorridere di più, di abbassare la voce, e di lei che per diciassette anni di carriera fa semplicemente come le pare, e continua a farlo. Non ho mai potuto fare a meno di pensare che quella freddezza sia entrata sotto la pelle di Serena, che abbia condizionato la sua gestualità. È un’influenza che vedo anche in altre tenniste, come in Madison Keys, Naomi Osaka, e nella Garbine Muguruza degli ultimi anni. Dominare le proprie emozioni non significa non provarle, ma solo essere più forte di loro: senza l’intensità che sta sotto quella freddezza Maria Sharapova non sarebbe stata così forte, né così divisiva.
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Nella prima parte della sua carriera, Maria Sharapova aveva un servizio praticamente perfetto, che l’ha portata a vincere Wimbledon, le Finals, US Open, Aus Open, e Fed Cup, e l’ha tenuta tanto tempo in cima al ranking mondiale. Ma eseguire sempre, per così tanto tempo, un movimento del servizio così intenso e violento ha compromesso i legamenti della sua spalla in modo irrimediabile: gli infortuni sono iniziati nel 2007, l’hanno portata a doversi operare nel 2008, e sono tornati nel corso del tempo fino a essere una delle ragioni più essenziali del suo ritiro a trentadue anni. Aver dovuto rinunciare a un servizio perfetto l’ha portata a potenziare altri aspetti del suo gioco nella sua seconda carriera, ma questa è la prova materiale più evidente del costo delle proprie scelte.
Foto di Julian Finney / Getty Images.
In partita, giocare ogni colpo nella sua versione migliore vuol dire scegliere sempre di rischiare all’estremo, anche quando la tua avversaria non è al tuo livello e non è necessario giocare il tuo miglior tennis. Sharapova e Radwanska si sono incontrate 15 volte, con un bilancio di 13 a 2: per il modo in cui si combinava il loro tennis, era difficile che la sensibilità e la creatività di Agnieszka Radwanska avessero modo di entrare in partita. Eppure aveva un talento impressionante, che portava Sharapova a cercare di spingersi oltre.
Alle WTA Finals del 2014, in una partita di girone che deve vincere in due set per accedere alle semifinali, MS è avanti 7-5 e 5-1, 40 pari su servizio Radwanska. Gioca un punto pazzesco, si guadagna il match point, ma sbaglia, e in maniera surreale arriva a perdere quel set, al tie-break, con un doppio fallo, autoeliminandosi dalle Finals – e questa è la prova immateriale più evidente del costo delle proprie scelte.
Quello che ha un costo è cercare di dominare la versione migliore di te stesso, perché sarà comunque imperfetta, e lo sforzo messo in una direzione verrà pagato in un’altra. Se fosse scesa a compromessi con il dolore alla spalla, cercando un movimento del servizio meno devastante, forse avrebbe sofferto meno per gli infortuni. Se avesse saputo giocare un tennis più di sicurezza, forse avrebbe concesso meno a certe avversarie. Se avesse sorriso, abbassato il tono del grunting, e se si fosse concessa di più, forse sarebbe stata più amata, riconosciuta, e applaudita. Ma se si cede alle aspettative, alle pressioni, e alle critiche, non si può chiedere a sé stessi lo sforzo quotidiano di resistere alla frustrazione, alla stanchezza, e alla rabbia.
Foto di Elsa / Getty Images.
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Il biglietto che le avevo scritto a maggio del 2017 era il biglietto di una fan, un messaggio emotivo su quanto abbia significato per me la sua volontà, il rispetto per sé stessa e per le proprie regole, la sua forza e il coraggio mostrati in campo e fuori. L’anno prima avevo avuto paura che si stesse ritirando, che non l’avrei più vista, e il fatto che fosse tornata dava un valore diverso alla possibilità di vederla giocare, al tempo passato e al suo significato. L’ho scritto perché non volevo che quello che lei aveva rappresentato per me morisse dentro di me; e quando è arrivato l’annuncio del suo ritiro non avevo molta altra scelta. Dopo il suo ritiro faccio i conti con il fatto di averle lasciato una gran parte della responsabilità nel procedimento verso la versione migliore di me stessa; ma allo stesso tempo non ha senso per me che gli altri possano vedere questo momento come un dispiacere che mi è capitato, perché quello che ha lasciato lei a me è estremamente vivo. L’ha lasciato a tutti, in realtà. Come si fa a scrivere come Maria Sharapova gioca a tennis?
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Agli Internazionali BNL d’Italia del 2017, quando la vedo giocare dalla tribuna ospiti, vince la partita di primo turno, e si ritira al secondo. Da quel momento salta praticamente tutta la stagione fino agli US Open. È il primo slam dopo la squalifica, e riceve una wildcard. Non vince una partita agli US Open dal 2014, e viene sorteggiata contro la testa di serie numero 2 del torneo, Simona Halep. Quando la partita inizia, nella sessione serale dell’Arthur Ashe, qui da noi è l’una di notte. Ancora di più volevo vederla vincere più di quanto avrei voluto vincere io stessa, e lei mi regala la partita più bella dell’anno, forse il miglior primo turno di uno slam di sempre, più bella di qualsiasi finale io abbia visto dopo quel giorno: vinta al terzo set, dopo quasi tre ore del miglior tennis possibile, che è un’altra cosa che non dimenticherò mai.
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Il ritiro di Maria Sharapova arriva in un momento in cui nel tennis si sente più parlare di ritiri che non di vittorie o sconfitte, pochi giorni dopo quello di Caroline Wozniacki e pochissimi prima di quello di Johanna Larsson. Il ritorno di Kim Clijsters è stato accolto con quella particolare ansia di dimostrare festosità che manifesta chi ha ricevuto troppe brutte notizie di seguito. Nel 2019 si sono ritirati: Tomas Berdych, David Ferrer, Nicolas Almagro, Dominika Cibulkova. Prima Agnieszka Radwanska, Lucie Safarova, Mikhail Youzhny – anche Roberta Vinci e Francesca Schiavone, seguendo Flavia Pennetta.
C’è stato un momento tra il 2016 e il 2017 in cui sono arrivati in rapida sequenza il ritiro di Ana Ivanovic, gravidanze per Victoria Azarenka e Serena Williams, aggressione a Petra Kvitova, squalifica per Maria Sharapova, e il tennis femminile sembrava uno spettacolo teatrale di sole comparse. Da quel momento in poi ci sono state otto vincitrici slam diverse, tutte nate negli anni Novanta. Il tennis vive di buoni e soprattutto di cattivi presagi: per reazione il tennis maschile ha iniziato a vivere il presente pensando già che qualsiasi futuro ci farà sentire nostalgia del passato, cercando in anticipo qualche appiglio per non rimanere troppo spaesati, mentre il ritiro di Federer, Nadal e Djokovic è l’evento costantemente anticipato che getta la sua luce su ogni torneo giocato.
Le divinità se ne vanno, ma restano le tracce: Maria Sharapova ha lasciato al tennis il significato più intenso della competizione, e a chiunque senta la sua mancanza la possibilità di cercare di essere la versione migliore di sé stesso.