Dopo una vita da calciatore, Mario Kempes è diventato un apprezzato commentatore per la versione latinoamericana di ESPN. È uno dei pochissimi ex calciatori che sembra davvero adatto a questo nuovo lavoro e che pare a suo agio nel mondo della comunicazione. Ha da poco pubblicato un’autobiografia chiamata El Matador, e ha un sito curatissimo con tanto di logo personale, e-commerce e rassegna stampa. Su YouTube è disponibile anche un recente documentario, trasmesso da ESPN, in cui racconta la sua storia. Vista da fuori, l’attenzione per la sua legacy mi sembra un modo per riscattare la scarsa considerazione che gli ha riservato la storia del calcio. Scarsa almeno in relazione a quello che è stato Kempes all’apice della sua carriera. Nella sezione inglese della rassegna stampa del suo sito l’ultimo articolo pubblicato è un pezzo dell’anno scorso di These Football Times dal titolo eloquente: “I sottovalutati gol di Mario ‘El Matador’ Kempes, l’uomo che ha fatto vincere la Coppa del Mondo all’Argentina”.
Non c’è dubbio che Kempes sia di fatto una figura minore nella storia del calcio, almeno rispetto ai più grandi. La sua affermazione nel calcio europeo è arrivata subito dopo quella di Cruyff e appena prima di quella di Maradona, venendo inevitabilmente schiacciato dalla memoria di entrambi. Il suo più grande risultato da calciatore, il Mondiale del 1978 vinto da capocannoniere, è stato insabbiato dal rimorso per i crimini commessi dal regime dei generali. Perfino in Argentina è stato messo in secondo piano da quello del 1986 perché, insomma, come si fa a competere con Maradona. Con il gol del secolo, con la mano di Dio. Per di più, Kempes non ha mai vinto un campionato in Europa, pur avendoci giocato diversi anni, e il suo Valencia non è mai arrivato oltre il quarto posto. Certo, nella sua bacheca ci sono una Coppa del Re, una Coppa delle Coppe e una Supercoppa Europea ma ovviamente non è la stessa cosa. Insomma, forse era inevitabile che non venisse riconosciuto per quello che è stato.
Per queste ragioni, oggi fa strano sapere che però è esistito un momento in cui Kempes veniva messo sullo stesso piano di Johann Cruyff. Anzi, in cui sulla TV spagnola si diceva apertamente che l’olandese avesse addirittura qualcosa in meno, cioè che “Cruyff non ha mai avuto le capacità di finalizzazione dell’argentino”. Nell’estate del 1978 Kempes era descritto, sempre dalla TV spagnola, come “la gamba destra più favolosa del mondo” e, complice la decisione di Cruyff di trasferirsi negli Stati Uniti, l’uomo immagine della Liga. Il giocatore che avrebbe potuto far vincere il campionato che al Valencia mancava dal 1971.
Kempes era arrivato in Spagna nel 1976, ad appena 22 anni, dal Rosario Central, in quel modo magico in cui si faceva scouting prima dell’egemonia della televisione. I dirigenti del Valencia ne erano venuti a conoscenza dalla rivista sportiva "El Grafico", molto influente in Argentina, e avevano deciso di scommetterci, nonostante ai Mondiali del 1974 non avesse praticamente lasciato traccia. Il suo impatto con la Liga, però, fu devastante. Nelle sue prime due stagioni al Mestalla, Kempes vinse il Trofeo Pichichi, cioè il trofeo di capocannoniere del campionato, segnando rispettivamente 24 e 28 gol. Nei dieci anni precedenti in Liga nessuno era mai riuscito a superare le 24 reti e per trovare un giocatore che avesse superato i 50 gol segnati in due stagioni consecutive bisognava tornare ai tempi del grande Real Madrid di Puskas e Di Stefano. Il primo ne aveva segnati 53 tra il 1959 e il 1961, il secondo 55 tra il 1955 e il 1957.
A rendere ancora più impressionanti i record di Kempes c’era poi il fatto che non era nemmeno una vera prima punta: agiva di fatto da ala sinistra in un tridente molto fluido, completato da Johnny Rep sulla destra e da Carlos Diarte, che era il vero numero nove.
La modernità
Con il metro dei numeri e i trofei, però, è impossibile capire cosa è stato Kempes, che all’apice della sua carriera aveva una carica iconica che si può apprezzare solo guardandolo con i propri occhi.
Con le gambe lunghissime, la stazza imponente, i capelli voluminosi che gli scendevano sulle spalle, Kempes sembrava l’incontro tra la coolness psichedelica di Jimmy Page e la maestosità fisica di un robot giapponese come Daitarn 3. Nelle immagini di repertorio recuperate dalla TV spagnola nel lungo documentario a lui dedicato “Vintage Kempes”, l’attaccante argentino possiede tutti gli elementi più iconici degli anni ’70: le camicie colorate aperte sul petto villoso, la catenina d’oro che gli scende sui pettorali, un accenno di monociglio. Fuori dal campo, sarebbe potuto tranquillamente essere uno dei personaggi della California immaginata da Starsky & Hutch. Sarebbe stato perfetto su una Ford Gran Torino.
Era sul campo, però, dove l’icona di Kempes prendeva fuoco e diventava viva. L’attaccante argentino giocava quasi sempre con i calzettoni abbassati e, com’era uso a quel tempo, senza parastinchi. La somma delle due cose evidenziava ancora di più quelle che a me, dalle foto del tempo, sembrano caviglie enormi - la conferma carnale di quella che era una delle sue caratteristiche più evidenti, e cioè il tiro potentissimo. La bomba.
Tutto ciò che faceva in campo Kempes sembrava emanare un’energia inarrestabile. Innanzitutto perché amava arrivare in porta partendo da lontano. Kempes non è mai stato una prima punta di ruolo eppure le sue doti di finalizzazione e la sua abilità di muoversi in area lo rendevano sempre il numero nove di fatto. Mentre i difensori erano impegnati a marcare i veri attaccanti in area sapevano che il reale pericolo sarebbe arrivato da lontano, come una carica di cavalleria che spazza uno scontro affollato tra soldati semplici. E per la forza con cui correva e i capelli lunghi che gli ondeggiavano sulle spalle Kempes sembrava avere davvero la maestosa eleganza del cavallo di razza.
Esiste una parola più adatta di “cavalcata” per descrivere questa azione?
Quel suo galleggiare sulla trequarti, ricevendo in quelli che oggi chiameremmo mezzi spazi, era incredibilmente moderno e soprattutto ciò che lo rendeva così imprevedibile. Partiva palla al piede da punti del campo che allora sembravano inverosimili contro difese schierate che pensavano di poterlo controllare facilmente. Almeno fino al momento in cui non ritrovavano la palla in fondo alla rete, lo stadio in delirio e Kempes con le braccia al cielo che correva verso il pubblico con gli occhi sgranati e la bocca spalancata.
Da un punto di vista esclusivamente tecnico, quello che rende incredibilmente attuale Kempes è la sua maestria unica (e sembra unica ancora oggi) nel controllo orientato. Kempes aveva capito l’importanza di utilizzare il primo tocco non solo per controllare il pallone, ma anche e soprattutto per mettersi immediatamente in condizione di correre verso la porta o di tirare. E lo sapeva fare in maniera talmente sublime che spesso non aveva nemmeno bisogno di utilizzare la sua forza fisica per superare l’avversario, che evitava già con il primo controllo. Insomma, spesso gli avversari non riuscivamo nemmeno a toccarlo.
Un’arte che è arrivata alla sua maturazione definitiva durante la finale dei Mondiali del 1978, con il decisivo gol del 2-1 segnato alla fine del primo tempo supplementare contro quell’Olanda che già era arrivata in finale quattro prima (ma priva di Cruyff, che aveva deciso di rimanere a casa per timori sulla sicurezza della sua famiglia dopo che l’anno prima era stata presa in ostaggio da un gruppo di malviventi). In quel caso Kempes aveva ricevuto ai limiti dell’area da Bertoni, che però gli aveva dato una palla troppo lunga attirando l’intervento di un difensore olandese. Invece di fermare la corsa e proteggere il pallone, però, Kempes è andato dritto per dritto, in quel modo ineluttabile che credo spaventasse davvero i difensori. Con un doppio tocco minimale ma eseguito a una velocità che non sembra reale per quelle gambe così lunghe, prima d’esterno e poi d’interno, ha evitato i due difensori olandesi che si frapponevano tra lui e la porta. Non dribblandoli, ma saltandoli, come fa un atleta nei 100 metri a ostacoli.
All’apice della sua carriera, orientativamente tra il 1976 e il 1980, Kempes era arrivato a un livello di coordinazione del proprio corpo - nell’associazione cervello-piede - che quest’abilità del controllo orientato era riuscito a replicarla su spazi e in tempi sempre più piccoli. Ovvero avvicinandosi sempre di più all’area. I suoi gol più incredibili, per me, sono quelli in cui si mette nelle condizioni di battere a rete controllando palloni in aree affollatissime, in cui sembra emanare un campo magnetico che impedisce agli avversari lì a fianco a lui di intervenire.
Un esempio è il 3-0 nella celebre partita contro il Perù ai Mondiali del 1978, in cui chiama un uno-due a Luque all’altezza del dischetto del rigore appoggiandogli un pallone piovuto in area con il petto e scappando subito dopo alle spalle del diretto marcatore. Un’azione incredibilmente difficile anche solo da pensare che lo porta a tirare al limite dell’area piccola completamente libero. E che si conclude, manco a dirvi, con una bomba terrificante alla destra del portiere.
Se oggi Kempes va considerato come un giocatore moderno è per l’idea di completezza che restituiva. Kempes, già quasi mezzo secolo fa, era quell’attaccante-che-sa-fare-tutto che adesso per esempio rivediamo in Firmino. A questo proposito non va dimenticato nemmeno il suo raffinatissimo istinto creativo che esercitava con un utilizzo del destro da numero 10 puro. Kempes non era un giocatore ossessionato dalla porta e amava anche rimanere sulla trequarti a fungere da cardine creativo della propria squadra. Al Valencia, per dire, era il giocatore che batteva i calci d’angolo e le punizioni (segnandone diverse), dilettandosi a volte in assist che ci saremmo aspettati dai fantasisti più raffinati.
In questo senso, è curioso notare che per un giocatore che ha indossato per quasi tutta la carriera o il 9 o l’11, i numeri con cui si indicavano la prima punta e l’ala, nel momento di suo massimo splendore, cioè ai Mondiali del 1978, Kempes abbia portato sulle spalle il 10 per puro caso. Mentre in Europa era unanimemente considerato la stella dell’Argentina, infatti, prima del Mondiale Kempes in patria non godeva della stessa considerazione proprio per aver preso la decisione di andare a giocare in Spagna. Era stato l’unica eccezione alla regola implicitamente imposta dall’alto di convocare nell’Albiceleste solo giocatori che giocavano in Argentina e fu anche criticato e la sua titolarità messa in dubbio dopo la prima metà del torneo, quando non riuscì a segnare e l’Argentina faticò molto ad arrivare al turno successivo. Il 10 gli arrivò come un dono collaterale della fortuna dalla decisione del CT Menotti di assegnare i numeri di maglia seguendo rigidamente l’ordine alfabetico (decisione che portò al risultato bizzarro di avere i due portieri, Ubaldo Fillol e Héctor Baley, rispettivamente con il 5 e il 3).
Al di là dell’aneddoto, l’aspetto più interessante di questa vicenda è che Kempes non era davvero catalogabile in un ruolo definito, tanto meno al tempo, e il 9, il 10 e l’11 sulle sue spalle sembravano appropriati allo stesso modo.
L’eredità
Il solco che si è venuto a creare nel tempo tra il posto che Kempes occupa nella storia del calcio e quello che credo dovrebbe occupare, però, non deriva tanto dalla sua eredità tecnica - quella idea di completezza, cioè, che oggi è un po’ il Sacro Graal dell’attaccante moderno. Perché quell’eredità tecnica non avrebbe lasciato davvero un’impronta nell’inconscio collettivo, come credo abbia fatto, se non si fosse unita all’impatto visivo che Kempes aveva quando giocava. Alla sua immagine, insomma.
Tra i tanti che rimasero impressionati dall’immagine di Kempes ai Mondiali del 1978 - dalle sue progressioni, dai suoi gol, dalla sua esultanza sfrenata con le braccia al cielo - ci fu anche anche un giovanissimo disegnatore giapponese, Yoichi Takahashi, che guardandolo giocare rimane talmente impressionato che decise di disegnare un nuovo manga sul calcio: Captain Tsubasa, cioè Holly e Benji, come poi lo conosceremo in Italia. Se ci pensate, tutto in Holly e Benji richiama a Mario Kempes: i protagonisti hanno quasi tutti i capelli lunghi e neri (chi più, chi meno), ci sono corse interminabili palla al piede e i tiri sono talmente potenti da ovalizzare la palla e rompere la rete. Mario Kempes, in sostanza, è sia Oliver Hutton che Mark Lenders.
Mario Kempes con la sua immagine ha definito l’idea dell’attaccante in grado di cambiare la partita in qualsiasi modo, in qualsiasi momento. Anzi, non di cambiare, di spaccare la partita. E anche se la sua memoria è stata via via insabbiata da giocatori più grandi o più vincenti di lui, quell’idea ha plasmato, soprattutto in America Latina, tutta una generazione d’attaccanti venuti dopo di lui che si rifacevano idealmente al suo senso di onnipotenza.
Quegli attaccanti, cioè, che fanno della completezza il proprio punto di forza. Centravanti tecnici e dalla progressione inarrestabile, con i capelli lunghi, di solito associati a un animale selvaggio e feroce, che sembrano poter davvero spaccare la porta con un tiro, che fanno crollare gli stadi con un gol. Che restituiscono con il loro gioco quel senso di virilità teatrale che può essere preso sul serio solo dentro un campo di calcio. Magari ve li siete già visualizzati in mente: parlo di Edinson Cavani, di Gonzalo Higuain, di Radamel “El Tigre” Falcao. Di Gabriel Omar Batistuta, il Re Leone. Tutti, in modo diverso, hanno restituito la stessa sensazione di ineluttabilità del gol, che inevitabilmente associamo alla morte. Kempes, non a caso, aveva il più classico dei soprannomi sudamericani: "El Matador". La parola che in spagnolo si usa per indicare il torero, ovviamente, ma più in generale anche qualcosa di micidiale, di letale.
C’è un aspetto della vita di Kempes che simbolicamente rimanda ancora più chiaramente alla sua eredità sul calcio che è venuto dopo di lui. Sulla possibilità che sia stato un modello, un’icona di cui calcare le orme e le fattezze. Kempes infatti è nato a Bell Ville, una piccola cittadina in provincia di Cordoba in cui risiede la più antica e famosa fabbrica di palloni da calcio di tutta l’Argentina. Un’attività produttiva che è diventata talmente preponderante che la città si è autoproclamata capitale mondiale del pallone da calcio.
Di Bell Ville parla anche una canzone, dedicata a Kempes da un gruppo folk rock di tifosi del Valencia chiamato La Gran Esperanza Blanca (cioè, letteralmente, la grande speranza bianca, come la maglietta del Valencia), che racconta il suo esordio nel 1976. Allora si giocava il Trofeo Naranja, un trofeo amichevole che il Valencia gioca all’inizio di ogni sua stagione fin dal 1959, e, come dice la canzone, “nessuno sapeva che eravamo di fronte al grande Mario Alberto Kempes”. Se si escludono i tifosi del Valencia, mi sembra che in pochi lo sappiano ancora oggi.