Il mio gol più bello l’ho segnato nei giovanissimi. Stavo ricevendo un lancio dal mio portiere e mentre stoppavo sono stato spinto a terra dal mio marcatore diretto, che era almeno dieci centimetri più alto di me e mi stava marcando a uomo; ho ripreso la palla da un compagno, l’ho evitato con una finta di corpo e sono riuscito a girarmi fronte alla porta. Ero poco oltre la metà campo, non c’era nessuno davanti e il portiere era un po’ fuori, così ho deciso di tirare. Quando la palla è finita in rete non ho corso né alzato le braccia, non ho urlato e non ho dato il cinque a nessuno: invece mi sono fermato e ho fatto la statua, come faceva Mark Bresciano.
Era la primavera del 2006, io avevo quattordici anni e Bresciano era in uno dei momenti più luminosi della sua carriera: stava per chiudere la sua migliore stagione in Italia fino a quel momento, e da lì a poco avrebbe giocato il Mondiale con l’Australia, il primo dei Socceroos dopo 32 anni di attesa. Probabilmente aveva già segnato il gol alla Sampdoria, il suo ottavo in campionato, con cui aveva regalato la salvezza al Parma con quattro giornate di anticipo.
Siamo al 90’: lo stop non è perfetto, ma Bresciano ha la lucidità per portarsi la palla avanti e la forza per colpire un destro secco sul primo palo.
Oggi imitare i propri idoli è più facile: ragazzi e adolescenti hanno a disposizione videogiochi ultra-realistici, una galleria infinita di video su YouTube e i social su cui condividerli. Non dico che “ai miei tempi” fosse diverso, ma c’erano molte meno occasioni di contatto: imitare un giocatore era qualcosa di più intimo, o almeno così mi sembrava. Irrigidirsi in un momento di euforia è qualcosa di straniante, e se lo è stato per me posso solo immaginare come sia stato per Bresciano dopo il gol all’Uruguay, segnato pochi mesi prima davanti a più di 80mila persone, nello spareggio per l’accesso al Mondiale.
La partita era una rivincita di quattro anni prima, quando il gol di Silva e la doppietta di Morales al “Centenario” avevano sbattuto in faccia la porta agli australiani, illusi dall’uno a zero dell’andata firmato da Muscat. Stavolta i Socceroos avevano la possibilità di giocare il ritorno in casa, con un solo gol da rimontare e uno stadio intero pronto a spingerli. Anche per questo motivo gli uruguaiani si erano presentati a Sydney con un undici intenzionato a fare guerriglia in ogni zona di campo, spezzare il più possibile il gioco e ricavare qualche calcio piazzato per il sinistro di Recoba.
Il "Chino" era l’unica licenza poetica in una squadra che contava tra le sue fila giocatori come Montero, Carlos Diogo, Regueiro, Varela, Morales e Guillermo Rodríguez: tutti cattivi e rasati a zero; guardandola oggi, sembra la squadra dei demoni dello spot Nike Good vs Evil. La partita non è molto diversa, anche perché le due squadre non vogliono prendersi rischi: ogni azione viene interrotta da un fallo tattico o da un pallone spazzato lontano, aizzate da uno stadio che sembra quasi una pentola a pressione. Per mezz’ora quasi non si gioca a calcio: Bresciano si muove avanti e indietro, toccando pochissimi palloni, a momenti sembra scomparire dietro le maglie celesti.
Al 34.esimo minuto Chipperfield riceve un appoggio di tacco di Kewell sulla fascia sinistra e serve in mezzo per Cahill. In quel momento Bresciano sta galleggiando al limite dell’area, sulla zona destra, dove è marcato a uomo da Guillermo Rodríguez; mentre Cahill si gira e serve Viduka, Bresciano finta un taglio verso il cuore dell’area, salvo fermarsi a metà tra centrale e terzino. Un movimento leggero, quasi impercettibile, ma che finisce per ritagliargli uno spazio preziosissimo: mentre Viduka fa la sponda per Kewell Bresciano resta fermo lì, quasi si sporge per non perdere il contatto visivo con la palla, e sul tiro sbagliato del compagno è il primo a partire nella direzione giusta. Mentre la palla rotola a centro area, il metro di vantaggio su Rodríguez diventa fondamentale: Bresciano si mette davanti, coprendo il pallone con la spalla, e in allungo lo infila sotto la traversa.
Il gol pareggia i conti con l’Uruguay, mettendo le basi per la successiva vittoria ai rigori. Per molti versi, il gol che ha segnato la definitiva consacrazione del calcio in Australia.
Nel 2013, otto anni dopo quel gol all’Uruguay, Bresciano si è rivelato decisivo per un’altra qualificazione mondiale. Stavolta l’Australia era all’ultima partita del girone di qualificazione, e aveva bisogno di una vittoria per assicurarsi il secondo posto, l’ultimo utile per qualificarsi ed evitare un altro spareggio. Dopo 80 minuti il risultato è ancora fermo sullo 0 a 0, e l’Australia è tutta sbilanciata in avanti alla ricerca del gol. All’83.esimo minuto Thompson riceve un pallone profondo sulla fascia, appoggia per Wilkshire e si butta dentro l’area insieme ad altri due compagni; mentre gli iracheni collassano all’interno della propria area, Bresciano resta fermo: questo gli permette di ricavarsi lo spazio per ricevere il passaggio di Wilkshire, spostare il pallone avanti e servire l’assist vincente per la testa di Kennedy.
Una delle migliori qualità di Mark Bresciano era quella di trovarsi sempre al posto giusto, nel momento giusto: sapeva leggere il gioco e gli avversari, anticipava l’azione e provava a ritagliarsi gli spazi per poter essere pronto quando serviva. Il gol contro l’Uruguay e l’assist contro l’Iraq possono sembrare giocate casuali, ma portano con sé un grande bagaglio di tempismo, intelligenza e dissimulazione. In alcuni momenti Bresciano, come i migliori tempisti degli inserimenti, sembrava leggere nel futuro: come in questo gol al Milan, in cui parte dalla trequarti senza mai cambiare la direzione della corsa, come sapesse già dove sarebbe andato a finire il pallone.
Di Bresciano ricordiamo soprattutto l’esultanza, nonostante sia stato uno dei giocatori più importanti della storia dell’Australia, e abbia giocato nove anni nel campionato italiano facendo spesso la differenza. È comprensibile: Bresciano non era un giocatore che rubava l’occhio, non spiccava per qualità fisiche e non cercava virtuosismi tecnici; giocava quasi sempre a uno o due tocchi, ed era raro vederlo cercare un dribbling o portare la palla in conduzione. Le sue giocate erano sempre semplici ed essenziali: come uno scultore, lavorava per sottrazione.
La sua qualità stava soprattutto nei dettagli: la capacità di interpretare gli spazi, che gli permetteva di contribuire al possesso in mediana ed essere decisivo nell’ultimo terzo di campo; le qualità nella postura del corpo e nel primo controllo, che gli davano modo di giocare anticipando il contatto con gli avversari; il modo in cui riusciva a calciare la palla, che gli consentiva di trarre il meglio da ogni tipo di situazione. Bresciano era un creativo, ma usava la sua creatività per semplificare le cose: come questo gol contro il Lecce, in cui stoppa e colpisce in girata di controbalzo, toccando solo due volte la palla, o questa rovesciata contro la Reggina, in cui non fa altro che abbassarsi e colpire perpendicolarmente il pallone. Non lasciava molto spazio all’estetica, ma quando faceva gol spettacolari erano spettacolari per davvero.
Nei dodici anni in Italia, con le maglie di Empoli (in Serie B), Parma, Palermo e Lazio, Bresciano ha messo insieme 55 gol 51 assist: un buon rendimento, nonostante alcune stagioni sottotono e un’evoluzione tattica che l’ha portato via via ad arretrare la sua posizione. Non era al livello dei migliori, ma era uno dei pochi capaci di unire tempismo, intelligenza e rapidità di esecuzione. In più, era praticamente ambidestro, tanto che alcuni dei suoi gol migliori (come questa bomba da fuori contro la Lazio e questa girata contro il Palermo) sono arrivati con il mancino.
Un’altra, grande, qualità dell’australiano era il modo in cui riusciva a coprire e scoprire la palla, eludendo gli avversari con la postura e i movimenti corpo. Non aveva il fisico per resistere a tutti i contrasti, ma era capace di evitare la pressione semplicemente scrollando le spalle, o fingendo un cambio di direzione.
Questa capacità di influenzare gli avversari è ben rappresentata dal suo primo gol a San Siro contro il Milan, in una partita giocata pochi mesi dopo il Mondiale, sempre nel 2006. Bresciano, un trequartista, giocava come laterale sinistro nel 3-5-2. Al 3’ minuto del secondo tempo Amauri resiste all’intervento di Kaladze e fa da sponda per Guana, che ha la possibilità di ricevere fronte alla porta. Bresciano parte largo sulla fascia, ma quando la palla arriva a Diana si infila tra Cafu e Nesta, tagliando verso il centro. Inizialmente la sua postura del corpo è tutta protesa in avanti, come se volesse passare alle spalle dei difensori; appena Nesta si sbilancia indietro Bresciano rallenta, cambia direzione e gli taglia la strada davanti: guadagna giusto una frazione di secondo, ma è abbastanza per controllare e infilare in porta.
In pochi secondi Bresciano fa quattro movimenti diversi, creandosi lo spazio per anticipare Cafu e Nesta (non gli ultimi arrivati).
Quello al Milan fu un altro gol storico, perché aprì la prima vittoria del Palermo a San Siro. Due anni dopo, in un’intervista a La Repubblica, Guidolin disse che il suo ruolo era stato la chiave tattica della partita: «Misi Mark esterno a sinistra. Provammo a lungo questa situazione di gioco cercando di sfruttare il taglio su Cafu, e così avvenne». Bresciano non era straordinario in alcun ruolo, ma le sue qualità tecniche (e l’intelligenza tattica) gli permettevano di giocare bene un po’ ovunque. Nella sua carriera ha occupato ogni zolla d’erba dal centrocampo in su: ha fatto il trequartista, il laterale, l’esterno, il mediano e la mezzala, senza mai perdere il suo stile. Ai tempi Bresciano era un giocatore unico, capace di spiccare anche in un centrocampo con lui, Guana e Corini. Citando un suo ex allenatore, Bresciano era «un virtuoso della via mediana, fra quantità e qualità».
Quando ero adolescente, ovviamente, la mia fascinazione era dovuta ad aspetti più veniali. L’ambiguità del suo nome, che era “Marco” in Australia e “Mark” in Italia, la scelta del 23, ai tempi poco convenzionale, e soprattutto la sua esultanza, di cui si discute ancora oggi la genesi: alcuni credevano fosse un’imitazione di The Rock, altri che gli si fosse bloccata la schiena dopo un gol ai tempi del Carlton (la teoria più accreditata, smentita dallo stesso Bresciano). Con ogni probabilità la prima esultanza con la “statua” arrivò dopo il suo gol all’Empoli, e più che un’esultanza fu un modo per non esultare contro la sua ex squadra.
La prima statua di Bresciano, ancora abbozzata e indefinita. Un’occasione per riguardare questo esterno sinistro a uscire, che alza la palla quel tanto che basta per battere il portiere; un colpo elegante e vellutato come solo alcuni slice sanno esserlo.
Paradossalmente, questa non-esultanza (nata per motivi “sentimentali”) è diventata la sua signature move. Si era creata l’idea di Bresciano come giocatore freddo e distaccato. In campo non mostrava mai emozioni: era sempre silenzioso, non richiamava i compagni e non protestava con l’arbitro; al massimo allargava le braccia, per chiedere palla attirando l’attenzione.
Dalle interviste di alcuni ex compagni si ha l’immagine di una persona riservata, che parlava poco ma era comunque capace di far divertire. Una vena comica catturata benissimo nella serie “Mark Bresciano’s Cup Diary”, il segmento di un programma comico dedicato al Mondiale in Sudafrica, in cui Bresciano raccontava le sue giornate in ritiro. Racconti sintetici, incentrati su tre cose: quello che aveva mangiato a pranzo (sempre lo stesso piatto: pollo con zenzero e soia), se aveva fatto la passeggiata al lago e se c’era stato allenamento o no.
Uno sketch che poteva stare tranquillamente in una puntata dei Monty Python. Nel video uno dei momenti più alti di tutta la serie: «Vincenzo (Grella) made a joke about fish».
Oltre a questo lato “giocoso” Bresciano ha mostrato anche una grande sensibilità personale, la stessa che lo aveva spinto a lasciare l’Italia dopo aver assistito agli scontri del 2007 al Massimino. In un’intervista a SBS, Bresciano ha descritto il giorno dell’omicidio di Filippo Raciti come la sua peggiore esperienza vissuta in Italia: «Ero devastato, probabilmente è stato il momento in cui avevo deciso di partire. Dopo aver visto una cosa del genere pensavo che non avrei più potuto continuare».
L’estate successiva, Bresciano era pronto a trasferirsi: l’australiano aveva già firmato il contratto col City di Eriksson, e il Palermo aveva dato il via libera. A operazione praticamente conclusa (Bresciano aveva già iniziato ad allenarsi coi nuovi compagni), il mancato accordo sulle modalità di pagamento ha fatto saltare la trattativa. Bresciano ricorda quel momento come uno dei peggiori della sua carriera, un trauma che ha finito per influenzarne il rendimento nei mesi successivi.
Alla fine Bresciano è rimasto al Palermo due anni, e dopo il Mondiale del 2010 ha firmato con la Lazio, dove ha giocato un ultimo anno in Europa prima di chiudere gli ultimi anni di carriera tra Qatar ed Emirati Arabi Uniti. Ha smesso di giocare a soli 35 anni, pochi mesi dopo aver vinto la Coppa Asiatica con l'Australia, il suo primo trofeo maggiore. Una scelta improvvisa, perché la sua idea iniziale era quella di chiudere la carriera in Australia, facendo almeno un anno in A-League. Gli acciacchi erano troppi, le soddisfazioni tante e la voglia non c'era più: «Un giorno, mentre stavo guidando per andare all'allenamento, mi sono accorto che avrei preferito tornare a casa e non allenarmi più». Non volendo tornare a giocare in Australia solo per onor di firma, senza la piena convinzione, ha deciso di smettere prima.
Col senno di poi Bresciano era un freddo dal sangue caldo, che riusciva a dare il massimo solo quando era completamente dedito all'obiettivo. Nella stessa intervista a SBS, Bresciano ha raccontato che il suo atteggiamento era una questione di controllo: «Quando ero in campo cercavo di non innervosirmi, perché quando lo fai perdi molte energie. Per alcuni giocatori è molto complicato, ma io ho sempre provato a tenere a bada le mie sensazioni». In un gioco celebrale come quello di Bresciano, sapersi tenere a distanza era importantissimo. In questo senso, la statua era un manifesto del suo gioco, l’esempio del suo autocontrollo, che gli permetteva di essere lucido ogni volta che serviva.
Anni dopo quel gol all’Uruguay molti tifosi hanno continuato a farsi la stessa domanda: come ha fatto a segnare un gol così importante e restare immobile, mentre tutto lo stadio impazziva? Con la stessa forza con cui ha passato i primi trenta minuti di quella partita correndo a vuoto, alla ricerca dello spazio giusto, in attesa del momento decisivo.