Compresso tra gli ultimi colpi del mercato e l’impazienza per l’avvio della nuova stagione, l’esito finale della controversia riguardante le molestie sessuali all’interno della parte amministrativa dei Dallas Mavericks ha probabilmente trovato meno rilievo sui media rispetto a quanto sarebbe stato lecito aspettarsi. Ciò nonostante, la conferma delle pesanti accuse formulate prima da un’indagine giornalistica e poi dalla commissione indipendente nominata dalla NBA ha rotto il colpevole silenzio che circondava la questione del sessismo nel mondo dello sport, e promette di essere uno snodo cruciale su questo tema per gli anni a venire.
Animal House
Il caso esplode lo scorso 20 febbraio con la pubblicazione di una lunga inchiesta di Sports Illustrated. John Wertheim e Jessica Luther, per mesi, hanno intervistato dipendenti ed ex-dipendenti dei Mavericks, spulciato documenti ufficiali e non, incrociando date e testimonianze. Nel mirino finiscono Terdema Ussery, presidente e amministratore delegato della franchigia per quasi vent’anni, e Earl K.Sneed, cronista al seguito della squadra e curatore del sito mavs.com, ancora a libro paga al momento dell’uscita del pezzo.
Il primo, dirigente tra i più stimati nel settore del management sportivo con esperienze di alto livello tra cui Nike, risulta protagonista di numerosi comportamenti molesti nei confronti delle donne a vario titolo impiegate nella struttura amministrativa e commerciale dei Mavericks, con lo spettro delle accuse che va da abusi verbali a veri e propri palpeggiamenti. Sneed, invece, viene prima accusato (l’arresto avviene in grande stile, come nei migliori film americani, proprio negli uffici dei Mavs) e poi giudicato colpevole di violenza domestica nei confronti della fidanzata, comportamento che reitera poco dopo ai danni di un’altra compagna e impiegata della franchigia, mantenendo comunque il posto di lavoro.
Al di là delle singole condotte esecrabili, quello che emerge dall’inchiesta è il ritratto di un ambiente lavorativo in cui quei comportamenti vengono tollerati, quando non addirittura considerate coerenti con il clima “da spogliatoio” che, per qualche inesplicabile motivo, dovrebbe essere proprio di una realtà a stretto contatto con una squadra professionistica. Peccato che tra le righe emerga come proprio lo “spogliatoio”, ovvero il rapporto con i giocatori e lo staff tecnico, fosse di fatto l’unica zona franca in cui le lavoratrici potevano sentirsi libere di svolgere le proprie mansioni senza dover sopportare atti di deliberata misoginia. Gli autori paragonano l’atmosfera negli uffici dei Mavericks ad Animal House, un richiamo cinematografico che rende bene l’idea di come si dipanassero le quotidiane relazioni tra colleghi.
L’eco immediato è deflagrante: Mark Cuban, proprietario della franchigia e vulcanico imprenditore dalla conclamata tendenza al protagonismo mediatico, prende - con colpevole ritardo - una posizione molto netta davanti all’opinione pubblica. Il suo nome non compare tra le testimonianze raccolte, ma è chiaro da subito che negare la propria responsabilità, seppur limitata a una vigilanza negligente, sia un’opzione da scartare.
Dopo una dichiarazione pubblica resa proprio a Sports Illustrated in cui Cuban esprime tutto il suo disagio e dispiacere per l’accaduto, il primo passo concreto consiste nel licenziamento di Buddy Pittman. Responsabile del personale, Pittman è colpevole di aver ignorato le denunce interne pervenute nel corso degli anni al fine di coprire le nefandezze di Ussery, il cui risultato ultimo è stato nella maggioranza dei casi l’allontanamento volontario dal posto di lavoro delle colleghe oggetto delle attenzioni indesiderate. A stretto giro si procede a licenziare anche Sneed e a capo della gerarchia aziendale viene assunta Cynthia Marshall, manager di alto rango con esperienze presso il colosso delle telecomunicazioni AT&T. Cuban rende inoltre noto d’aver introdotto alcune significative novità come una normativa interna molto più stringente sul tema e l’istituzione di un organismo autonomo e dedicato a raccogliere le segnalazioni dei dipendenti.
In altri contesti geografici e culturali tutto questo basterebbe e avanzerebbe pure, ma Cuban sa bene che l’altro attore coinvolto in via indiretta nello scandalo tende a prendere sul serio le questioni che riguardano i diritti civili e la parità di genere. A pochi giorni dall’uscita del pezzo di Sports Illustrated, viene quindi dato annuncio della costituzione di una commissione d’inchiesta formata da professionisti scelti in collaborazione tra Cuban e la NBA. L’obiettivo è quello di verificare e approfondire quanto emerso dalle indagini di Wertheim e Luther, potendo contare in questo caso sulla piena disponibilità dei Dallas Mavericks.
La potente requisitoria di Rachel Nichols, tra i volti televisivi più famosi nel panorama NBA.
La conferma
Dopo sei mesi di colloqui, più di un milione e mezzo di documenti esaminati e 215 testimonianze raccolte, i risultati della commissione vengono resi noti nella loro interezza. Quanto emerge dalle quarantasei pagine del resoconto convalida, e in alcuni casi acuisce, la gravità delle accuse formulate da Sports Illustrated. Se l’aspetto giornalistico poteva dare adito a dubbi o interpretazioni rispetto all’accaduto, le conclusioni a cui il team di legali giunge non consentono scappatoie o sotterfugi dalla realtà ormai conclamata: il sessismo e la misoginia sono stati valori costitutivi della cultura aziendale dei Dallas Mavericks negli ultimi due decenni.
Di fronte a questa inequivocabile riprova, Cuban concorda con la lega e con la commissione di donare 10 milioni di dollari a realtà impegnate nella lotta per il raggiungimento di una fattiva parità di genere e nella prevenzione della violenza domestica. Da parte sua, la NBA emana una dichiarazione ufficiale in cui invita le franchigie ad adottare un codice etico sulla falsariga di quello già in vigore per le strutture della lega, annunciando che vigilerà sul suo successivo e stingente rispetto. Per quanto riguarda i Mavericks, pur apprezzando gli sforzi intrapresi nei mesi successivi alla denuncia di Sports Illustrated, la NBA specifica che pretenderà un dettagliato rapporto trimestrale sulle attività messe in atto, tra cui un percorso formativo intitolato “Respect in the Workplace” che coinvolge tutto l’organigramma a partire proprio da Cuban, con l’impegno ad aumentare il numero di donne impiegate in ruoli chiave e, più in generale, un resoconto sull’andamento del clima aziendale.
Possono sembrare obbligazioni di facciata dall’intento generico, ma alla luce dei precedenti comportamenti tenuti dalla NBA - in particolare dalla nomina di Adam Silver a commissioner nel febbraio 2014 - è ragionevole ipotizzare che gli spunti contenuti nel comunicato non rimarranno mere linee guida da interpretare a piacimento. Laddove un caso di palese razzismo è costato a Donald Sterling la forzata vendita della franchigia e il contrassegno di persona non gradita negli ambienti della lega, considerato come Silver non abbia indugiato quando si è trattato di revocare la concessione del prestigioso All-Star Weekend alla città di Charlotte per protestare contro l’introduzione di leggi discriminatorie nei confronti della comunità LGBT da parte dello stato del North Carolina, il margine di fraintendimento delle indicazioni contenute nel comunicato di cui sopra rasenta lo zero. Si tratta a tutti gli effetti di un vero e proprio avvertimento a cui seguiranno azioni di monitoraggio costante. Ora che la problematica è finalmente affiorata in tutta la sua manifesta gravità, eventuali condotte riprovevoli non verranno tollerate.
L’intervento di Mark Cuban negli studi di ESPN dopo la pubblicazione dei risultati dell’inchiesta indipendente.
L’elefante nella stanza
A prescindere da quali saranno le eventuali ripercussioni per i futuri trasgressori del codice comportamentale adottato, il merito dell’inchiesta di Sports Illustrated è quello di aver acceso una luce su un tema che fino ad allora giaceva relegato nell’angolo buio del disinteresse. Gli atti discriminatori e le molestie di varia gravità hanno da sempre fatto parte della quotidianità di molti ambienti sportivi; comportamenti ammessi, liquidati con indifferenza quando addirittura non innalzati a sublimazione della già citata mistica “da spogliatoio” che inquina l’immaginario di una buona fetta di tifosi e addetti ai lavori. Il sessismo, insomma, è sempre stato l’elefante nella stanza per il mondo dello sport, solo che d’ora in poi risulterà impossibile ignorarne l’esistenza e sarà molto più complicato, oltre che rischioso, provare ad occultarne le insorgenze.
Come ovvio, non esiste un itinerario in grado di garantire l’approdo a quel punto d’arrivo che, ad oggi, appare ancora utopico: la percezione comune e condivisa che ogni tipo di discriminazione e abuso sessuale sia del tutto inammissibile, senza se e senza ma. La bussola utile per raggiungere il punto d’arrivo potrebbe però non essere troppo dissimile da quella utilizzata dalla NBA per orientarsi nell’insidioso labirinto della questione razziale. La conduzione della vicenda Sterling ha infatti rappresentato uno spartiacque necessario e ha accelerato una trasformazione culturale netta e irreversibile. Dalla gestione degli strascichi del caso Kaepernick fino alla sfida aperta ai dettami della presidenza Trump, la lega guidata da Silver ha finito per diventare punto di riferimento per chiunque ambisca a essere motore attivo del progresso civico. E, ancor di più, lo scatto in avanti compiuto dalla NBA può essere avvertito in episodi meno eclatanti ma comunque significativi come quello che ha coinvolto Danny Ferry nel giugno 2014, dirigente sportivo di successo e protagonista di un caso di razzismo dai contorni per altro poco chiari che ne ha troncato la carriera. Da quel momento in poi, Ferry non ha più trovato squadre disposte a concedergli un posto nel proprio front office, limitandosi a collaborazioni esterne, assai poco pubblicizzate, nel ruolo di consulente. Quella macchia rilevata, a torto o ragione, sul suo curriculum è bastata a renderlo, seppur con tonalità più sfumate, persona non grata sulla scia di Donald Sterling.
D’altro canto, sarebbe inutile negare come il fatto che l’NBA conti tra la propria forza lavoro un concentrato di atleti afro-americani per oltre il 90% complessivo abbia aiutato, se non addirittura costretto Silver a prendere una posizione netta sul tema del razzismo e delle questioni sociali. E questo particolare riconduce ad un aspetto imprescindibile della problematica portata a galla da Sports Illustrated: la presenza femminile nel mondo dello sport. A dispetto della sollecitudine dimostrata nel trascinare l’argomento al centro del dibattito dopo lo scandalo di casa Mavericks, la percentuale di donne impiegate rimane molto limitata. Per una Becky Hammon che siede sulla panchina degli Spurs o una Rachel Nichols, volto giornalistico fra i più noti, ci sono decine, centinaia di colleghi maschi che occupano posizioni di rilievo nel mondo dello sport. Appare quindi del tutto evidente che ogni scatto in avanti nel percorso verso il punto d’arrivo di cui sopra passi necessariamente dall’aumento del numero di donne presenti nei vari ambiti, soprattutto con incarichi di importanza strategica, e non solo ai Dallas Mavericks.
La battaglia, insomma, è ben lontana dall’essere vinta e, ad ogni modo, nulla potrà ricompensare le vittime degli abusi di Ussery e Sneed, al pari di quelle dei tanti altri che vengono perpetrati quotidianamente. Per il momento, a loro e a tutti coloro che si sono spesi e si spenderanno durante e dopo le indagini, resta la certezza di essersi schierati dalla parte giusta della storia.