Mark Viduka riappare all’improvviso nella colonna di destra dei siti di informazione mentre il mondo del calcio, anzi, il mondo intero, è fermo a causa del lockdown. Ha i capelli corti, una stempiatura aggressiva, un bricchetto del latte in mano, gli occhi sono sempre più simili a delle fessure aperte a fatica su ciò che lo circonda. Alle sue spalle c’è un cassiere con lo sguardo perso nel vuoto. Non ci sono le partite e vedere questo ex ragazzone che si deve districare dietro una macchina del caffè dopo anni passati a divincolarsi dai difensori, è pur sempre una notizia.
In molti lo ricordano per un giorno soleggiato di fine 2000, per i quattro gol segnati tutti insieme al Liverpool, presi e infilati nella porta di Westerveld come fossero mentine cadute oltre misura quando se ne voleva solamente una. «Non mi piace quando la gente sostiene che quello sia stato il mio highlight – ha senso lasciare il termine originale, perché l’australiano torna sul concetto – di una carriera intera. Come lo definireste, un highlight? Per me, lo è stato vincere il primo titolo con i Melbourne Knights. O giocare una semifinale di Champions League con il Leeds. Ok, quel giorno ho fatto quattro gol, ma non è stata la miglior partita della mia carriera. A pensarci bene, il ricordo più bello che ho del calcio è ripensare a quando giocavo in giardino con mio padre».
Ciò che segue, l’affermazione-rivelazione di Viduka, ci dice molto sulla persona e sul giocatore che è stato: «La miglior partita della mia carriera l’ho giocata all’Olimpico, contro la Lazio. Abbiamo vinto 1-0 e ho mandato in porta Alan Smith con un colpo di tacco. Mi sentivo sicuro, sono stato pericoloso per tutta la gara. Non ho segnato, ma nel calcio va così: a volte giochi una grande partita e non riesci a segnare, in altre occasioni fai una prestazione nella media ma finisci per fare una doppietta». Forse Mark Viduka è stato questo: una contraddizione vivente, l’anima di un ballerino intrappolata in un fisico ingombrante, un idealista costretto a dannarsi per quindici anni alla ricerca di un solo, insignificante momento di gloria, di una rete che si gonfia e poi si adagia mentre intorno tutti sono in festa. Un gesto meccanico, l’ingranaggio di una vita condensato in un tiro, in un colpo di testa, in una deviazione goffa e vincente, eppure allo stesso tempo così poco artistica.
«Questo Viduka bisogna prenderlo», dice Giorgio Chinaglia. Il fatto che a segnare sia Smith poco importa. Guardate la delicatezza con cui Viduka accompagna il pallone. Potrebbe essere una giocata di Mancini o di Totti.
Madre ucraino-croata, papà croato, Viduka si trova a crescere a Melbourne, e Dio solo sa quanti siano i chilometri che lo separano dalle origini di sangue. Ha però la fortuna di poter crescere con una famiglia affettuosa e un padre che lo piazza davanti a una partita di pallone quando ha soli 3 anni. Tifano per il Melbourne Croatia, il club fondato da quella foltissima colonia croata che ha trovato casa dall’altra parte del mondo, in un periodo in cui la Croazia è ancora soltanto una parte della filastrocca che si apre con “Sei stati, cinque nazioni…” e si chiude con “…un solo Tito”. «Quando ero piccolo avevo un solo obiettivo nella vita: giocare per loro. Quel club ha significato tantissimo per me, era il simbolo delle sofferenze della Croazia libera. Libera dal comunismo, libera dalla Jugoslavia. Era un modo per dire al resto del mondo: “Guardate, c’è un posto in Europa che si chiama Croazia, non Jugoslavia. Un giorno saremo una nazione libera”».
Il sangue croato scorre caldo nelle vene, ma Viduka si sente australiano, foss’anche solo per un debito di riconoscenza verso il Paese che ha accolto la sua famiglia e per il calcio che lo sgrezza, anno dopo anno, fino ad arrivare in prima squadra nei Melbourne Knights, ex Melbourne Croatia. È il protagonista di un gruppo che nella stagione 1994-95 vince per la prima volta il titolo australiano grazie anche ai suoi 21 gol in 24 presenze. In mezzo, tra l’adolescenza e l’esplosione da calciatore, c’è la guerra d’indipendenza croata. Franjo Tuđman, il primo presidente croato eletto democraticamente, durante una visita ufficiale in Australia chiede di incontrare quel ragazzo non ancora ventenne per convincerlo ad andare a Zagabria, in quella che oggi è la Dinamo ma che, all’epoca, aveva da poco preso la denominazione di Croazia Zagabria. Avrebbe già un accordo con il Borussia Dortmund, ma come si fa a dire no a Tuđman, tanto più in quel momento storico?
Mark Viduka con la maglia dei Melbourn Knight.
Viduka si convince, il Paese è tecnicamente indipendente ma la situazione non è delle più tranquille: «Vedevamo i Mig che volavano sopra lo stadio. Un giorno stavo camminando in strada e risuonò l’allarme di un raid aereo, all’improvviso scomparvero tutti. Fu spaventoso». Deve abituarsi in fretta a un popolo profondamente diverso da quello australiano: «I croati amano gli eccessi. Un giorno sei Dio, il giorno dopo ti darebbero fuoco. Era anche un periodo difficile per stare lì». Viduka finisce per assumere egli stesso quei connotati che mal sopporta: vive solamente una buona stagione (18 gol in 25 partite nel 1996-97) per poi farsi divorare dagli alti e bassi. Non sta bene. Pensa di essere una minuscola parte di un gioco più grande di lui: «La mossa di Tuđman di convincermi a giocare in Croazia fu per mostrare agli altri croati che vivevano fuori dalla nazione per ragioni economiche che era il momento giusto per tornare, e aiutare a creare un Paese. Quando iniziò a diventare meno popolare, la cosa mi colpì personalmente: mi vedevano come un loro uomo, segnavo gol importanti e venivo fischiato. Io ero lì solo per giocare a calcio, la politica non mi interessava».
La fiamma di Viduka sta per spegnersi definitivamente. Non basta nemmeno il trasferimento al Celtic: vola a Glasgow, ma dopo quattro giorni dalla firma prende l’aereo e torna a casa, in Australia. La dirigenza biancoverde è in difficoltà, ma non quanto Viduka. «Ero mentalmente esaurito. Avevo bisogno di una pausa, di vedere la mia famiglia, i miei amici. Ringrazio Dio ogni giorno per aver preso quella decisione. Dovevo tornare». La stagione 1998-99 va quasi interamente in fumo, ma al via del campionato 1999-00 è un uomo nuovo, pronto a conquistare la Scozia in coppia con Henrik Larsson. Sfortunatamente, lo svedese si infortuna gravemente in un match europeo con il Lione e il Celtic arriva secondo in campionato alle spalle dei Rangers. «Chissà come sarebbe andata con Henrik. Probabilmente avremmo vinto. Sfortunatamente, in Scozia, arrivare secondi è come arrivare ultimi» racconterà poi. La sua stagione da 27 gol in 37 presenze complessive viene macchiata dall’episodio che porta all’esonero di John Barnes. Durante l’intervallo della sfida di Coppa di Scozia con l’Inverness Caley Thistle, una squadra di Seconda Divisione, l’australiano viene alle mani con il viceallenatore, Eric Black. L’assistente di Barnes affronta Viduka a brutto muso, il centravanti perde la testa con la squadra in svantaggio. «Gli ho detto: “Se pensi che io non sia bravo a sufficienza, allora fai entrare qualcun altro”. Da lì si scatenò una rissa, diversi giocatori furono coinvolti. Black mise in dubbio il mio impegno, io stavo dando il massimo».
La vicenda raccontata da un altro punto di vista, quello di Ian Wright.
Viduka diventa quindi un giocatore da tenere sott’occhio. Non solo in campo, ma anche a livello caratteriale. È forte ma bizzoso, con una tendenza al presentarsi in ritardo agli allenamenti che Paul Robinson, suo compagno di squadra negli anni più gloriosi, immortala così: «Mark arriverebbe in ritardo anche al suo funerale». Tra i grandi club, l’unico a fidarsi è il Leeds, allenato da David O’Leary. La squadra è appena arrivata terza in Premier League, cavalcando la miglior stagione della vita di Michael Bridges, scelto dal manager per sostituire l’ex stella Jimmy-Floyd Hasselbaink, prelevato dall’Atletico Madrid. Per affrontare la Champions, O’Leary pensa di avere bisogno di qualcos’altro, e quel qualcos’altro è Viduka. La stampa australiana è eccitata all’idea di poter vedere unita la coppia con Kewell, ma i due a malapena si parlano nello spogliatoio, complice un rapporto non idilliaco con l’agente Bernie Mandic, che ha assistito Mark e che ora è il procuratore di Harry. In campo le cose vanno meglio: «Amavo giocare con Harry, avevamo una grande intesa in campo».
Il 4 novembre del 2000 c’è il sole a Leeds, ma Viduka quasi non se ne accorge per il sonno. La squadra trascorre in albergo la notte prima del match nonostante la sfida si giochi a Elland Road. È il Guy Fawkes Day e la gente è in strada a far baldoria. «Mia moglie mi telefonava ogni dieci minuti. Sentiva i rumori da fuori, le ricordavano le bombe in Croazia. Penso di non aver dormito un minuto. Quando mi sono presentato a colazione la mattina, ero uno straccio». Il Liverpool va avanti con Hyypia e Ziege, poi proprio il tedesco regala a Viduka la chance per accorciare le distanze. Segna ancora lui nella ripresa, un bel colpo di testa per il 2-2, ma i “Reds” passano ancora con Smicer.
Il gol del nuovo pareggio, quello sì, è un passo di danza. Bowyer perde palla, Dacourt la raccoglie e serve subito Viduka. Con un controllo efficace si troverebbe in porta, ma il pallone gli rimane indietro. A quel punto ha Babbel addosso e sente il fiato sul collo di Berger. Mette la punta del piede sulla sfera e compie una rotazione in corsa, il ceco tira dritto e cade a terra, totalmente spiazzato. Babbel ora è lontano, Mark può preparare il destro dal vertice dell’area piccola. Westerveld copre giustamente il primo palo, Jamie Carragher è al centro della porta. Viduka chiude la conclusione per quel che può: base del montante, gol, segno della croce. «O’Leary è cattolico e sua madre, che stava vedendo la partita in televisione, era così eccitata dall’avermi visto mentre mi facevo il segno della croce che mandò un messaggio a David subito dopo la partita per dirgli quanto fosse contenta. Era anche il compleanno di mia madre: i baci mandati verso la telecamera erano per lei». Il poker è un’altra delizia, uno scavetto sull’uscita del portiere. «Non penso di aver fatto una partita così eccezionale», racconta nell’intervista di fine gara, anche se abbiamo visto che a distanza di anni smentirà, almeno in parte, queste parole. «Il modo in cui mi ha fatto quei gol… Nella prima occasione, mi ha superato con un tocco sotto. Mi ero aperto per chiudere lo specchio e mi ha beffato. Ho pensato che non gli avrei concesso un’altra chance del genere. Quando è capitato, nel secondo tempo, mi ha battuto con uno scavetto diverso», ha ricordato a distanza di anni il portiere del Liverpool Westerveld.
Una sintesi abbastanza estesa del match. L’azione del terzo gol prende il via al minuto 4’40”.
Di lì a un mese gioca quella che, secondo lui, è la sua miglior partita in carriera, contro la Lazio. Il Leeds arriva fino alla semifinale di Champions League ed è comunque in corsa in campionato per qualificarsi nuovamente al torneo più importante d’Europa. Per la società, quei soldi vogliono dire sopravvivenza. Al cospetto del Valencia, però, il Leeds si deve arrendere: 0-0 a Elland Road, 3-0 al Mestalla. La gara di ritorno si gioca in un clima funereo per gli inglesi, che hanno appena perso una sorta di spareggio Champions con l’Arsenal, nel vecchio Highbury. Una sconfitta che Viduka si legherà al dito. Il Leeds arriva quarto, fuori dall’Europa che conta, a un punto dalla terza, il Liverpool, e a due dalla seconda, l’Arsenal. Non sono bastate otto vittorie nelle ultime nove giornate.
Si inizia a parlare di mercato per Viduka. Ha parecchi estimatori in Italia e sogna di arrivare al Milan: «Il Leeds chiedeva 38 milioni di sterline. Io ero in contatto con Zvone Boban, avevamo un ottimo rapporto. Alla fine il Milan arrivò a offrire quella somma, ma il Leeds decise di non vendermi. Fu un peccato, ero sempre stato un grande tifoso del Milan da bambino, ero cresciuto nel mito dei tre olandesi». Per l’australiano è forse l’estate più importante di tutta la vita, perché piace anche ad Alex Ferguson. Vola a Manchester per incontrare il club ma la sera prima, in città, c’è un concerto di Elton John. L’agente di Viduka non solo ottiene i pass per il backstage, ma gli organizza anche un faccia a faccia. «Tu sei di Melbourne! Adoro quella città!», è l’esaltata accoglienza che gli riserva l’artista. L’attaccante, nervosissimo, si fa scappare qualcosa di troppo sull’incontro previsto per il giorno successivo. E così, dopo due o tre canzoni, a Elton parte la dedica sul palco: «Questa è per il mio buon amico Mark, che oggi è a Manchester per prendere una grande decisione». Viduka ha le mani tra i capelli e spera che la cosa si fermi qui, che non venga detto altro. «Grazie a Dio non aggiunse nulla. Non firmai con il Manchester United. In quel periodo mi piaceva molto vivere a Leeds».
Dopo un’altra stagione all’inseguimento della qualificazione Champions (fallita), il Leeds si ritrova in pessime acque. David O’Leary viene licenziato alla fine di giugno, al suo posto arriva Terry Venables. La squadra inizia bene, poi si accartoccia. Il nuovo manager va in rotta con le società per le numerose cessioni – durante l’anno, tra gli attimi conclusivi della finestra estiva e la sessione di gennaio, vengono venduti, per fare cassa, Woodgate, Robbie Keane, Bowyer e Fowler – e i risultati peggiorano drasticamente: l’ex c.t. della Nazionale inglese si dimette il 21 marzo, dopo aver infilato sei sconfitte in otto partite a partire dall’11 gennaio. In panchina arriva Peter Reid, il Leeds è in piena lotta salvezza. Dopo aver perso in casa contro il Blackburn alla 36esima giornata, deve volare a Londra per vedersela con l’Arsenal, ancora aggrappato alla speranza di vincere il titolo. Kewell sblocca dopo 5 minuti, impatta Henry alla mezz’ora, quindi è Harte a riportare avanti il Leeds ma Bergkamp trova subito il 2-2. La partita scivola così verso un turbolento finale e Viduka, a 2 minuti dalla fine, realizza quello che rischia di essere il gol più importante della sua storia con il Leeds. È la rete che allontana l’incubo retrocessione e nega all’Arsenal la possibilità di rimanere agganciato al Manchester United.
Forse una delle migliori cinque cronache tifose che potrete sentire nella vostra vita.
Uno sforzo vano, perché il Leeds, compreso Viduka, retrocede l’anno successivo. L’australiano lascia lo United dopo 72 gol in 166 presenze complessive. Alle soglie dei trent’anni passa al Middlesbrough: il primo anno è funestato dagli infortuni ma nel secondo trova maggiore continuità e il Boro raggiunge addirittura la finale di Coppa UEFA, contro il Siviglia. È la notte che dà il via alla dinastia degli andalusi nella seconda competizione europea: Viduka parte titolare al fianco di Hasselbaink, Luis Fabiano porta avanti la formazione di Juande Ramos che poi dilaga nel finale, con la doppietta di Maresca e la rete conclusiva di Kanoutè. Per diversi mesi, Viduka pensa a quell’epilogo triste, alle occasioni sprecate, a un rigore non concesso. Lascia Middlesbrough un anno più tardi, dopo aver atteso a lungo un’offerta di rinnovo contrattuale arrivata solo dopo l’ultima giornata di campionato, e si accasa al Newcastle a parametro zero.
È un Viduka crepuscolare, che nel 2006 si era già tolto l’enorme soddisfazione di rappresentare l’Australia ai Mondiali di calcio. Per farlo aveva dovuto ringraziare il suo grande amico Mark Schwarzer: l’attaccante aveva infatti sbagliato il suo calcio di rigore nella serie conclusiva contro l’Uruguay, ma le due parate del portiere avevano permesso ai “Socceroos” di interrompere la maledizione dello spareggio inter-zona, che era già costato la qualificazione ai Mondiali nel 1986 (Scozia), nel 1994 (Argentina), nel 1998 (Iran) e nel 2002 (ancora Uruguay). «Quando ho sbagliato il rigore ero sotto shock, per fortuna Schwarzer ci ha salvato con due grandi parate. Quell’errore mi è costato parecchie birre e caffè. È stato bello rappresentare l’Australia insieme a quella generazione di calciatori».
I due anni a Newcastle sono malinconici: 7 gol nel primo campionato, nessuno nel secondo, segnato da un grave infortunio che lo tiene lontano dal campo praticamente per tutta l’annata. Viduka è stanco, il corpo porta i segni di una carriera lunga e logorante. Lo chiama il Fulham di Roy Hodgson, il manager gli offre un contratto biennale, lo immagina come punto di riferimento offensivo della squadra. Mark ci pensa, ma non è cosa. «Roy, mi piacerebbe davvero essere il giocatore che hai in mente. Ma non lo sono più», gli dice in un colloquio che è il preludio al ritiro. Per ora non è rientrato nel mondo del calcio, non sembra interessato, ma non è un’ipotesi che esclude. «Nel momento in cui ho smesso, avevo un unico pensiero: trascorrere più tempo con la mia famiglia, vedere crescere i nostri tre figli. Quando sei un calciatore professionista, tutto ruota attorno al calcio. Vincere, perdere, passare da una squadra all’altra. Sono stato sotto i riflettori e sotto pressione sin da giovane, è qualcosa di molto stressante».
A una decina di minuti dal centro di Zagabria, a Šestine, c’è il locale della nuova vita di Mark Viduka, che sembra perfettamente a proprio agio in un sistema di vita differente da quello che lo costringeva a stare perennemente alla ribalta. Il bar si chiama “Non Plus Ultra”. «Per me è bellissimo fare qualcosa di diverso. Prepari un caffè schifoso, lo butti e ci riprovi, cercando di fare il miglior caffè possibile. Penso di essere diventato molto bravo in questo». I giornalisti di ESPN Australia gli hanno chiesto se questa nuova vita non sia troppo parca di pressioni. Mark ha guardato il fondo di una tazzina, ha sorriso, ha ripensato a quando accarezzava il pallone con l’anima del ballerino e il fisico di un traslocatore: «Non avete idea di quanto la gente prenda sul serio il caffè».