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Filosofia del Corto Muso
20 feb 2023
Siamo sicuri che su questo argomento è stata rigirata la frittata?
(articolo)
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Ad Allegri non piace come si parla di lui nel discorso calcistico. Anzi, non gli piace proprio che si parli di lui, è insofferente che qualcuno abbia sviluppato un’idea sul suo modo di allenare, sulle sue squadre. Per Allegri, lo sappiamo, il calcio è semplice, e tuttavia proprio perché è semplice pochi sono in grado di parlarne. Chi ne parla è perché vuole complicarlo, aggiungerci strati di sofismo, di cazzate, allontanarci dalla verità che invece è sotto ai nostri occhi - come ci ricorderebbe una religione orientale. La verità la conoscete già: il calcio è semplice. È quindi curioso che nessuno più di Allegri è capace di stuzzicare il dibattito italiano su cosa sia il calcio, su come si debba giocare, sulla sua natura profonda. Nessuno fa teoria e filosofia del calcio quanto lui.

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Questa è solo una delle sue tante contraddizioni, che di solito rimangono sotto la superficie del discorso. Qualche giorno fa, però, al termine di Juventus-Nantes, Allegri ha contraddetto sé stesso in maniera esplicita. Almeno il sé stesso del passato che ci ricordava spesso il salutismo di una dieta magra fatta di vittorie per 1-0. La Juve aveva appena pareggiato contro il Nantes per 1-1, una di quelle partite dopo le quali sarebbe il caso di andare a farsi togliere il malocchio. L’Europa League è oggi l’obiettivo, anche simbolicamente, più importante della stagione della Juve. Era successo quello che grazie a un tacchetto di scarpino non era successo tre giorni prima contro la Fiorentina, quando la Juventus era riuscita a trascinare in porto il risultato sacro di uno a zero. Stuzzicato da De Grandis, pure in modo placido, Allegri non si è più tenuto: «Sento dire che io sono uno che vuole vincere 1-0. Sono stufo di sentire queste stupidaggini. Mi fate incazzare. Guardate i numeri delle squadre che ho allenato dal 2010 a oggi. Ho sempre avuto la miglior difesa e il secondo miglior attacco. Guardate quanti gol fanno le mie squadre, 70-80: altro che 1-0».

È persino troppo facile fare debunking sulle dichiarazioni di Allegri, lo hanno già fatto in tanti. Comunque, non è vero: le squadre di Allegri sono state per due volte il miglior attacco del campionato e mai il secondo miglior attacco. Nelle rimanenti stagioni da allenatore le squadre di Allegri non sono state particolarmente prolifiche, almeno in relazione al talento a disposizione. Soprattutto, l’idea che la Juventus, almeno nelle sue versioni più recenti, sia una squadra che vuole tendere naturalmente all’1-0, non è un’invenzione maliziosa, lo dicono le partite. In questa stagione la Juventus ha segnato uno o nessun gol in 17 partite; ha vinto col punteggio di 1-0 per 7 volte, soprattutto durante quella lunga striscia di vittorie, prima della sosta, in cui l’identità della squadra aveva preso una forma ben precisa. «I numeri non sono opinabili», dice Allegri.

È difficile dire se sia più volontà o contingenze. In alcuni match la Juventus è riuscita a spuntarla grazie a un episodio tardivo che ha sbloccato la partita. In altre partite la squadra è sembrata accontentarsi dell’unico gol di vantaggio, controllando poi le situazioni con cinismo, stretta nella propria difesa posizionale. La prima Juve di Allegri controllava le partite anche attraverso un possesso narcolettico del pallone, la seconda, che ha meno mezzi tecnici, usa soltanto la difesa posizionale. Le ragioni possono essere tante, ma il risultato di 1-0 ricorre molto spesso per la Juve. Abbastanza spesso da annoiare persino il nipotino di Max.

Allora la domanda diventa: è peggio una squadra che vuole sempre vincere con lo scarto minimo, oppure un allenatore che non riesce a far vincere la squadra con più di uno scarto minimo nonostante vorrebbe?

Di certo Allegri ha fatto di tutto per costruire un sistema di pensiero che esalta l’1-0 come risultato ideale del calcio. In un articolo ripercorrevamo la storia degli 1-0 di Allegri, che col tempo si sono imbevuti di particolare significato. Sono diventati il suo risultato manifesto. In quegli anni Chiellini riconduceva il risultato di 1-0 nell’identità della Juventus, e lo stesso aveva fatto De Ligt: «La cosa più importante è vincere. Qui se vinciamo 1-0 e giochiamo male, siamo felici». Allegri chiosava: «Gli 1-0 servono perché oltre ai tre punti in classifica si impara a soffrire». Tutte le volte che non aveva parlato in maniera esplicita degli 1-0, aveva comunque descritto una filosofia della praticità molto precisa, quando la sua squadra vinceva con poco scarto sugli avversari (su avversari molto spesso più deboli): «Essere bellini e non vincenti ci vuole poco. Quando smetterò mi dovranno spiegare, visto che non lo capisco bene, cosa vuol dire giocare bene». Dopo un pareggio col Milan, arrivato dopo essere stati in vantaggio 1-0, se la prese con sé stesso per non aver fatto dei «cambi più difensivi», e poi con Chiesa per qualche ripiegamento mancato: «Se in quei 15 minuti non si capisce l’importanza del risultato, se non si mettono da parte le robe personali e ci mettiamo a disposizione della squadra, a costo di... anche se sono una punta di fare il terzino, poi le partite non le porti a casa».

Allora viene da pensare che l’1-0 che ricorre così spesso non sia una contingenza ma la diretta espressione di queste idee di Allegri. È inutile ripercorrere qui tutta la lunghissima diatriba fra Allegri e il concetto di “Bel gioco”. Un conflitto nato negli studi di Sky con Adani, alimentato dalla rivalità con il Napoli di Sarri. Quello che vale la pena sottolineare è che Allegri non si è mai trovato in questi discorsi suo malgrado, ma li ha alimentati con tutto il suo gusto livornese per la chiacchiera ironica. Tutta la falsa contrapposizione tra Giochismo e Risultatismo è stata opera di Massimiliano Allegri. Certo, Allegri ha solo portato in superficie uno schema del discorso che in Italia esiste dai primi del Novecento, o almeno dai tempi di Gianni Brera e del Santo Catenaccio. Allegri però gli ha fatto da megafono, gli ha costruito intorno un impianto dialettico. Con una mano ha nutrito l’animo storicamente conservatore del pubblico calcistico italiano, e con l’altra ha relativizzato le proprie responsabilità, sottolineando che sono i giocatori a vincere le partite.

Una volta che si è allontanato dalla Juventus, nel periodo in cui è rimasto lontano dalle panchine, ha rilasciato una serie di interviste con cui ha cesellato la sua visione del calcio. Ha cominciato una chiacchierata con ESPN parlando di un addestratore di cavalli, sottolineando l’importanza di guardare le gambe dei cavalli al mattino: «Dico sempre ai miei assistenti di guardare a come i calciatori muovono le gambe, non il computer». Un’intervista in cui ci tiene a professare una visione del calcio ai limiti del misticismo new age. Allegri che non ha un computer, che ricorda l’importanza dell’odore dell’erba, del rumore del campo. Allegri a cui basta un’occhiata per capire come sta un giocatore e se c’è bisogno di sostituirlo. Poi è andato a Sky Calcio, in una chiacchierata che ha usato per definire il suo pensiero sul calcio nella sua interezza: dai settori giovanili che non curano abbastanza la tecnica agli eccessivi tatticismi del calcio italiano, da chi è meglio tra Messi e Ronaldo alla costruzione dal basso. In quell’intervista ha definito la figura dell’allenatore come una specie di stregone che, seguendo l’istinto, può governare il caos di una partita di calcio. Un mondo inteso come pieno di variabili imprevedibili: «perché [la domenica] c’è la gestione dell’imprevisto, non rientra né nella tecnica e né nella tattica». In quell’intervista Allegri diceva che esistono diverse categorie di allenatori: «Ci sono gli allenatori dal lunedì al sabato che è un mestiere, la domenica è tutta un’altra roba».

Insomma: a pochi quanto ad Allegri piace fare filosofia del calcio, trasformare gli studi televisivi in un palcoscenico a metà tra un bar di Livorno e la scuola di Atene. È vero: insiste spesso sull’importanza del senso pratico, ma che cos’è questa se non un’altra forma di filosofia? Una filosofia della praticità. Altrimenti dovremmo pensare che chiunque giochi un calcio diverso da quello di Allegri - per esempio chi usa a fondo gli strumenti del gioco di posizione - sia animato da uno spirito da dandy, da esteta disinteressato al successo e al proprio posto di lavoro. È curioso che oggi esiste tutto un altro filone del dibattito che indica il Gioco di posizione come un’espressione della macchina efficientista dell’ultracapitalismo, in quel caso da contrapporre al Gioco di relazioni. Come sempre, è questione di punti di vista da cui mettere in prospettiva le cose.

Allegri è l’ultima incarnazione della scuola tattica italiana. Una visione per cui il calcio è dominato dal caos e l’unica cosa che si può controllare non è il pallone ma lo spazio, quello tra gli avversari e la porta. Per il resto una partita è fatta da una somma di casi, di episodi incontrollabili che bisogna riuscire a navigare con furbizia. Allegri allora dice cose come «Meglio stare con quelli fortunati o con quelli bravi» e sostiene che il ruolo dell’allenatore sia quello di «Fare meno danni possibili», quindi non toccare le trame che il Dio del calcio ha riservato a una partita. «Primo non prenderle» diceva Bearzot, poi ci penseranno i giocatori di talento a vincere la partita. E Allegri non fa che ripetere che «Le partite le vincono i giocatori, io a volte faccio danni e poi rimedio». E poi ovviamente l’odio per lo spettacolo: «In campo per vincere, non per divertire»; «Per lo spettacolo si va al circo, qui ci sono i risultati».

Dentro questo contesto discorsivo è naturale considerare l’1-0 un’espressione della visione del calcio di Allegri e non un risultato semanticamente neutro. Ed è naturale che il concetto di Corto Muso sia stato utilizzato come termine-ombrello per descrivere questa filosofia, sintetizzando amore per i cavalli e per le vittorie di misura.

La metafora del Corto Muso è stata utilizzata da Allegri per spiegare la corsa in classifica di due squadre di testa, in quel caso Napoli e Juventus. Il tecnico si riferiva al fatto che non fa differenza vincere i campionati con 1 punto di vantaggio o con 20: «Musetto davanti, fotografia». Col tempo il concetto di Corto Muso ha assunto dei significati più estesi, riferendosi alle singole partite, alle vittorie per 1-0. Ma non solo: in tutta la wave ironica digitale il Corto Muso è una visione delle cose per cui si può ottenere il massimo risultato col minimo sforzo. Dopo anni in cui ha flirtato più o meno ironicamente con questa idea («Io mi ci diverto» ha ammesso), Allegri ha preso le distanze da quest’uso nella conferenza prima della partita con lo Spezia. Ha detto che sul Corto Muso «avete rigirato la frittata». È ovvio ribadire che l’uso originario del concetto di Corto Muso da parte di Allegri fosse un altro, ma se quella parola poi ha preso un senso più ampio non è per la malafede delle persone, ma perché Allegri in questi anni ha fatto di tutto per proiettare sulle partite significati vasti, speculativi, creando un dibattito sempre fortemente polarizzato. Di questa trama di polemiche il Corto Muso ha rappresentato il cuore dialettico.

Intendiamoci: Allegri non è sempre stato così. Quando la Juventus vinceva, Allegri era in perfetto controllo comunicativo del suo personaggio e delle sue idee, che coincidevano in modo mirabile col gioco della squadra.

La battaglia di Allegri contro l’idea di “Bel gioco” va anche più indietro di Sarri, arriva almeno al 2017. In quel periodo Fabio Barcellona aveva scritto un articolo in cui si chiedeva se era vero che la Juventus giocasse male come si diceva. Era il pensiero comune, e ad Allegri dava fastidio anche all’epoca. Solo che in quel periodo, quello in cui il tecnico vinceva uno Scudetto dietro l’altro e arrivava in finale di Champions League, era difficile da sostenere. O quanto meno era un discorso di pura estetica. Se il parametro per “giocare bene” è l’efficienza, diceva Barcellona, la Juventus gioca benissimo. In quel momento la Juventus rispecchiava davvero il sistema di pensiero di Allegri: una squadra arcigna ma in cui i grandi giocatori riuscivano ad associarsi tra loro usando la tecnica. Una squadra flessibile, matura, capace di adottare tanti registri all’interno di una partita con la stessa disinvoltura. Una squadra pragmatica nel senso più profondo del termine.

Dal suo ritorno però la Juventus di Allegri non è più quella squadra lì, e il sistema di pensiero che continua a esprimere il tecnico ai microfoni allora suona vago, astratto. È diventato un'estetica. A dire il vero già dal suo ultimo periodo Allegri la Juventus sembrava aver superato il confine tra una squadra pratica e una povera, e il tecnico cominciava ad avvitarsi cupamente sulle proprie posizione di retroguardia. Dopo la sconfitta a Ferrara aveva usato la metafora del Corto Muso, avviando il periodo in cui l’Allegri personaggio ha mangiato l’Allegri allenatore, in cui le parole e i fatti hanno cominciato a non combaciare più.

Allegri ha chiamato il suo cavallo Corto Muso e il concetto di Corto Muso è infine entrato tra i neologismi del 2021 nell’Enciclopedia Treccani nel suo senso esteso: «Vittoria ottenuta col minimo distacco necessario». Insomma, pare che Allegri sia diventato ciò che più temeva, e cioè un filosofo, un ideologo, un teorico del calcio.

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