Mattia Faraoni è un peso massimo leggero di 29 anni che vanta 29 incontri nella kickboxing, con un bilancio di 25 vittorie (12 per KO) e 4 sconfitte. Una disciplina in cui si è laureato tre volte campione italiano, oltre ad aver ottenuto un terzo posto sia ai campionati europei che a quelli mondiali della sigla WAKO, e combattuto in galà del calibro di Oktagon e Bellator. Ma Faraoni è stato anche un ottimo pugile dilettante (campione italiano degli Assoluti e universitario, vincitore del Guanto d’oro) prima di passare alla boxe professionistica, dove attualmente detiene un record di 6 vittorie, una sconfitta e un pareggio.
E non finisce qui: Faraoni infatti è molto popolare sui social network, in particolare su Instagram, dove il suo profilo è seguito da quasi 90 mila persone. Un successo raggiunto anche grazie all’attività su YouTube insieme a Cicalone Simone e Simone Carotenuto, in arte Sim1workout, entrambi YouTuber affermati, in video che spaziano dalle tematiche sociali, accendendo spesso i riflettori sulle periferie romane (e non solo), fino ai retroscena della vita sportiva di Faraoni (gli sparring con altri atleti, il taglio del peso, e molto altro).
Il fighter laziale tornerà in azione in veste di pugile per andare nuovamente all’assalto del titolo italiano Cruiser contro il 35enne campione in carica Francesco Versaci (21-3, 1 pareggio). Una sfida che costruirà il main event della riunione prevista per venerdì 16 luglio dalle ore 20 e visibile in diretta, acquistando il pay-per-view, sull’applicazione FL Sport, oppure dal vivo allo stadio Angelo Sale di Ladispoli (ma la capienza sarà ridotta, e i biglietti, disponibili contattando il Team Boxe Roma XI, sono in esaurimento).
I due pugili si sono già affrontati lo scorso marzo, in un match terminato prematuramente alla prima ripresa, a causa di un colpo alla nuca di Versaci sferrato senza intenzionalità da Faraoni, ma accusato dal pugile calabrese tanto da spingere il medico a decretare la fine delle ostilità. L’incontro si è quindi concluso con un verdetto di parità molto discusso.
L’inaspettato esito del match infatti ha deluso i tanti appassionati che lo hanno seguito, scatenando polemiche e dibattiti riguardo la dinamica dell’infortunio di Versaci, spesso accusato di aver simulato, o quantomeno accentuato, le conseguenze di un colpo che, visto in televisione, poteva sembrare innocuo. Una versione che Versaci e il suo team hanno prontamente smentito.
Uno scatto immortala il guantone destro di Faraoni che impatta sulla nuca di Versaci (Credits: Fabio Bozzani).
«Finalmente parlerà il ring» mi dice Mattia, quando lo raggiungo al telefono. «C’è un’attesa incredibile. In una dozzina di giorni sono stati venduti quasi ottocento biglietti, arriveranno spettatori da tutta Italia. Lo scorso marzo ho subito detto a Versaci, quando eravamo ancora sul quadrato: “Siamo due bei pugili, rifacciamo questo match”. Ha accettato, e tornerà a Roma per metterci la faccia, quindi lo rispetto. Anche se non so ancora spiegarmi cosa sia successo davvero nel nostro primo incontro».
Tecnicamente come analizzeresti il modo di combattere del tuo avversario e quale tipologia di match ti aspetti?
É un pugile con la “P” maiuscola perché è molto esperto, vanta una carriera di diversi anni. Lo considero un atleta tecnico, ma so che durate il match potrebbe adottare sia una strategia attendista, che invece lanciarsi all’attacco. Mi sono allenato per farmi trovare pronto in ogni caso, sia contro un picchiatore che nell’affrontare un pugile calcolatore e stratega.
Versaci ha più del triplo dei tuoi incontri. Credi che la sua maggiore esperienza possa giocare un ruolo importante nel match?
Avrà un vantaggio per quanto riguarda il suo trascorso nella boxe. Ha disputato molti incontri sulla distanza delle dieci riprese, alcuni valevoli per diversi titoli. Però anch’io ho calcato il ring in tante occasioni, soprattutto nella kickboxing e spesso in eventi importanti, dove ho imparato a gestire la pressione dei grandi palcoscenici. Un aspetto che potrebbe rivelarsi fondamentale in una sfida così sentita dal pubblico.
In che modo ti sei preparato in vista dell’esordio sui dieci round?
Ormai è da dicembre che svolgo lunghe sedute di sparring con atleti esperti, un paio di volte a settimana. Faccio alternare i diversi pugili con cui mi alleno in modo che siano sempre più freschi di me e possano mettermi a dura prova. Ho dovuto lavorarci parecchio, perché come atleta penso di dare il meglio quando mi esprimo con massima esplosività, potenza e velocità. Ma non posso combattere così per dieci round. Il training camp mi ha reso consapevole di come affrontare tatticamente il match, in modo da vincere ogni ripresa.
Una locandina del match in scena il 16 luglio (via Instagram/@mattiafaroni).
Nei giorni successivi al vostro primo incontro Versaci ha subìto una sorta di gogna mediatica sui social, per la maggior parte ad opera dei tuoi sostenitori. Vuoi dire qualcosa in merito?
Ovviamente condanno chi lo ha minacciato e insultato. Le offese e gli accanimenti devono restare fuori dallo sport. Il pubblico che mi segue mi è molto affezionato, per cui può reagire con grande enfasi a certe situazioni, ma andare oltre la linea invalicabile della decenza e dell’educazione è sempre sbagliato. E io non posso gestire tutti i miei fan. Da parte mia penso di aver dato il buon esempio, come cerco sempre di fare: persino a caldo, quando la sfida è stata interrotta decretando il pareggio, non sono mai andato sopra le righe, né ho detto mezza parola fuori posto, nonostante tutti i sacrifici fatti per un incontro durato un round. Sono uno sportivo, voglio unire gli appassionati e i tifosi, non dividerli.
Da un punto di vista tecnico e di automatismi, dedicarsi contemporaneamente a due sport differenti come la kickboxing e il pugilato non diventa complicato?
Sono cresciuto praticando entrambe le discipline, quindi riesco facilmente a passare da una all’altra, è come se dentro di me fossero divise in compartimenti stagni. Poi chiaramente ogni sport ha la sua specificità, e praticandone più di uno si tende a perderla. Il pugilato professionistico è come se fosse una maratona, con un ritmo inferiore ma costante, mentre la kickboxing, dove i titoli si disputano sui cinque round, è paragonabile ai duecento metri di corsa, con tanta qualità da esprimere in meno tempo, spingendo al massimo.
In diverse occasioni hai dichiarato che non escludi di cimentarti in futuro nelle MMA. È una suggestione oppure uno sfizio che davvero vorresti toglierti?
Confermo, quando mi alleno con Alessio Di Chirico, Carlo Pedersoli Jr. e altri amici che sono fighter di arti marziali miste spesso mi dicono che avrei le carte in regola per combattere nell’ottagono. Con il mio striking imprevedibile e il footwork che mi contraddistingue potrei essere molto pericoloso in gabbia. Nella lotta invece ho fatto poco e niente, lo ammetto, dovrei imparare almeno a difendere i takedown. Al momento però è impensabile un mio esordio nelle MMA, ho già due carriere in corso, non mi avanza tempo da dedicare a un terzo sport. Ma chissà, mai dire mai.
Mattia Faraoni, però, è molto più che un fighter. Anzi, l’interesse di intervistarlo è nato, oltre che grazie ai suoi notevoli risultati sportivi, per il suo impegno nell’accendere i riflettori sul degrado socioculturale ancora diffuso in troppe periferie italiane. Qualche mese fa mi sono imbattuto in una docu-serie dal titolo Residence Bastoggi, trasmessa nel 2003 da Rai3 e disponibile a puntate su YouTube. La scheda del programma recita: “Il documentario è incentrato sulla vita reale di uno dei quartieri più poveri e degradati di Roma (Bastogi appunto, la doppia g è per la pronuncia romana) e mostra quanto sia difficile, soprattutto per i giovani, vivere e crescere in tali condizioni”.
La serie è un pugno nello stomaco, un’immersione in una realtà cruda, spietata e spiazzante da cui si riemerge con un sapore amaro in bocca. Ho notato immediatamente diversi punti in comune tra Residence Bastoggi, girata quindi 18 anni fa, e l’attualissima Quartieri criminali, un video-format da milioni di visualizzazioni diffuso su YouTube con protagonista proprio Faraoni, insieme al già citato Cicalone Simone, ormai star della piattaforma. «Adesso ci supporta anche l’Università Niccolò Cusano, finanziandoci le trasferte e facendoci seguire da un docente di sociologia, perché ci stiamo spostando da Roma, vogliamo visitare le periferie dell’intera Italia» mi spiega Mattia. «Lavoriamo con un team professionale formato da autori, cameramen, un fotografo e anche un paio di operatori che realizzano riprese aeree con i droni. Poi c’è Cicalone che è un genio del montaggio. Grazie ai numeri generati dalla serie ci hanno contattato persino le televisioni. Abbiamo fatto un servizio con La7, e si sono fatte avanti altre emittenti della stessa caratura, ma al momento non posso dirti nulla di più».
Com’è nata l’idea del format?
Dopo aver visto un video di Cicalone in cui passeggiava per Tor Sapienza insieme a un pugile, Fabio Mastromarino. Frequento Simone da più di dieci anni, e avevamo già realizzato qualche contenuto insieme, oltre al fatto che si era occupato spesso di criminalità e temi simili. Allora gli ho detto: “Dato che conosco tante persone in città, perché non andiamo a visitare quei quartieri che hanno una cattiva fama, però facendoli raccontare dalle persone del posto per sfatare qualche falso mito sul loro conto?”.
In che modo avete mosso i primi passi per inaugurare la serie?
All’inizio siamo partiti dal rione accanto a quello in cui sono cresciuto, perché mi conoscevano bene e ho potuto fare da garante, ovvero assicurare che non ci sarebbero state strumentalizzazioni nel montaggio dei filmati, riguardo quello che ci avrebbero detto. E poi l’idea di parlare davanti ad una telecamera non piaceva, per certe regole e codici non scritti della strada. Ma si sono fidati di me e abbiamo realizzato la prima puntata. A quel punto è iniziato un passaparola tra gli abitanti dei quartieri, che ci ha fornito di nuovi spunti e contatti. E dopo che anche realtà difficili come Tor Bella Monaca e San Basilio ci hanno accolto, la strada è stata in discesa.
Come funziona quando individuate il quartiere in cui girare un nuovo episodio?
Grazie alle nostre conoscenze ci mettiamo in contatto con le figure di riferimento del luogo che vogliamo visitare, poi sul momento capita che si aggiungano altri partecipanti. È fondamentale accordarsi con un certo preavviso dato che andiamo lì con le telecamere, e poi è anche questione di educazione e rispetto. In qualunque posto tu vada devi chiedere il permesso e perlomeno presentarti prima di fare qualsiasi ripresa.
Quali pensi che siano i punti di forza del vostro progetto?
Saper portare alla ribalta realtà sociali nascoste che il pubblico non conosce, e che spesso diventano vere e proprie dimensioni parallele, e trasmettere testimonianze di persone che hanno attraversato periodi di detenzione, o sono state tossicodipendenti, oppure semplicemente di chi vive quel contesto quotidianamente. Mai per sentito dire, chi partecipa ai nostri video ci mette la faccia e racconta i suoi trascorsi. Gli spettatori vedono gli effetti di un certo stile di vita, si accorgono che magari un 40enne dimostra il doppio della sua età per via degli errori commessi, che lo hanno segnato. Ascoltano cosa significa rimanere lontani dai propri cari per anni a causa di scelte sbagliate. Oppure imparano a conoscere quelli che invece non si sono mai persi, e grazie al duro lavoro, alla musica o allo sport, si sono salvati, scegliendo altre strade. Tra l’altro siamo intergenerazionali, il pubblico che ci segue è trasversale, va dai 14 agli oltre 60 anni. Per strada mi ferma dal ragazzino 15enne che mi chiede la foto, al pensionato che si complimenta per quello che stiamo facendo, perché ne coglie l’importanza.
Si può dire che state realizzando un lavoro di inchiesta giornalistica, pur senza essere giornalisti. Un aspetto che però sembra avvantaggiarvi, perché anche dai vostri video spicca come gli abitanti di alcune realtà abbiano sviluppato una certa insofferenza per la narrazione che i mass media hanno costruito intorno a quei luoghi.
Credo sia perché abbiamo un modo di porci completamente diverso rispetto a molti giornalisti, che spesso quando visitano quei posti cercano il sensazionalismo per confezionare il loro servizio. Non ci prepariamo né un copione, né una scaletta. Facciamo parlare senza vincoli chi vive sulla propria pelle quella realtà, lasciandogli libertà assoluta di esprimersi e di raccontare la loro condizione. A Scampia ho chiesto a una signora come stesse, e lei mi ha risposto rivendicando con orgoglio, perché pensava che la mia domanda fosse prevenuta, che non le mancava niente. Allora ho replicato che non intendevo sottintendere nulla e che poteva rispondermi sinceramente. Credeva che volessi sentirmi dire che a Scampia si vive male, che è tutto brutto. Noi diamo la parola a loro, senza pregiudizi o preconcetti sul posto in cui vivono e su quello che potrebbero raccontarci.
Mattia Faraoni (il primo a destra) con Simone Cicalone (che inaugura la fila da sinistra) e il professor Marxiano Melotti (in fondo, con gli occhiali da vista) insieme ai ragazzi protagonisti del video girato a Scampia (via Instagram/@mattiafaraoni).
Nel format intervistate anche persone con svariati precedenti penali, per evidenziare come la delinquenza non paghi e trasmettere quindi un messaggio educativo. Come ti muovi e agisci per realizzare un video con questo scopo, e che invece non sfoci mai in un’esaltazione, anche involontaria, della criminalità?
Ottima osservazione. Considera che un’altra qualità della serie è la sua durezza e crudezza, è estremamente reale, e ciò può portare a qualche effetto collaterale. Capita di interpellare ragazzi appena usciti dal carcere, che quindi non hanno ancora trovato una stabilità, e può succedere che in alcuni passaggi il discorso della detenzione venga affrontato da parte loro quasi esaltandolo, con euforia, come a volte accade in certe dinamiche di strada. Anche perché un conto è il pregiudicato maturo, che a sessant’anni ha davvero cambiato mentalità, e un altro è quello giovane, ancora acerbo. Ma si tratta di un paio di episodi di questo tipo su venticinque video circa.
Insomma, andate in controtendenza rispetto alla classica mitizzazione della cosiddetta “vita di strada”, che invece è diffusa con entusiasmo da diverse figure che spesso si affermano come riferimento per i più giovani.
Esatto, ci poniamo in netto contrasto con questa triste moda. Chiunque può notare come nei nostri video ci relazioniamo con criminali veri (e non persone che si atteggiano a tali) e veniamo accolti e rispettati pur senza esserlo. Anzi, a me apprezzano soprattutto perché sono uno sportivo, e nello specifico un fighter, un ruolo che esercita sempre un certo fascino. Se vedi come mi comporto con le persone che incontriamo nei nostri giri nei quartieri, noterai che sono sempre umile, gentile ed educato. Lo sottolineo perché ci tengo, e per evidenziare quindi come non serva fare il gradasso, alzare la voce, essere prepotente per avere considerazione, anche in contesti particolari come quelli che visitiamo.
Come pensi che stiano crescendo le nuove generazioni nei contesti periferici in cui sei stato?
Guarda, spesso la domanda con cui inizio i video di Quartieri criminali è: «Com’è cambiato il rione negli anni?», perché sono convinto che le persone che vivono nel quartiere siano il riflesso del quartiere stesso. E tendenzialmente mi rispondono che è migliorato rispetto al passato. Questo fa sì che le nuove generazioni si ritrovino in una condizione di partenza avvantaggiata rispetto a quella dei loro genitori, con maggiore possibilità di emanciparsi e sempre meno necessità di dover delinquere per mantenersi e sopravvivere.
C’è stata un’occasione in cui vi siete sentiti in pericolo?
No, mai.
Cosa pensi traspaia di più dalla serie?
Le vicende di queste persone che non hanno una voce per farsi sentire, la loro grandissima dignità, e le mancanze dello Stato. Io sono convinto che laddove ci sono degrado, malavita, crimine e abbandono, matematicamente significa che lì lo Stato è assente. Quando un essere umano è costretto a raccattare la propria cena da un cassonetto dell’immondizia, oppure laddove una famiglia vive in una casa con i vetri rotti e i muri pericolanti, è solo perché le istituzioni latitano. È lo Stato che deve intervenire, come un genitore, perché noi siamo tutti suoi figli. A Scampia ho letto una frase bellissima: “Bisogna riabituarsi alla bellezza”. Il concetto è semplice: se passeggi in un prato incontaminato, difficilmente farai il gesto di buttare una cartaccia a terra. Ma se cresci in un luogo sporco e trascurato, per te quella diventa la normalità, e devi essere rieducato per uscirne. È un processo lungo e difficile, che però deve necessariamente partire dalle istituzioni.
Ci racconti un aneddoto, qualcosa che ti ha colpito girando quei video?
Ricordo un signore cubano incontrato realizzando l’episodio sulla stazione Termini di notte. Dormiva lì, accampato, perché aveva perso tutto a causa della crisi economica scatenata dalla pandemia. Immagina una persona con una vita regolare, con un lavoro e una casa, che in pochissimo tempo si ritrova a vivere per strada. Ma quello che mi ha colpito di più è stato l’ottimismo che lo animava. Ci ha ripetuto più volte: «È una situazione provvisoria, mi sto già arrangiando con qualche lavoretto, adesso ne troverò di migliori», eccetera. Veramente un grande, lasciamelo dire dal profondo del cuore. E sono felice che dopo la pubblicazione della puntata in diversi si siano fatti avanti per aiutarlo. Oggi ha un tetto sopra la testa, grazie ad una persona che lo sta ospitando, e ha anche trovato un lavoro. E non è una novità, capita spesso che in seguito ai nostri video si attivino gare di solidarietà che comportano aiuti concreti a chi ne ha bisogno.
Mentre parlavi mi sono chiesto in quale contesto sociale tu sia nato e cresciuto.
Lo definirei normale, né difficile e né agiato, una via di mezzo. Mio padre ha un background popolare, ha vissuto tra il Tufello e Val Melaina, borgate romane che soprattutto in passato erano note per degrado e criminalità. Poi, dopo il matrimonio con mia madre, si è trasferito alla Montagnola insieme a lei. É un quartiere abbastanza tranquillo, anche se confina con rioni che lo sono di meno. Insomma non mi è mai mancato nulla, soprattutto l’affetto della mia famiglia.
Com’eri da ragazzino? E quando è entrato lo sport nella tua vita?
Sono sempre stato versatile nelle amicizie, nel senso che sono cresciuto in giro per Roma, frequentando dal laureato al ragazzo di borgata, dal professore universitario al pregiudicato. Credimi, ero così estroverso e curioso che facevo fatica a stare in casa. Sono entrato in palestra la prima volta a 7 anni, grazie a mio fratello minore che iniziò con il karate, coinvolgendomi. Mio padre è sempre stato un appassionato di sport da combattimento, quindi forse è per questo che in famiglia inconsciamente abbiamo intrapreso questa strada. Poi a 14 anni ho messo anche i guantoni da boxe per migliorare nello striking. Poco dopo sono passato dal karate, che mi è comunque rimasto nel sangue, alla kickboxing, mantenendo sempre viva la carriera da pugile.
In effetti seguendo le puntate ho notato come sembra esserci un sincero e istintivo feeling tra te, Cicalone e gli abitanti dei quartieri mostrati nei filmati.
Penso conti anche il fatto che sono uno che sa stare in strada, perché l’ho vissuta, ma non nel senso del solito cliché. Intendo dire che so comportarmi in quelle situazioni, e chi le vive mi riconosce come uno di loro a livello di atteggiamenti, perché anche in quei contesti i modi e le maniere sono importanti. Lo noto quando vedo che i ragazzi incontrati in un rione poi mi chiamano per comprare i biglietti del mio prossimo incontro. Spesso si crea una forte empatia tra di noi, e così tutto diventa più facile. Tra persone vere ci si riconosce.
Faraoni sferra un jab all’indirizzo di Versaci durante il loro primo incontro (via Instagram/@mattiafaroni).
Ecco, quanti ti seguono poi anche nella tua carriera da fighter?
Parecchi. Bisogna essere consapevoli dell’importanza di riportare il nostro sport in auge a livello mediatico, conquistandoci una fetta di visibilità che altrimenti non ci concede nessuno. Noi lo stiamo facendo con i nostri mezzi. Vedere un riscontro così evidente da parte degli spettatori è molto importante, anche per la divulgazione degli sport da combattimento. I nostri video quando escono spesso finiscono nelle Tendenze di YouTube, una sezione in cui compaiono i filmati più visti in Italia. Ci sarà capitato una cinquantina di volte. Ci siamo noi e poi Ligabue, la Serie A e Maria De Filippi, per farti capire. Portarci discipline solitamente ignorate credo sia un risultato notevole nel loro interesse, un’occasione per renderle rilevanti.
E realizzando un prodotto mediatico vostro, vi rendete indipendenti dai media tradizionali, arrivando direttamente al pubblico. Un vero e proprio processo di disintermediazione.
Esatto. Considera anche che in Italia non esiste poter fare il fighter a tempo pieno, bisogna trovare altre fonti di ricavi per mantenersi. Io ho scoperto questa, che tra l’altro mi piace e ha anche un fine nobile, e soprattutto mi permette di raggiungere un pubblico vastissimo, da avvicinare agli sport da combattimento. Gente che non ha mai visto un incontro di boxe potrebbe guardarselo per la prima volta. Capisci cosa significa per tutto il movimento? Perché non vedranno soltanto me, ma nove volte su dieci guarderanno anche gli incontri precedenti al mio, ed è così che nascono nuovi appassionati. Pensa se oltre a me anche altri atleti facessero quello che sto facendo io. Riempiremmo stadi da 20 mila persone, ed è quello che mi auguro possa succedere.