«Ha mani molto sensibili. Noi al Rio Ave dicevamo che aveva le “mani morbide”» ha spiegato il suo ex compagno João Tomás: «È nato per fare il portiere». Il ruolo diverso, il mestiere che infrange invece di sbloccare. Della sua ingratitudine nell'immaginario, Jan Oblak è ben consapevole: «Alla gente piace veder segnare gol, sono quelli a rendere il gioco interessante. Perciò noi portieri facciamo qualcosa che a molte persone non piace».
Secondo il suo allenatore, Diego Pablo Simeone, è il migliore al mondo, qualcuno capace di risolvere le partite difensivamente quanto Messi ne è capace offensivamente. Il suo capitano, Koke, un paio d'anni fa sosteneva che pur di tenerlo a Madrid gli si dovesse firmare un assegno in bianco.
È vero che dall'esterno l'Atlético Madrid pare una realtà a sé, un mondo dove i parametri di valutazione sono speciali e i rapporti intorno al carisma di Simeone si venano di una combinazione di stima e lealtà. Ma resta l'impressione che in questi anni Oblak sia stato sottovalutato, e che la tendenza abbia finalmente preso un'altra direzione. Lui anche ora mantiene la calma, quella con cui ha gestito fin qui eredità complicate.
A quarantaquattro anni Robert Volk ancora giocava – non toglieva i guanti dell'Olimpija Lubiana. Un giorno del 2009 mentre osservava il portiere della Primavera, Jan Oblak, che poteva essergli figlio, riconobbe: «È più forte di me». Gli lasciò il posto in prima squadra, ritirandosi dal calcio giocato.
Oblak aveva sedici anni, era un ragazzino che si faceva trenta chilometri in bicicletta per raggiungere il campo d'allenamento – arrivava già stanco. Solo pochi mesi prima, aveva sostenuto un provino con l'Empoli ma era stato scartato, sembrava troppo piccolo fisicamente. Subito dopo l'approdo nella prima squadra dell'Olimpija, fu lui a far saltare l'accordo con un club, il Fulham, che quella stessa estate l'aveva puntato e gli aveva fatto fare una settimana di prova.
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Janez Pate, l'allenatore che a sedici anni lo lanciò nel professionismo, ne parla come di un ragazzo sempre disponibile all'ascolto, all'apprendimento. Di certo Oblak è un tipo pragmatico, poco incline all'immaginazione, severo nel misurare la distanza tra sé e i suoi obiettivi. Alla vigilia della finale di Champions League 2016 rispondeva, a chi gli chiedeva se si vedesse campione: «Non ti ci puoi vedere fin quando non lo sei. Quando lo sarò, allora sì».
Il futuro è scivoloso, agli occhi di Oblak. Nelle rare interviste che concede, non parla volentieri in prospettiva: «Le cose cambiano in un giorno» secondo lui. In effetti il suo percorso è stato chiaro in questo senso. Le difficoltà, lo scetticismo, una fiducia mai garantita, hanno accompagnato il suo percorso.
Dapprima in Portogallo, quando a diciassette anni viene acquistato per quasi 2 milioni dal Benfica. Per tre stagioni girovaga in prestito, dal Nord al Sud del Paese – quattro squadre diverse (Beira-Mar, Olhanense, União de Leiria, Rio Ave), giocando quasi niente, trovando la fiducia di un solo tecnico, Nuno Espírito Santo. Oblak ha difficoltà con la lingua, è giovanissimo, ma tiene duro: «Era la mia grande possibilità, non ho mai pensato di tornare indietro» spiegherà: «Ero andato in Portogallo per il calcio, non per migliorare la mia vita».
Si sente spesso per telefono con Andrej Kračman, allenatore dei portieri dell'Olimpija. Per alcuni mesi il padre lo raggiunge, a sostegno. Quando rientra alla base, nel 2013, Jan non viene granché considerato – addirittura, a ottobre gioca col Benfica B, nella seconda serie portoghese. Poi le cose cambiano di colpo. In parte per un infortunio occorso ad Artur, che gli era stato preferito fino a quel momento. In parte perché le sue prestazioni sono notevoli: con Oblak tra i pali, da dicembre a maggio il Benfica perde una sola gara, ai rigori – la finale di Europa League col Siviglia.
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Oblak significa “nuvola” in serbo-croato, la lingua comune dell'ex Jugoslavia. Di padre sloveno, di madre cresciuta nel nord della Bosnia da famiglia serba, Jan è nato il 7 gennaio, il giorno del Natale ortodosso, nel 1993 – in piena guerra dei Balcani.
Škofja Loka, ventimila abitanti tra i monti dell'Alta Carniola, è la seconda città più antica della Slovenia. Il padre, Matjaž, giocava tra i pali della squadra locale, una realtà non professionistica, ed era l'idolo di Jan. Non ne avrebbe avuti altri, poi, a quanto il figlio stesso precisa: certo avrebbe nutrito ammirazione per qualcuno (Casillas, Buffon) ma nessun idolo, nessuno da imitare, nessuno di cui dire ciò che dice del padre («Volevo essere come lui»).
La prima eredità dunque è paterna. A tre, quattro anni, Jan si metteva subito dietro la porta difesa da Matjaž e si tuffava anche lui quando il padre si tuffava. Durante un intervallo, Jan si mette in porta e para qualche tiro che la sorella, Teja, calcia a rete. Ad assistere c'è un uomo che ne viene folgorato al punto da portarlo nelle giovanili del club per cui lavora, l'Olimpija Lubiana. A dieci anni, così, Jan accede alla prestigiosa squadra della capitale. La sorella invece sceglie il basket, e arriva alla nazionale – oggi ha trent'anni ed è la decana del roster.
I genitori erano andati a vivere insieme molto giovani. Viene dal loro esempio e dall'educazione che gli hanno impartito, secondo Jan, la maturità precoce che si riconosce. A sedici anni se ne sentiva venti, a ventisei spiegava di sentirsene quaranta. D'altronde considera la maturità, insieme alla calma, una dote psicologica importante per un portiere.
A loro, Matjaž e Stojanka, il figlio ha regalato una casa nei dintorni di Škofja Loka e un'auto nuova. Invece la nonna materna, che lui va spesso a trovare in Bosnia, ha spiegato che, per quanto la gente suggerisca che un solo stipendio del nipote basterebbe a comprarle una grande casa, lei sarebbe a disagio e quindi non accetta nulla da Jan.
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Anche a Madrid, gli inizi sono complicati. C'è una seconda eredità, quella di Thibaut Courtois. Ha appena otto mesi più di Oblak, eppure è già lanciatissimo – nuovo portiere del Chelsea, titolare della forte nazionale belga. Rimpiazzarlo sembra un'impresa. Oblak è la seconda scelta della Slovenia e ha raccolto appena 26 presenze con l'unico club blasonato della sua carriera, il Benfica. I sedici milioni spesi per il suo cartellino parrebbero un azzardo. Chiunque gli chiede se avverta la pressione, è un continuo, e lui risponde sempre che non è il sostituto di nessuno.
Sulle prime, Simeone gli preferisce un portiere più esperto – Miguel Ángel Moyá. La svolta passa per una notte di marzo del 2015. Nel ritorno degli Ottavi di Champions League, in casa contro il Bayer Leverkusen, Oblak è in panchina. All'andata il Bayer si è imposto per 1-0. Dopo venti minuti, Moyá si infortuna ed è costretto al cambio. Oblak entra, e poco dopo i "Colchoneros" passano in vantaggio. Si va ai supplementari, poi ai rigori, Raúl García calcia alto il primo ma Oblak riesce a parare quello seguente a Çalhanoğlu – a spostare di nuovo l'inerzia. Quella notte l'Atlético raggiunge i Quarti di Champions e Oblak si guadagna il posto da titolare. «È la gara che mi ha cambiato la carriera» dirà col senno di poi.
Nella Champions League 2015/16, la semifinale di ritorno col Bayern Monaco è una consacrazione. All'andata i "Colchoneros" hanno vinto 1-0, ma ora soffrono terribilmente il pressing tedesco e non riescono a uscire dalla metà campo. Nell'arco di pochi minuti, il Bayern passa in vantaggio e ottiene un calcio di rigore. Oblak ricostruirà quel momento: «Mi dicevo: devo parare questo rigore, se non lo paro ci uccideranno». Come in tutti i giocatori di successo, l'elemento volontaristico pesa molto. Come in tutti i portieri, scorre vivacemente il tema dell'eroe. Quel rigore di Thomas Müller, Oblak lo para. La partita finisce 2-1 per i bavaresi, l'Atlético passa il turno.
La finale che segue è una finale persa. Oblak aveva già perso quella di Europa League col Benfica, ai rigori – sotto gli occhi che colpevolizzano il portiere se i rigori conducono a una sconfitta. A gennaio 2020 ne avrebbe persa un'altra, ancora col Real Madrid e ancora ai rigori.
La finale del 2016 in questo senso è particolarmente dolorosa. Perché è il derby con i Blancos, intanto, e perché Oblak non riesce a parare neanche uno dei cinque tiri dal dischetto. Lo definirà il giorno più triste della sua vita.
Fin lì, in Spagna, non aveva vinto nessuna Liga, nessuna Coppa del Re, giusto una Supercoppa spagnola (2014) ma dalla panchina. Perciò il 2018 spezza quella che sembrava una maledizione: in tre mesi, Oblak alza un'Europa League e una Supercoppa europea. L'ultimo sloveno a vincere un trofeo europeo (la coppa delle Coppe 1990, con la Sampdoria) era stato Srečko Katanec, classe '63, trent'anni esatti più di lui.
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Il croato Vrsaljko, il montenegrino Savić e lo sloveno Oblak: la crew ex-jugoslava dell'Atleti.
La terza eredità viene dalle mani di Handanovič. Pare incredibile che un Paese tanto piccolo abbia tirato fuori due portieri di questo livello. Nonostante lui e Iličić, nonostante un girone accessibile, la squadra non si è qualificata per i prossimi Europei e Oblak continua a mancare le fasi finali di un grande torneo internazionale.
Ha dovuto aspettare il suo turno, per la maglia della nazionale maggiore – aspettare che Handanovič si ritirasse. Ha dovuto sopportare le esclusioni del Ct Tomaž Kavčič, che pure l'aveva lanciato sedicenne in Under 21. Tra 2017 e 2018, addirittura non lo convocava – gli preferiva Vid Belec. E quando finalmente Kavčič si è deciso a inserirlo nella selezione, è stato Oblak a negarsi, adducendo un infortunio da cui riprendersi. Ne è scaturita una burrasca, il CT gli ha dato pubblicamente del bugiardo finendo esonerato dalla Federazione.
A ventisette anni, nel cuore della carriera, Oblak è ormai l'indiscusso titolare della Nazionale. È il vicecapitano dell'Atlético Madrid, col quale ha appena eliminato dalla Champions League il Liverpool detentore, ben più quotato nell'accesso ai quarti. Più in generale, oggi pare che il mondo gli stia riconoscendo il valore che fin qui sembrava non riconoscergli.
Lui parla con la stampa giusto quando deve, e comunque mantiene la sua riservatezza, perciò non possiamo sapere come stia vivendo queste attenzioni. Ma immaginare che tenga i piedi ben saldi a terra, la concentrazione alta verso il prossimo passo, quello riusciamo a farlo. Un proverbio sloveno dice: «Siamo come una goccia sotto un ramo: ora siamo, ora non siamo».