Un anno fa, dopo quattro decenni di assenza, la Formula 1 faceva il suo grande ritorno a Las Vegas con una veste completamente rinnovata. Il tracciato non era più il groviglio di curve ricavato nel parcheggio del Caesars Palace ma un moderno circuito in grado di snodarsi tra le vie più celebri della città. Nella cerimonia di inaugurazione del Gran Premio, dopo un confuso concerto che mescolava rock, dimenticabili cover dei Beatles e DJ tarantolati, i piloti, emergendo dagli abissi di maestosi palchi allestiti per l'occasione, venivano presentati alla folla tra luci e grida festanti riprodotte artificialmente tramite astuti effetti sonori. Tre giorni dopo, poco prima dell'inizio della gara, Bruce Baffer, il ring announcer più famoso della UFC, gonfiava il collo strepitando i loro nomi; Max Verstappen, incontrastato dominatore della stagione, veniva annunciato in pompa magna con l'inutile epiteto di leone olandese. Ridondanze che hanno finito con l'irritare, e non poco, lo stesso Verstappen che non ha avuto particolari problemi nel definirsi un clown catapultato in una farsa di cui avrebbe fatto volentieri a meno.
Dodici mesi più tardi, il campione del mondo è tornato nel Nevada con la possibilità di conquistare nuovamente il titolo piloti, ma con preoccupazioni e aspettative totalmente diverse, dovute soprattutto alla conformazione della pista. Las Vegas, infatti, è un circuito atipico, con una tracciatura urbana, ma con l'aerodinamica simile, per certi versi, a quella di Monza. E proprio a Monza la crisi che nella seconda parte di stagione ha investito la Red Bull aveva assunto le sue tinte più fosche.
Il weekend, di per sé, non si è discostato dalle attese e la Red Bull ha palesato le solite difficoltà che nel corso della stagione l'hanno tormentata sui circuiti a basso carico aerodinamico. Difficoltà legate anche alla scelta di non realizzare un'ala posteriore specifica per questo genere di tracciati, preferendo investire le risorse su altre componenti della vettura e apportando sviluppi che non si sono mai rivelati davvero solidi.
Nonostante il lavoro dei meccanici, che hanno tagliato e cesellato l'alettone come esperti artigiani per provare ad adattarlo alle caratteristiche della pista, fin dalle prove del venerdì, Verstappen ha sollevato grossi dubbi sul proprio passo gara e ha lamentato una scarsa velocità di punta nei lunghi rettilinei, inferiore non solo a quella degli altri top- team, ma persino a quella della Visa Cash App, la scuderia satellite della famiglia Red Bull. Nonostante le criticità della vettura, però, l'olandese è riuscito a limitare i danni in qualifica, riuscendo a partire dalla terza fila, addirittura davanti al suo rivale e diretto inseguitore Lando Norris. Poi la gara con le sue condizioni climatiche al limite, difficili da interpretare, gli ha regalato un primo stint oltre le più rosee aspettative: mentre le due Ferrari sono andate in crisi di gomme, l'olandese non ha accusato problemi di graining ed è riuscito a issarsi fino al secondo posto, mettendo tra sé e Norris un divario sempre più ampio e cullando per qualche giro delle ambizioni di podio.
Man mano che la pista si è gommata e le vetture si sono scaricate, però, Verstappen non ha potuto contenere la rimonta di Hamilton e nell'ultimo stint con le gomme dure si è lasciato sopravanzare dalle due Ferrari, senza provare a imbastire una difesa robusta, evitando di correre inutili rischi. Una condotta di gara priva di particolari acuti, ma guardinga, che gli è valsa il quinto posto, davanti a Norris. Tanto è bastato per aggiudicarsi il suo quarto titolo mondiale consecutivo.
In un certo senso, Max Verstappen è diventato campione del mondo nella maniera più normale. Un epilogo che in apparenza può sembrare stonato se con la mente si torna all'incredibile ultimo giro di Abu Dhabi o alle ultime due stagioni in cui l'olandese ha tiranneggiato. Forse, a Las Vegas, è stata però la conclusione più logica. La città che si inventa specchi d'acqua artificiali inseguendo la bellezza del lago di Como o che cerca di imitare la grandeur parigina con una copia della Tour Eiffel ha saputo mettere in piedi in piedi un nuovo simulacro: una pallida e ingannevole copia di quella che è stata realmente la gara simbolo del campionato, quella che ha veramente consegnato di fatto il titolo mondiale a Verstappen.
PRIMA DELLA PIOGGIA
Sul circuito di Interlagos è da poco scoccato il trentaduesimo giro. La cappa di nubi che fino a qualche istante prima ristagnava sui grattacieli e sulle smunte palazzine della periferia di San Paolo è planata minacciosamente a mezz'aria. Una strana oscurità tropicale ha preso possesso del tracciato. La nuova asfaltatura, una volta di più, è stata sopraffatta da un impetuoso scroscio d'acqua. Mentre la pioggia imperversa, le vetture si stanno faticosamente allineando in coda alla Safety Car, sopraggiunta per ripristinare una parvenza di serenità in una corsa sempre più tumultuosa. All'improvviso, una Williams si arrota inopinatamente stampandosi sulle barriere. L'impatto è fragoroso, la reazione dei commissari di gara altrettanto: di fronte alla vettura ridotta a pezzi sventola la bandiera rossa, preludio all'interruzione della gara.
È una sospensione provvidenziale per Max Verstappen che, beneficiando di una norma del regolamento particolarmente generosa, può usufruire di un pit stop gratis e guadagnare un inesorabile vantaggio su Lando Norris, che invece ha deciso di fermarsi ai box qualche giro prima dell'incidente. Una volta ripartiti, Verstappen, che solamente qualche ora prima si ritrovava a scattare in fondo al gruppo a causa di una qualifica caotica e problematica, si sbarazza di Ocon e guadagna la prima posizione, portando a termine una rimonta storica, con tanto di sequenza finale di giri veloci. Già prima del podio, tra i commentatori, i paragoni con Senna si sprecano; Max, euforico come non lo si vedeva da tempo, corre verso i meccanici per raccogliere il loro abbraccio; Norris, suo malgrado, deve indossare gli scomodi abiti del parvenu.
Ironia della sorte, il protagonista di quello schianto - per fortuna senza conseguenze - è stato Franco Colapinto, la nuova hit dell'automobilismo mondiale. E Colapinto, anche se a prima vista può suonare strano, è in qualche modo imparentato con la parabola di Verstappen. Belloccio e sbarazzino, l'argentino non ha avuto un avvicinamento alla Formula 1 altrettanto sensuale: per giocarsi le sue carte ha scelto di sbarcare nell'entroterra di Rotterdam, alla corte di Sander Dorsman, il numero 1 della MP Motorsport.
Nascosta nell'Olanda più rurale, tra fattorie e campagne tutte identiche a se stesse, la MP Motorsport appare un mistero: i residenti sembrano persino ignorare la sua esistenza. La realtà, però, è ben diversa: la scuderia olandese è un'azienda con una tradizione importante, riconosciuta a livello internazionale, che da un decennio staziona in Formula 2, la categoria immediatamente precedente alla Formula 1. Una scuderia che ha avuto un ruolo non indifferente nella carriera di Verstappen.
Proprio con la MP Motorsport, Max ha avuto il suo primo, fugace approccio con una monoposto da corsa. Nel 2013, al termine della trionfale epopea nei kart, papà Jos entra in contatto con Dorsman e i due combinano una due giorni di test su uno strambo e remoto circuito del Galles meridionale, ben al riparo da occhi indiscreti. Insieme a loro, a raccogliere dati e a dirigere le operazioni, c'è Tony Shaw, un navigato ingegnere che nella sua lunga carriera ha lavorato anche con Kimi Raikkonen e Lewis Hamilton. I biografi di Verstappen - dai più ai meno autorizzati - raccontano quegli istanti con enfasi quasi mistica: Max, a bordo di un'auto di Formula Renault, strabilia sia con il bagnato che con l'asciutto. Dorsman intuisce nell'aria qualcosa di speciale. Shaw viene descritto in preda a una gioia isterica, come un uomo che non ha mai visto niente di simile, e che qualcosa se la sogna periodicamente ancora oggi.
È un aneddoto che, per come viene pomposamente raccontato, basterebbe da solo a suggellare il talento di un pilota. Ci ha pensato lo stesso Verstappen a liquidarlo: «Non sapevo cosa aspettarmi. C'erano pecore e uccelli dappertutto. Penso di averne investiti tanti, di quei pennuti». Poi l'understatement finale: «La macchina mi pareva molto rumorosa». E tanti saluti a ogni forma di lirismo. Di certo, non sarà l'ultima volta.
DIO CREO' IL MONDO, MA GLI OLANDESI CREARONO L'OLANDA
Nel marzo del 2016 il circuito di Montmelo ospita la classica sessione di test che precedono l'inizio del campionato. Max Verstappen ha ancora diciott'anni e ha da poco concluso il suo primo anno di apprendistato in Formula 1. D'un tratto, direttamente dalla sua residenza catalana, sopraggiunge nel paddock Johan Cruijff. La sua visita non è casuale: pur non avendo grande familiarità con l'automobilismo, vuole parlare a quattr'occhi con quello che tutti considerano un predestinato. Il responso di Cruijff è perentorio: «Max è un ragazzo che non ha paura di avere diciott'anni». I due parlottano, si intendono, concordano sull'importanza nello sport di elaborare e processare informazioni alla velocità della luce; in altre parole, di anticipare il futuro. La morte di Cruijff, avvenuta solamente tre settimane dopo, non fa altro che enfatizzare la simbologia di quell'incontro che con il passare del tempo, agli occhi del pubblico, acquista sempre più le sembianze di un passaggio di consegne.
Del resto, nei Paesi Bassi, Cruijff è tuttora un imprescindibile punto di riferimento. Un vecchio articolo di una rivista calcistica olandese lo ha incoronato come il modello e il simbolo più importante degli anni Sessanta nonché “il primo giocatore a capire di essere un artista ma anche il primo che volle collettivizzare l'arte dello sport ”. Un ribelle in grado di scombinare l'ordine precostituito anche più dei giovani Provos, che con le loro stralunate proteste agitavano, più o meno contemporaneamente, le vie di Amsterdam.
In questo, Verstappen non è così distante da Cruijff; la sua avversione nei confronti dell'eccessiva spettacolarizzazione della Formula 1 è un fatto noto; schietto e diretto nei rapporti con la stampa, non perde occasione per mettere in ridicolo l'ipocrisia della FIA o le trovate di Liberty Media. Recentemente, a seguito della decisione, proprio di Liberty Media, di organizzare a Londra una presentazione in grande stile delle future livree dei team, non ha esitato a esternare la sua insofferenza: «Spero di essere malato quella settimana», ha detto in maniera lapidaria. Di contro, non lo si può certo considerare uno sprovveduto né un sabotatore di se stesso: fin da ragazzino ha imparato a guardare il successo non come un'opzione ma come una categoria morale e, più di una volta, in carriera ha saputo beneficiare di trattamenti di favore proprio da parte della stessa federazione.
Probabilmente non è questo l'unico parallelismo che lega Verstappen a Cruijff, ma non è il semplice accostamento tra i due il nocciolo della questione. Un'anima comune sembra informare tutti i grandi totem dello sport olandese. Per scolpirne il ritratto non si può prescindere dall'intera cultura del loro Paese. David Wimmer è stato senza dubbio uno dei primi a comprenderlo. Nel suo splendido Brilliant Orange, quella che in apparenza ha i tratti di una semplice retrospettiva sull'Ajax di Cruijff, su Michels e il calcio totale, diviene un' incursione a tutto tondo nella pittura, nell'architettura e persino nell'urbanistica olandese: migliaia di cocci tenuti miracolosamente insieme. C'è un passaggio nella prefazione dell'autore, poi riportato anche in quarta di copertina, che pare riassumere le successive trecento pagine: “Adoravo la squadra olandese, sia per lo spettacolo che offriva sul campo che per l'aria saggia e sofisticata che aveva fuori. Davano l'impressione di battersi per qualche specie di idea culturale, anche se non avrei saputo dire quale. Tutti gli olandesi parevano così... come si dice? Olandesi”.
Una magnifica violenza sottende l'intero territorio dei Paesi Bassi: interi chilometri di terra strappati alle profondità del mare, paludi prosciugate, fiumi drenati. Una violenza sublimata, però, in un'apollinea successione di campi, e in una rigorosa rete di canali e fossi di drenaggio. Nemmeno Max Verstappen può sfuggire a questo paradigma. Fin dalle sue prime apparizioni in Formula 1 l'olandese ha portato un'analoga irruenza, quasi volesse obbedire esclusivamente a un proprio codice comportamentale; un impeto che, tuttavia, ha faticato – e tuttora fatica- a essere realmente compreso, perlomeno da parte del pubblico di massa, che ha finito solamente per polarizzare il dibattito. Da una parte chi ha provato ad assimilare Verstappen a una sorta di bad boy, un personaggio capace di mettersi le vesti dell'intrattenitore, un antidoto alla noia che – a loro giudizio - ammorbava la Formula 1. Il classico campionario di soprannomi, su tutti “Mad Max”, non ha fatto altro che alimentare questo mito. Dall'altra, un buon numero di appassionati ha iniziato a squadrarlo con diffidenza e a ritenere imperdonabili i suoi comportamenti: frettolosamente è stato bollato come sprezzante delle regole e dei colleghi, irrispettoso o semplicemente antipatico.
In realtà Verstappen è sempre sembrato un pilota estremamente lucido. Nel 2021 il duello con Hamilton ha raggiunto vette barbariche, ma una volta diventato campione del mondo, l'olandese non ha mai soffiato sulle polveri ancora incandescenti di quelle battaglie, come se quella rivalità si fosse improvvisamente estinta. Tre anni prima, a Baku, dopo una collisione che ha estromesso entrambi dalla gara, Ricciardo, per più di qualche istante, ha pensato di assalirlo fisicamente; eppure, anche al di fuori del paddock, tra i due la stima è reciproca. Lo stesso Leclerc, più di una volta, ha definito eccitanti i duelli con l'olandese proprio per la loro capacità di essere costantemente “border line”. In questo Verstappen è stato chirurgico: ha lasciato che i rancori maturassero e al contempo si dissolvessero in pista, senza compromettere veramente il rapporto con gli altri piloti. D'altra parte non ha ceduto alla tentazione di diventare un semplice funambolo a uso e consumo del pubblico. Pur accettando la responsabilità di essere una star di fama mondiale, non ha mai sentito il bisogno di ingraziarsi i fan. Tre anni fa, quando la Formula 1 è tornata nei Paesi Bassi, tra le dune di Zandvoort, una folla oceanica si è riversata nell'autodromo per acclamarlo come un re. «Ho visto come si è comportato Daniel (Ricciardo) nella sua gara di casa. Lì lui si è concesso molto ai media, qui noi non l'abbiamo fatto», ha detto. Anche davanti al tripudio dei suoi connazionali, non ha lasciato trasparire eccessive emozioni. E così ha fatto anche nelle successive edizioni.
Quest'anno le polemiche sono tornate a infittirsi a causa dei team radio poco garbati rivolti alla squadra durante il gran premio di Ungheria o le esasperate manovre difensive ai danni di Norris, spesso in palese violazione del regolamento. Dopo quattro mondiali vinti di fila, ci si aspetterebbe che i giudizi finalmente si uniformino, e invece ancora una volta si sono divisi in maniera schizofrenica. Non ha aiutato l'idea che Verstappen fosse ormai cambiato, diventando meno istintivo e più calcolatore.
Effettivamente l'impressione è che oggi non tenterebbe più alcuni azzardi del passato. Va detto, però, che anche nei momenti in apparenza più incoscienti che hanno contrassegnato l'inizio della sua carriera, Max non ha mai ostentato l'ingenua arroganza di chi vuole porsi al di sopra delle regole. Nelle annate in cui la superiorità della macchina è stata a tratti imbarazzante, ha gestito quel dominio alternando equilibrio e un naturale senso di ribellione alla prudenza del suo ingegnere di pista. Una volta persa quella supremazia, ha saputo diventare un punto di riferimento per un team messo in crisi anche da lotte intestine e, nel contempo, ha estremizzato il proprio istinto di sopravvivenza, normalizzandolo però come “parte del gioco” e senza mai realmente ingaggiare una guerra psicologica con Norris.
Per molti l'ultimo titolo mondiale è stato il più bello, perché vinto con una macchina che per tutta la seconda parte di stagione è stata la terza, se non la quarta forza in gara. Di sicuro è stato quello che ha definitivamente mostrato una verità che per anni è rimasta inspiegabilmente latente: in lui, da sempre, sembrano convivere diverse forme, tutte perfettamente funzionali, senza che nessuna possa prendere definitivamente il sopravvento. Max Verstappen, da questo punto di vista, sembra rimasto sempre rimasto uguale a sé stesso.
VISIONE D'INSIEME
Non si può parlare di Verstappen senza nominare il padre Jos – anche lui un tempo pilota di Formula 1. Una sinergia che inevitabilmente parte da lontano: a quattro anni Max ottiene il suo primo kart, una versione giocattolo con un piccolo motorino che al massimo raggiunge i 50 chilometri orari. Da un certo punto di vista non potrebbe essere altrimenti, visto che anche la madre è una grande campionessa di kart. Col tempo, però, la sua passione va oltre l'imitazione dei genitori: in un magazzino Verstappen si diverte a inseguire i coetanei a bordo del suo kart e a scuola non si stanca mai di disegnare i profili dei circuiti che scandiscono la carriera del padre. Ci sarebbe anche il calcio a intrigarlo, ma è un fuoco di paglia.
Dal momento in cui sceglie l'automobilismo, Jos si lega indissolubilmente alla sua vita: a sette anni Max corre la sua prima gara nei kart e il padre lo accompagna regolarmente alle corse. A bordo di un camper macinano migliaia di chilometri in giro per l'Europa. Jos ha una devozione quasi certosina per quello che, a tutti gli effetti, è un impiego a tempo pieno: personalmente si occupa della messa a punto dei kart e praticamente da zero riassembla i mezzi su cui gareggerà il figlio. Tutto ciò che ha guadagnato in Formula 1 lo rinveste nella carriera di Max. Visto dall'esterno, è un rapporto fortemente invasivo e condizionante per la vita di un ragazzino. Di certo, non è l'unico nella storia dello sport: la letteratura è piena di atleti che, loro malgrado, sono diventati una semplice proiezione delle ambizioni genitoriali. E il fatto che alcuni di essi siano stati resi più forti da un approccio quasi militaresco non fa di loro necessariamente degli esempi da seguire.
Nonostante il piccolo Max non avesse troppi grilli per la testa, Jos è stato un padre rigido, a tratti glaciale, e tra i due non sono mancati momenti controversi. A Sarno, per il Mondiale di kart, Max perde la finale a causa di una sequela di errori piuttosto banali; il padre va su tutte le furie, imbestialito carica il kart sul furgone e, di ritorno, abbandona il figlio alla prima stazione di servizio. Una decina di minuti più tardi lo va a riprendere, ma per una settimana non gli rivolge la parola.
Qualche anno fa, in un podcast allestito dalla stessa Red Bull, i due hanno avuto modo di ritornare su quell'episodio: di fronte alle domande dell'intervistatore, Jos è sembrato sereno e non ha lasciato trapelare il minimo segno di pentimento. «Volevo che capisse che prima di fare qualsiasi cosa in pista avrebbe dovuto pensarci su», ha pacificamente sentenziato. Max sostanzialmente si è dimostrato dello stesso avviso: «È stata una lezione dura. Ma penso che alla fine sia stata un'ottima lezione». Tra i due, insomma, sembra oggi esserci la stessa visione sul passato, almeno da fuori. Tutto ha sempre fatto di un piano, che Jos ha più volte definito il suo progetto di vita, e che Max alla fine ha interiorizzato.
Per sua stessa ammissione, Jos ha sempre trovato tutto questo tempo speso con e per il figlio molto più divertente di tutta la sua carriera. E lo si è visto anche negli ultimi tempi, quando, nonostante la sua presenza si sia diradata, non ha perso l'occasione per intromettersi nelle vicende Red Bull.
Questo però non ha impedito a Verstappen di sviluppare una forte indipendenza di pensiero. Per averne una conferma è sufficiente consultare il parere di Frits van Amersfoort, un'autentica istituzione dell'automobilismo olandese. Con la sua scuderia van Amersfoort ha visto Jos muovere i suoi primi passi nella Formula Opel Lotus e nel 2014 ha dato nuova linfa alla dinastia Verstappen facendo esordire Max in Formula 3, solamente un anno prima del suo esordio nella categoria maggiore. «C'era una specie di ordine naturale nel metodo di lavoro», ha ricordato van Amersfoort «Jos analizzava il circuito. Max ascoltava, ogni tanto dava la sua opinione, ma la conversazione si svolgeva principalmente tra Jos e l'ingegnere. Max applicava le loro scoperte in pista». Nonostante un rapporto ancora di subordinazione, van Amersfoort è riuscito comunque a tracciare una linea di demarcazione tra padre e figlio, soprattutto nel rapporto con la sconfitta. Secondo Van Amersfoort «nell'automobilismo devi saper perdere e in questo Max è più bravo di Jos».
Forse è questo dettaglio ad aver fatto la differenza nelle carriere dei due. Max abbatte i record, ma non li insegue in maniera spasmodica; in lui non c'è mai stata una conclamata volontà di cannibalizzare il circus: la Formula 1 è un divertimento, che però comporta anche molte rinunce e Verstappen non intende sfinirsi in quest'attività fino all'età avanzata. In questo senso, più di una volta non ha escluso l'ipotesi di ritirarsi nel 2028 al termine del suo contratto con Red Bull. Vittima di un'educazione ferrea, Verstappen non l'ha mai voluta dipingerla con tinte melodrammatiche. Oggi, come sostiene Van Amersfoort, forse si può affermare che sia Jos a imparare da Max.
LA FINE DEL MONDO NON SARA' UN PROBLEMA
Al di sotto di tutto questo, delle risposte sprezzanti e della vita col padre, Verstappen sembra ancora rivelare un'anima infantile. Nel tempo libero il pilota Red Bull ama i videogiochi ed è parte di un team con cui partecipa a numerose gare virtuali di endurance, anche nei weekend in cui è impegnato in Formula 1. È un passatempo, a detta di Verstappen, molto allenante che gli consente di tenere alta la concentrazione e di non lasciar intorpidire i riflessi. È il riflesso di quell'anima che il regista olandese Nick Hoedeman, che ha curato alcuni documentari particolarmente intimi su Verstappen, lo fa assomigliare ancora a un bambino di cinque anni che vuole solo stare in una macchina da corsa. Lo si è visto anche ieri, quando con lo sguardo ammirato e divertito ha contemplato gli interni luccicanti della Rolls-Royce che lo ha condotto all'intervista di rito.
Su YouTube c'è una clip che è particolarmente significativa, in questo senso. Nel video lo si vede impegnato al simulatore, collegato online con alcuni amici: d'un tratto uno di loro fa partire in sottofondo le note dell'inno olandese, una litania che Max, sul gradino più alto del podio, ha dovuto ascoltare innumerevoli volte. La sua reazione è irriverente: con la schiena si lascia affondare nella sua postazione e, quasi disperato, implora di fermare quella musica. Quest'ultima si interrompe solo per un istante per poi riprendere beffarda qualche secondo più tardi: a quel punto Verstappen si arrende e con rassegnazione accetta il suo destino fischiettando quella melodia. Davanti ai videogiochi, dopo tutto, può scherzare con i suoi amici più stretti; su Call of Duty può divertirsi a creare il suo personaggio virtuale; e può anche permettersi di dire parolacce senza che nessuno, con una buona dose di perbenismo, lo spedisca ai lavori socialmente utili, come accaduto dopo il gran premio di Singapore.
La verità è che, nonostante una personalità spesso sopra le righe, Verstappen è una figura difficile da inquadrare da un punto di vista mediatico. In altre parole: non ha grandi contenuti da offrire. Verstappen, al contrario di Hamilton, non è coinvolto in battaglie sociali. In un mondo glamour come quello della Fomula 1 non è noto per amicizie con grandi celebrità o per i suoi outfit all'ultima moda. Più di qualcuno ha provato a scandagliare il backstage, ma, per la verità, non ha trovato granché: una predilezione per la cucina italiana, con una bottiglia di limoncello sempre in frigo; l'avversione per le pulizie domestiche e alcuni malmostosi ricordi del periodo scolastico; una passione per Green Grass of Home di Tom Jones che però non è legata a dei gusti musicali particolarmente ricercati quanto a un tenero ricordo d'infanzia. Nulla, insomma, che riesca a gettare una luce quantomeno eccentrica sulla sua figura; e forse è per questo che ha rifiutato qualsiasi tipo di distorsione cinematografica della sua vita. Basti pensare alla sua ostilità, mai veramente celata, per la serie tv Drive to Survive, che con le sue sei stagioni ha saputo diventare un cult raccontando il dietro le quinte di ciascuna delle ultime edizioni del mondiale piloti. «Sono un ragazzo semplice e voglio solo che ci siano fatti, non esagerazioni. Capisco ovviamente che deve essere così per ogni serie o documentario ma non è il mio genere». Poi con una buona dose di sarcasmo ha aggiunto: «Non sono molto interessato a sentire come hanno vissuto la stagione i miei avversari. Conosco la mia versione dei fatti e per me è abbastanza».
Tutti i tentativi di ricostruire la personalità di Verstappen sono naufragati, spesso con risultati grotteschi. Tre anni fa, il canale YouTube Vice Nederland ha caricato una breve chiacchierata con lui. La struttura del video, ambientato in un contesto decisamente sobrio, è altrettanto semplice: le domande appaiono di volta in volta sullo schermo e Max seduto su una poltroncina risponde direttamente in camera. L'intervista si apre con una domanda molto generica: “Cosa ti piace di più di internet?”. La risposta non lascia spazio a grandi interpretazioni: “A dire il vero, niente”. Poi, con uno scarto a posteriori piuttosto esilarante, sopraggiunge sullo schermo un interrogativo assurdo: “Dove ti nasconderesti se arrivasse l'Apocalisse?”; non esattamente il genere di domanda che vorresti fare Verstappen. Max fa una smorfia dubbiosa ma non si scompone: “Mi rifugerei semplicemente a casa”; poi, in maniera ovvia, aggiunge: “Quando succede una cosa del genere sei più preoccupato per la famiglia”. Nel mentre, le grafiche e la musica di sottofondo cercano, senza riuscirci, di creare una sorta di atmosfera sinistra. All'improvviso si palesa una voce fuori campo che cala sul piatto il carico da novanta: “Immagina ci sia un'invasione di zombie in questo seminterrato: dove andresti prima?”. Verstappen, non si capisce il motivo, annuisce convinto, forse per compiacere l'intervistatrice o per elaborare uno strano progetto su come salvarsi dagli zombie; alla fine non si smentisce e risponde perfettamente nel suo stile: “Per prima cosa spezzo gli zombie a metà e poi vediamo cosa fare; e comunque, a dire il vero, non mi piacciono i film horror”. Che non è esattamente ciò che gli era stato chiesto. L'intervista continuerà con altre domande dall'esito piuttosto scontato.
È un video che diventa sempre più comico, mano a mano che le interviste diventano più assurde per estorcere anche la minima sfumatura di eccentrità, di fronte alle quali Verstappen risponde con sempre maggiore razionalità. Per certi versi, fa sorridere come, nel bene o nel male, non riesca a smarcarsi dalla sua lucidità esasperata. È un aspetto che forse ha fatto la sua fortuna in pista, e che fuori si scontra con la nostra necessità di incasellare la realtà in un racconto. Personalmente mi fa pensare a un vecchio adagio olandese: è il diavolo ad aver inventato le domande.