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Megan Rapinoe ha dovuto vincere per cambiare le cose
28 dic 2020
La sua storia ci dimostra come le atlete devono avere successo per avere una voce.
(articolo)
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In questi anni si sta parlando con sempre più urgenza di sport femminile, ma si continua a farlo attraverso le principali figure: Federica Pellegrini, Serena Williams, Cecilia Zandalasini – la persona, o per meglio dire il personaggio, è il messaggio. Le poche atlete che riescono ad emergere e a crearsi uno spazio mediatico sono soprattutto donne che hanno raggiunto risultati di prim’ordine e che spesso possono vantare anche una vita para-sportiva eccezionale. Sono principalmente loro che fanno notizia, mentre le altre atlete sono ancora raccontate poco e con una chiave di lettura spesso sessista e paternalista, e che poco ha a che fare con le loro capacità sportive.

Un discorso che finisce per riguardare anche Megan Rapinoe, forse oggi la calciatrice più conosciuta e vincente del pianeta. La centrocampista della nazionale americana di calcio ha vinto il Pallone d’oro nel 2019, due Mondiali (a cui va aggiunto un secondo posto), un’Olimpiade e anche due ori nella CONCACAF, il torneo continentale che raccoglie le squadre del Nord e del Sud America. Una sola stagione calcistica in Europa, nel 2012, fra le file di quell’Olympique Lion che – dopo cinque Champions League consecutive (l’ultima nella stagione scorsa) e quindici campionati, finalmente in Italia comincia ad essere inserita tre le squadre di calcio più vincenti e dominanti di questi anni.

Nonostante i successi sportivi straordinari, Megan Rapinoe viene più spesso menzionata per aspetti legati alla sua persona e alle sue scelte fuori dal campo: i capelli rosa, la lotta per l’equal pay – il santo Graal del calcio femminile – e per la protesta politica del 2016 che l’ha portata ad inginocchiarsi durante l’inno americano, pochi giorni dopo Colin Kaepernick. Se poi Megan Rapinoe è una calciatrice destra o mancina, se è dotata di un buon tiro o di un dribbling incredibile, è diventato meno rilevante nel discorso comune; le sue caratteriste tecniche sono sempre sbrigate come informazioni marginali, per pochi “veri” appassionati.

Ma come è possibile comprendere a pieno una atleta senza sapere quali sono le sue peculiarità?

Nella sua autobiografia «One Life», pubblicata agli inizi di Novembre e non ancora tradotta in italiano, Megan Rapinoe collega implicitamente il modo in cui si gioca e quello in cui si vive, un aspetto che si dà per scontato quando si parla di calciatori o atleti maschi in generale. Rapinoe racconta di aver imparato prima di tutto come poter essere un vero e proprio un punto di riferimento per le compagne, ad essere la leader con un istinto che la fa ritrovare nel posto giusto al momento giusto all’interno del campo. Le sue caratteristiche tecniche rispecchiano quelle umane, all’insegna di una basicità che la allontana dall’atteggiamento individualistico in campo tipico di altri atleti di prima fascia: «So usare entrambi i piedi, ho una buona visione del campo e mi piace giocare in velocità. Non faccio un dribbling dietro l’altro. Non è il mio modo di essere, e non sono brava in questo».

Una storia americana

Megan Rapinoe proviene da una numerosa famiglia originaria di Redding, California, da genitori che fanno parte della working class e che hanno sei figli. Da bambina gioca anche a basket, ma è il calcio lo sport a cui, per motivi affettivi, si lega maggiormente. Giocare a pallone con l’amatissimo fratello Brian infatti sembra essere l’unico modo per comunicare con lui. Negli anni dell’adolescenza il ragazzo è estraneo dalle dinamiche di felicità e perfezione che la famiglia Rapinoe prova a portare avanti tra un turno di lavoro e l’altro. Trascorre la maggior parte del suo tempo fuori di casa e presto si scoprirà che dietro lo stato assente in cui versa per la maggior parte del tempo e la scomparsa costante di cucchiaini dai cassetti di casa si nasconde una seria dipendenza da eroina che lo porterà persino in galera.

L’altro legame familiare è con la sorella gemella Rachel, anche lei calciatrice e compagna nella squadra giovanile di Redding. Ovviamente il team è interamente maschile e le sorelle Rapinoe sono l’unica eccezione.

Rapinoe racconta di un ambiente familiare bucolico in cui i ragazzi godono di una certa libertà – seppur strettamente monitorata dai genitori – e anche quando Megan e Rachel escono di casa per andare al college lo fanno insieme: prima di prendere una decisione si assicurano di ottenere la borsa di studio nello stessa università, che sarà Portland, e di giocare nella stessa squadra di calcio.

Darren Abate/Getty Images

Per certi aspetti Brian e Rachel sono entrambi egualmente fondanti per l’identità di Megan, che sin da ragazzina ha le idee chiare: vuole giocare a calcio per lavoro e vuole tagliarsi i capelli cortissimi. E se il primo punto lo condivide con la sorella Rachel, per il secondo aspetto Megan si ispira a Brian. Si veste come lui, si fa tagliare i capelli come lui. Con questi presupposti però, almeno inizialmente, non sembra facile capire quali siano le inclinazioni sue e soltanto sue.

La separazione dalla famiglia avviene durante il primo anno di college. Mentre Rachel inizia regolarmente il semestre di studio e gli allenamenti con la squadra di calcio, Megan è convocata dalla Nazionale Under 19. È il 2004, ha 19 anni e insieme ai più giovani talenti del calcio americano trascorrerà un intero mese in Thailandia in occasione di un torneo. Questo è il momento in cui la simbiosi con la sorella gemella si interrompe e le loro vite prendono due direzioni differenti, anche per quanto riguarda la visione del futuro: «Per la prima volta io e Rachel avremmo giocato separate, in parti diverse del mondo e in squadre diverse. Era una sensazione strana. Eravamo state fianco a fianco per così tanti anni, e ora una di noi stava superando l’altra».

Alla fine del torneo Megan raggiunge Rachel a Portland per l’inizio del semestre invernale, ma si accorge subito che quel mese in Thailandia con la nazionale è stata una spaccatura: «Rachel stava iniziando ad ampliare i suoi interessi. Le piaceva ancora giocare, ma si stava avvicinando anche alla medicina e al business. Io al contrario ero ancora fissata con il calcio». Fra le altre cose, durante uno dei primi allenamenti di quel 2005 Megan Rapinoe ha un’epifania, o almeno così la racconta lei, e si rende conto di essersi innamorata di una sua compagna di squadra. La prima persona a cui decide di confidarlo è proprio sua sorella Rachel, che a quella dichiarazione non sembra affatto sorpresa ma anzi dichiara di aver recentemente scoperto lei stessa di essere omosessuale. Quell’anno la squadra di Portland vince il campionato NCAA, a livello universitario, e per la prima volta la rete sportiva ESPN dà notizia dell’esistenza di una nuova stella del calcio americano femminile che porta il nome di Megan Rapinoe.

L’esordio in nazionale maggiore arriva nel 2006, in un’amichevole in preparazione dei mondiali del 2007. Gli USA battono l’Irlanda per 5-0 ma al suo ritorno a Portland Rapinoe si infortuna gravemente al ginocchio. Nel tentavo di recuperare in tempo per i Mondiali forza un ritorno prematuro in campo, con il risultato di infortunarsi gravemente di nuovo. Anche se Rapinoe freme per entrare a far parte del Gotha del calcio internazionale, non giocherà né quei Mondiali né le Olimpiadi di Pechino del 2008.

La svolta grazie ai Mondiali

I Mondiali di calcio femminile del 2011, giocati in Germania, sono i primi caratterizzati da un uso massiccio di Twitter. Per la Nazionale americana Twitter segna l’inizio di una vita social che sarà strumentale alla diffusione della loro fama fuori dai confini nazionali: sarà su queste fondamenta che le giocatrici baseranno la loro battaglia per l’equal pay, la retribuzione egualitaria per la nazionale maschile e quella femminile, che nel Mondiale successivo diventerà la lotta più importante a livello politico per le donne del calcio americano.

A quel Mondiale in Germania Megan Rapinoe è di fatto un’esordiente. I due brutti infortuni del 2006 l’hanno tenuta fuori dalle competizioni internazionali più importanti e l’allenatrice della squadra decide di farla partire dalla panchina. Durante la prima partita, contro la Corea, entra in campo negli ultimi minuti mettendo a referto una breve ed anonima prestazione. Ma nella seconda partita contro la Colombia segna quasi subito, raccogliendo un assist al centro dell’aria di rigore. Per festeggiare il suo gol, il primo ufficiale con la maglia della Nazionale, Rapinoe si catapulta verso la linea laterale con Lauren Cheney e Lori Lindsay e dopo aver raccolto un microfono televisivo intona Born in the USA.

Ai quarti di finale le americane incontrano le rivali storiche del Brasile: la partita è difficile, soprattutto perché sono abituate a gestire i novanta minuti sempre in vantaggio e invece stavolta si trovano ad inseguire. Al 121esimo minuto di gioco, alla fine del secondo tempo supplementare, le brasiliane conducono per 2-1. Rapinoe ricorda quegli ultimi minuti come una sequenza di stati d’animo confusi in cui il desiderio di vincere sembra sopperire al fatto che non c’è più tempo per recuperare il gol di svantaggio: nella sua autobiografia la centrocampista racconta questa scena come se anche lei la vedesse dagli spalti. Come se la Megan Rapinoe che sta per salvare quel mondiale non fosse lei ma un’altra giocatrice.

Nell’ultima azione della partita le brasiliane sono in attacco, anche se non con molta convinzione. La palla viene recuperata in difesa da Ali Krieger che la consegna a Carli Lloyd. Lloyd sale verso il centrocampo e la passa velocemente a Rapinoe sulla fascia sinistra, la centrocampista avanza con un tocco solo, il secondo è già il cross di sinistro dentro l’area, un cross che taglia tutta la metà campo e arriva in area di rigore, con precisone chirurgica piove sulla testa di Abby Wambach che deve solo sfiorare la palla. Le ragazze esultano, si raggruppano e poi chiudono quella partita vincendo 5-3 la sfida ai rigori.

Si diceva del primo Mondiale con Twitter e con la diffusione delle notizie e dei commenti in tempo reale: la squadra americana perderà la finale contro il Giappone (per un 3-2 ai rigori), ma al ritorno negli Usa la loro fama è in crescita e le calciatrici iniziano a pensare seriamente che è arrivato il momento di patteggiare un pagamento egualitario, tanto più che a Londra 2012 gli uomini non si sono nemmeno qualificati. La squadra, compatta dentro il campo così come fuori, inizia una negoziazione tramite avvocati, soprattutto perché, dichiarerà Rapinoe stessa in “One Life”, quelle prime fasi erano caratterizzate da una disorganizzazione pressoché totale che durerà fino alla conclusione dell’edizione successiva dei Mondiali del 2015.

Dato che quell’edizione dei Mondiali si sarebbe giocata in Canada, la federazione americana aveva stabilito un premio di 15 milioni di dollari. Una cifra in assoluto cospicua ma che in relazione al premio di 40 milioni di dollari messo in palio per la squadra maschile, in occasione dei Mondiali russi del 2018, non sembrava altro che una manciata di spiccioli. «Molte di noi si erano rese conto che vincere la Coppa del Mondo in Canada nel 2015 avrebbe reso più difficile alla federazione negarci una paga come quella degli uomini, che fra l’altro non avevano mai vinto un Mondiale (la posizione più alta mai raggiunta è il terzo posto del 1930, ndr). Per venire considerate alla pari degli uomini non solo dovevamo essere la squadra migliore al mondo, ma dovevamo esserlo ancora ed ancora».

E quindi vincere nel 2015 è l’unico risultato possibile, una missione che le americane portano a compimento avendo l’occasione di vendicarsi con il Giappone, vincendo la finale con un chiaro 5-2 e la tripletta dell’altra leggenda statunitense, Carli Lloyd. «Ogni risultato politico che abbiamo raggiunto come squadra si può far risalire a quello che è successo dopo la finale di quel Mondiale. Prima di giocare contro il Giappone eravamo disorganizzate e anche se avevamo eletto delle giocatrici-rappresentanti per negoziare con la Lega non avevamo un’idea chiara di come raggiungere ciò che volevamo.»

Eppure la situazione che ha atteso la squadra al rientro dal Canada è stata la solita: contratti sconvenienti nei club, pagamenti bassi e nessuna struttura adibita ad ospitare un pubblico numeroso per le partite giocate in casa dalla Nazionale. A ciò si è aggiunto il fatto che la maggior parte delle strutture messe a disposizione del calcio femminile erano dotate di un campo in erba sintetica – sulla lunga durata dannoso per il corpo delle atlete. «Dopo la finale, quando cioè ci siamo ritrovate nell’assurda posizione di essere le più forti del mondo e essere trattate comunque come giocatrici amatoriali, abbiamo deciso di smettere di prendere le cose alla leggera. Non potevamo andare avanti in questo circolo di vittorie senza che le nostre condizioni avessero alcun miglioramento. Questa volta, non importava a quali costi, avevamo intenzione di cambiare le cose».

JEWEL SAMAD/AFP via Getty Images

La squadra allora non solo cambia avvocati ma decide di scendere in campo personalmente per difendere i propri diritti e negoziare i contratti, una battaglia che passa non più solo per le stanze di un tribunale ma prevede un uso moderno ed intelligente della televisione e dei social media. Twitter e Instagram diventano una cassa di risonanza enorme, grazie soprattutto alla fama che alcune giocatrici come Rapinoe stessa e l’attaccante Alex Morgan hanno raggiunto durante quei mondiali del 2015.

Unirsi alle lotte

In “One Life” Rapinoe afferma più volte e con diverse perifrasi di avere un carattere infiammabile. Il 2016, poi, è un anno peculiare per gli Stati Uniti, un momento di disordine sociale, psichico e politico che sfocerà nelle elezioni di Donald Trump. Gli omicidi e i maltrattamenti subiti dalla popolazione afro-americana da parte della polizia sono fuori controllo, i nomi degli uomini e delle donne uccisi senza nessuna ragione si sommano di settimana in settimana senza che nessuno prenda una posizione pubblica di disaccordo. In segno di protesta, il 26 agosto (alla fine, quindi, del secondo mandato Obama) il quarterback dei San Francisco 49ers Colin Kaepernick si inginocchia in segno di protesta durante l’inno americano. Rapinoe si unisce alla protesta inginocchiandosi a sua volta, prima a Chicago e subito dopo nel Maryland, in occasione di due partite di campionato disputate con la maglia delle Seattle Reign (il club americano in cui gioca dal 2013).

Almeno inizialmente Rapinoe non prende in considerazione le eventuali conseguenze, soprattutto perché, come ricorda, «c’erano molti meno atleti di colore americani nel calcio che nel basket, e quando mi sono unita alla protesta di Colin sapevo che il mio essere bianca e il fatto che il mio sport fosse giocato da bianchi mi avrebbe garantito una specie di immunità. E poi io ero una donna – rumorosa, certo, ma piccola, pallida e agli occhi degli uomini bianchi arrabbiati relativamente innocua. Anche i capelli in qualche modo hanno giocato un ruolo; i capelli afro di Colin erano molto più voluminosi dei miei, e insieme a tutto il resto, lui occupava molto più spazio. Per i suoi detrattori, Colin era l’incarnazione dello stereotipo razzista dell’uomo di colore aggressivo».

Ma forse proprio per questo, insoddisfatta della potenza del suo gesto, Rapinoe lo replica a livello internazionale poche settimane dopo, in occasione di una amichevole fra Usa e Thailandia in cui si inginocchia di nuovo durante l’inno. «Il punto era usare un simbolo americano per richiamare l’America», dichiara poco dopo. E in questo caso le conseguenze non tardano ad arrivare. Il gesto le costerà l’esclusione temporanea dalla squadra americana e porterà la Lega ad indire un divieto ufficiale di inginocchiarsi durante l’inno prima delle partite. «Quando mi sono inginocchiata durante l’inno nel 2016 non avevo in mente nessuno scopo. Era un riflesso nato dalla solidarietà con Colin e le mie esperienze come donna omosessuale in un mondo dominato da uomini etero. Volevo allargare la comunicazione sull’ingiustizia razziale e raggiungere un altro pubblico oltre alle mie compagne. Speravo che avrebbe incoraggiato altri all’azione; e nel caso in cui non ci fossi riuscita, avrei comunque continuato a farlo».

C’è da dire che questo modo aggressivo ed energico di gestire la propria presenza mediatica è davvero inedito per una sportiva. Quando Rapinoe parla di gender equality o si schiera apertamente contro il presidente Trump il suo flusso dialettico non ha nessun filtro: non si scusa mai e anzi sembra che provi un certo piacere a dire cose scomode, a mettere al centro della stanza e indicare a tutti un elefante che si stanno sforzando di non guardare. Ad esempio quando risponde: «Non andrò alla cazzo di Casa Bianca» al giornalista di Eight by Eight che le domanda se in caso di vittoria dei mondiali imminenti la giocatrice sarebbe andata ad omaggiare il presidente a Washington insieme alle sue compagne di squadra. Una dichiarazione in realtà datata al gennaio del 2019 e diffusa su Twitter deliberatamente molti mesi dopo, nell’estate del 2019, durante le fasi iniziali del Mondiale che si è giocato in Francia e che gli USA avrebbero vinto.

Nel giro di un solo giorno il video viene visualizzato da circa 12,5 milioni di persone e insieme ad una parte di pubblico che si esalta perché finalmente qualcuno ha avuto il coraggio di dire apertamente cosa pensa del presidente americano, ce n’è un’altra che critica aspramente Megan Rapinoe, con una gogna di commenti aggressivi sui social. Persino il presidente sembra non aver di meglio da fare che rispondere con una serie di tweet che in sintesi dichiarano che «Megan, prima di parlare, dovrebbe VINCERE».

Ma né Rapinoe né la squadra mostrano di avere il benché minimo timore reverenziale nei confronti del presidente e piuttosto che perdersi in un conflitto mediatico che le avrebbe distolte dalla concentrazione per il Mondiale, le ragazze rispondono come sanno: giocando il calcio migliore del mondo. La partita successiva, contro la Francia, si trasforma in un simbolo: «Stavamo giocando per la diversità, la democrazia, l’inclusione, per il diritto ad essere diverse e comunque rispettate».

Ma a Rapinoe – che a questo punto ha 34 anni – è chiaro che le partite si vincono con i gol e non con i simboli. E così ne fa subito due. Durante quei quarti di finale, al quinto minuto, porta in vantaggio gli USA con una punizione da posizione defilata: la palla entra nella mischia dentro l’area ma non la tocca nessuno e il gol è tutto suo. Così come il secondo, un tiro di destro potente da sinistra su un cross di Tobin Heath. La doppietta di Rapinoe chiude la partita e, insieme ad essa, la bocca del presidente.

Ma c’è sempre la questione dell’equal pay che continua a muovere le calciatrici dal 2007. Dodici anni dopo, a dispetto dei titoli e della fama sempre crescente della squadra femminile, le cose non sono ancora cambiate. «Le atlete femmine sono pagate in relazione agli obiettivi che hanno già raggiunto, mentre gli uomini sono pagati per ciò che potrebbero fare in futuro. Noi dobbiamo dimostrare quanto valiamo, loro invece devono solo fare promesse», sintetizza con efficacia Rapinoe. Bisogna continuare a vincere.

Così, dopo essersi bevute le inglesi come una tazza di tè in semifinale, le americane in finale incontrano l’Olanda. A dispetto di tutte le altre partite del Mondiale in cui erano andate a segno già nei primi minuti del match, qui la prima occasione da gol arriva al 61 minuto: Stefanie Van der Gragt fa un intervento falloso su Alex Morgan dentro l’area e Megan Rapinoe trasforma il rigore calciando centrale con la portiera della squadra olandese non si muove nemmeno e resta a guardare la palla che va in rete. Otto minuti dopo seguirà il raddoppio di Sam Lavelle a chiudere il match.

«Per un atleta il requisito per avere una visione politica è essere vincente», scrive Rapinoe ad un certo punto della sua biografia, come se fosse certa che l’oro delle sue medaglie si può davvero fondere e trasformarsi in altro: in un messaggio, in una moneta da spendere per la lotta per i diritti civili. Come se tutta la sua carriera calcistica sia stata un trampolino per arrivare a occuparsi di questi temi, e il calcio in questo caso è anche un mezzo grazie al quale si possono raggiungere fini più importanti.

Dopo Rapinoe le cose sono cambiate? Le donne del calcio americano oggi vengono pagate come gli uomini? La risposta è no. Ma quello che Megan Rapinoe ha inaugurato è un moto inerziale: ha smosso qualcosa, ha creato attenzione su aspetti che prima di lei nel mondo sportivo femminile non erano stati trattati con lo stesso agonismo, con la stessa smania di vincere. Il processo per ottenere l’equal pay è ancora in atto, l’ultimo rifiuto risale a maggio del 2020. È del 1 dicembre 2020 un nuovo accordo sulle condizioni di lavoro delle calciatrici secondo cui la Lega calcistica americana si impegna con effetto immediato a rimuovere le differenze fra due squadre maschile/femminile sul piano dell’organizzazione dello staff, dei viaggi, dei soggiorni in albergo durante le trasferte e dei luoghi in cui si svolgono gli eventi calcistici. Un passo in avanti, questo è certo, ma siamo ancora lontani da un accordo che riguarda il meritato pagamento equo fra uomini e donne. Sembra che la Lega americana non sia disposta a cedere su tutti i diritti con facilità ed in una volta sola.

Rapinoe e compagne del resto non hanno basato la loro lotta per il denaro solo su un diritto di eguaglianza fra uomo e donna, che di fatto è costituzionale e proprio per questo sarebbe stato abbastanza, ma hanno accompagnato ogni fase del processo con i gol, le medaglie e le coppe che sono sempre state apertamente richieste come contraccambio dalle istituzioni sportive. Attraverso il suo talento Megan Rapinoe è riuscita a portare le iniquità fra il calcio maschile e quello femminile nella quotidianità di chi si occupa di sport e di diritti. Nessuna prima di lei c’era riuscita. E se non avesse iniziato a fare pressione a maggio del 2020, dopo l'ennesimo rifiuto, la squadra nazionale maschile non si sarebbe mai fatta avanti in difesa delle colleghe donne come è invece avvenuto. E questa è un’altra conquista: adesso le squadre americane di calcio partecipano ad un fronte unito. Si è passati da una situazione di netto delineamento dei confini, di distinzione fra mondo sportivo maschile e femminile, ad una visione aperta in cui sembra possibile un ricongiungimento fra le parti.

Un’utopia in cui i diritti conquistati non sono validi, o importanti, prioritari, vitali, per l’una o per l’altra categoria, ma per lo sport in generale.

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