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Mourad Meghni ve lo siete immaginato
12 feb 2021
Ricordo della carriera malinconica del talento algerino.
(articolo)
21 min
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C’è una foto di Mourad Meghni a cui associo la sua immagine. Credo risalga al 2002 o al 2003, a giudicare dalla curva del colletto della maglia del Bologna. Meghni è da poco maggiorenne, perfettamente sbarbato, gli occhi stretti e profondi di Romain Duris. La sua bocca si piega in un sorriso leggero e ambiguo. È giovane, fresco, ha tutta la vita davanti, eppure c’è in lui qualcosa di già anziano, che lo fa sembrare un po’ fuori dal tempo. Forse la grana fotografica, che pare quella satura di quando si restituisce il colore a fotografie originariamente in bianco e nero; forse invece il taglio di capelli démodé, di uno che si siede dal barbiere senza dire niente, lo stesso servizio sin da quando era bambino.

Nelle foto di quegli anni Meghni ha sempre l’aria innocente e infantile, lo sguardo astratto, un leggero rossore sulle guance. In una, per esempio, porta la palla con l’interno sinistro e fissa assorto un punto in basso davanti a sé, la maglia più grande di un paio di misure che casca su un corpo immaturo e poco avvezzo all’esercizio fisico. La foto la potete trovare su un sito ingiallito dal passaggio di diverse ere di internet. Sopra c’è il nome di un’agenzia fotografica di Budrio, la didascalia “Meghni a Sestola”, a lato la scritta “Mourad Meghni” in corsivo come una firma posticcia, sullo sfondo una casetta bassa tipica dell’Appennino modenese. Pochi mesi prima aveva vinto il campionato con la squadra Allievi del Bologna, pochi mesi dopo esordirà in Serie A.

Al ritiro di Sestola i tifosi del Bologna guardavano Meghni come si fa con un figlio da cui ci si aspettano grandi cose. Era arrivato due anni prima e in Francia era stato un lutto. “L’affare Meghni imbarazza il calcio francese” titolavano i giornali; in un servizio televisivo il ministro dello sport viene chiamato a dire la sua su un fatto di interesse nazionale: «la legge Bosman non tutela i giovani talenti francesi, che quindi sono attirati dai grandi club esteri»; «È una vergogna, la federazione deve fare qualcosa», dicono altri. In quel periodo esce un articolo su Le Monde che stila la lista dei talenti di cui la Francia è rimasta orfana in quegli anni: Nicolas Anelka, Florent Sinama-Pongolle, Anthony Le Tallec e, appunto, Mourad Meghni. Se Le Tallec, finito al Liverpool, era “Il nuovo Platini”, Meghni era “Le Petit Zidane”. Insieme avevano giocato il Mondiale Under 17 del 2001 che la Francia aveva dominato, dando la sensazione di un ciclo potenzialmente interminabile di vittorie. Il trionfo al Mondiale casalingo del 98, l’Europeo del 2000 e ora anche il futuro sembrava generoso di talento fresco. In quella squadra Mourad Meghni, maglia numero 10, era al centro del campo a dirigere le operazioni, facendo girare a vuoto con eleganza avversari dall’equilibrio sempre un po’ più precario del suo.

Un anno prima nessuno sapeva perché Meghni fosse finito al Bologna. Una scelta strana per uno dei prodotti più pregiati del movimento francese. Di solito erano le squadre di Premier League a rubare i giovani all’estero, non certo un club italiano di mezza classifica. A 16 anni aveva firmato un contratto con il Cannes - dove era cresciuto Zinedine Zidane - ma il club era fallito e lui rimasto senza contratto. Aveva fatto un provino allo United, poi era andato al Bologna. La Serie A era il miglior campionato al mondo. «Da piccoli impazzivamo per le reti delle porte italiane. Erano particolari, non so spiegarlo, e quando le vedemmo da vicino fu un’emozione unica».

Un servizio televisivo lo va a trovare a casa dei suoi genitori, a Champs-sur-Marne, periferia est di Parigi, non lontano da Disneyland. La madre è di origine portoghese, il padre algerino. Lui in jeans, giacchetto Lacoste, maglione grigio, collana d’argento, palleggia vicino a un muretto; intorno a lui ragazzini che lo osservano e fanno versi ammirati; «È già un idolo del quartiere» dice la voce fuori campo. Un’altra inquadratura riprende il suo sguardo perso all’orizzonte che scompare dietro i palazzi popolari. Poi l’interno dell’appartamento di famiglia, una tovaglia rossa sul tavolo, un divano a fiori, tante buone cose di pessimo gusto, lui con la maglia dell’Argentina, con un sorriso imbarazzato mostra quella del Bologna, la sua nuova squadra. «Hanno scritto il mio nome dietro ma hanno sbagliato. Hanno messo una ‘i’ dopo la ‘h’».

Passano filmati di campo. Meghni a Clairefontaine, il leggendario centro di formazione dei calciatori francesi, la maglia numero dieci per diritto divino, si muove leggero sull’erba trattando il pallone con la dolcezza di chi è se stesso solo su un prato verde con una sfera ai piedi. La sua affiliazione a Zidane è ripetuta fino alla nausea, ma per chi lo guarda è impossibile non riconoscere una somiglianza molecolare, che scava più in profondità dei paragoni pigri. Non è la posizione in campo, o la numero 10, o le origini algerine. C’è qualcosa nel modo in cui Meghni addolcisce sinuosamente il suo corpo per accogliere i palloni che gli vengono incontro. Dal petto, alla suola, alla spalla, alla coscia, la palla gli resta vicina assecondando una legge di natura. C’è qualcosa nel modo in cui muove il suo corpo nello spazio, e pare fluttuare qualche centimetro sospeso da terra. Una trasfigurazione della materia, un’intelligenza del corpo che è sua e di Zizou. C’è un’economia dei movimenti esatta, gli occhi che ruotano un secondo prima di ricevere per guardarsi intorno, i controlli sempre orientati verso le direttrici del gioco, il campo che diventa un piano basculante che si piega alla sua volontà. C’è un controllo totale delle variabili e del caos attorno, lo stesso che faceva sembrare Zidane il depositario della verità ultima di una partita di calcio.

È la tecnica calcistica al suo grado più puro, ma mescolata con un senso del bello e una sensualità da calcio di strada. Un modo di giocare che non si insegna, irreplicabile. La sua diversità è lampante quando confrontato con l’altro talento francese, Le Tallec. Un centrocampista bravo a galleggiare tra le linee, creativo. Ha l’istinto all’ultimo passaggio e fa gol, ma la sua tecnica è asciutta, dura, cerebrale. Il calcio di Meghni, invece, pare nascere dai piedi, o meglio dal suo corpo, e la sua efficacia in una partita è un effetto trovato per caso, e quindi naturale, raggiunto senza alcuno sforzo.

Tutto questo è Meghni già a 18 anni. Due anni prima, arrivato al Cannes, Zidane gli aveva fatto recapitare la sua maglia firmata. Lui l’aveva appesa in camera come una reliquia e un monito. Quanto è lunga la strada per vincere la Coppa del Mondo, segnare in finale e diventare un eroe nazionale? «Sono un fan di Zidane perché gioca nel mio stesso ruolo e ha le mie stesse origini. Le persone fanno spesso un paragone ed è normale che io guardi lui più di altri». Tra le sue ispirazioni cita anche Luis Figo, «Portoghese come mia madre», e Juan Sebastian Veron.

Meghni compare nel famoso documentario A la Clairefontaine, prodotto col tradizionale sforzo della repubblica francese a raccontare la propria eccellenza. Col tempo è diventato un reperto cimiteriale delle speranze mancate del calcio nazionale. Hatem Ben Arfa, Ricardo Faty, Abou Diaby, Sebastien Bassong sono le storie abortite di Thierry Henry, Blaise Matuidi, Nicholas Anelka, William Gallas e Kylian Mbappè. Meghni a Clairefontaine è già considerato un prodigio, Abou Diaby, piccolissimo e già carismatico, dice che è uno dei migliori giovani in Francia. In una sequenza lo vediamo palleggiare, e lasciare che il pallone gli accarezzi la nuca girandogli intorno come un collo di ermellino. A Clairefontaine è il tecnico brasiliano Francisco Filho a insegnargli la tecnica, «Tutto quello che so l’ho imparato grazie a lui». Ci sono le immagini di una partita fatta dalla selezione di Clairefontaine contro una squadra giovanile del Saint Etienne. Appiccicati alle transenne, tute dell’Adidas rigide come divise da lavoro, ragazzini più piccoli fanno i cori per Meghni: «È il numero 10 e lo riconoscete per la sua tecnica impressionante» dice la voce fuori campo. I ragazzini dicono a tutti di passarla «A Mourad». In arabo il suo nome significa “desiderato”, “voluto”.

La sua squadra vince e c’è grande festa, piccoli tifosi che battono forte le mani sulle finestre degli spogliatoi, i compagni che ballano. Meghni rimane calmo a passeggiare per lo spogliatoio con lo sguardo basso. Pare sempre andare a una velocità diversa da quello che lo circonda. Quando parla ha l’aria addormentata, non fa gesti, la bocca si muove a malapena, lento lento dice che con i compagni di Clairefontaine parlano di calcio, dei loro progressi, si confessano l’un l’altro la paura di non potercela fare.

Dopo il Mondiale Under 17 però è difficile pensare che Meghni possa non farcela. Jean Tigana vuole portarlo al Fulham, lui parla con Guidolin che gli dice che vuole dargli un ruolo importante in squadra e si lascia convincere. Don Balon lo inserisce al nono posto tra i giovani più promettenti al mondo, dietro di lui nomi eccellenti: Arjen Robben, Zlatan Ibrahimovic, Maicon, Fernando Torres, Kakà. Nel 2002 fa il suo esordio in prima squadra - «Quell’anno si parlava solo di me e di De Rossi tra i ragazzi arrivati dalle giovanili in Serie A » - in un Bologna di metà classifica, e che a inizio stagione arriva in finale Intertoto. Una squadra dominata da un attaccante operaio come Cruz e dal bomber navigato Beppe Signori, che non riesce a pronunciare il nome Mourad e lo chiama “Mulan”.

Segna il suo primo gol tra i professionisti in una partita sfortunata che il Bologna arriva a perdere 5 a 1 contro il neopromosso Como. Da segnalare un autogol di Zaccardo, un gran gol di testa di Nick Amoroso su assist di Benny Carbone. Meghni segna con un tiro al volo di piatto sul secondo palo, semplice e bello.

Segnerà un altro gol quell’anno, a San Siro contro il Milan, 8 presenze e 2 reti a 18 anni, al primo anno in Serie A. L’anno dopo arriva Carlo Mazzone, la concorrenza è tanta, Bellucci, Pecchia, Locatelli, Nakata, e mette insieme 12 presenze. «Ho dimostrato al mio allenatore di poter giocare in Serie A, ma devo ancora mettere su peso, sembro ancora un ragazzino».

È al terzo anno che Meghni gioca con più continuità, ma in una stagione negativa in cui il Bologna arriva diciottesimo e retrocede. «Ricordo una gara a Palermo: ero vicino la linea di fondo e mi urlò di passarla, ma dribblai l’uomo. [Mazzone] Si girò verso gli altri compagni e disse rassegnato: “Vabbè, fai un po’ come te pare…”. Gli voglio bene» dirà anni dopo. Quella stagione, dopo qualche giornata, segna una doppietta a una Roma in dismissione, con Rudi Voller che si dimette dopo la partita. Sul secondo gol tira di sinistro un tiro a mezza altezza che gonfia la rete floscia come il nuoto di una medusa, l’effetto che forse colpiva così tanto Meghni prima di arrivare in Italia. A fine anno il Bologna retrocede e lui è un lusso che non ha senso mantenere. In quella stagione si diceva lo volesse la Juventus, o il Real Madrid. Arrigo Sacchi, in quel momento direttore sportivo, è un suo grande ammiratore e più volte si vede sugli spalti del Dall’Ara. Gazzoni, presidente rossoblù, dice che non si muoverà per meno di 10 milioni di euro.

A fine stagione invece Meghni finisce al Souchaux in prestito. Come è possibile che uno dei talenti più evidenti e pubblicizzati, a 21 anni e dopo la sua migliore stagione in Serie A, sia finito in una squadra di mezza classifica in Ligue 1?

Nell’interpretazione a posteriori delle cause del suo fallimento Meghni dirà che non aver avuto un agente italiano a curargli gli interessi è stato un grosso errore. E comunque eccoci qui: Meghni presentato con la maglia del Sochaux. La faccia diventata più lunga e maliziosa, ma anche più triste. I capelli radi e spilogosi, tutti punte. Bijotat, l’allenatore del Souchaux dice che è «Un giocatore che fa giocare meglio gli altri, ma che ha bisogno degli altri per giocare». È arrivato lì anche su consiglio del CT Domenech, la stagione però è un fallimento. Il club è in una fase di transizione e Meghni gioca la metà delle partite di Jeremy Menez, talento della classe ’87 su cui la Francia ha spostato i propri sogni di gloria.

Di quella stagione rimane solo un reperto video di pochi secondi in cui Meghni prova un dribbling assurdo, qualcosa di mai visto né prima e né dopo. Riceve sul lato sinistro vicino l’area, tiene la palla sotto la suola con un avversario di fronte a sé; la alza e la lascia rimbalzare sul ginocchio, e poi subito con l’interno prova un drible de vaca passando di lato. Ma non è abbastanza rapido per completare il dribbling. Un sontuoso manifesto di bellezza e inefficacia.

Ogni anno Meghni tornava con la sua famiglia in Algeria per tenere vivo il legame con le radici. Il paese di cui è originario suo padre, Ouled Hedadj, è in quella stretta regione montuosa nell’Algeria settentrionale chiamata Cabilia, la stessa da cui viene parte della famiglia di “Zizou”. Suo zio gli mostrava le cassette di Rafik Saifi, leggenda del calcio algerino. Un giocatore con una carriera di ottimo livello in Francia culminata al Lorient, in una stagione in cui ha segnato 14 gol e vinto il Pallone d’Oro algerino. Saifi era un giocatore incredibile, capace sempre di spiazzare difensori e pubblico; un numero dieci che provava a fare qualcosa di sorprendente ogni volta che aveva la palla fra i piedi. Nei video non sembra protagonista di vere partite di calcio ma di esibizioni create per permettergli di fare giocate da videogioco. Era un maestro della bicicletta, non intesa come doppio passo ma come quel dribbling in cui la palla viene bloccata tra i piedi e lanciata sopra la testa come sputata da una catapulta. La usava per dribblare ma anche per scambiare con i compagni. Nel suo repertorio ci sono finte da fermo, scorpioni volanti, pallonetti e rifiniture visionarie. Uno dei calciatori più impossibili che vi capiterà di vedere nel mondo del calcio impossibile di YouTube.

In una delle tante interviste rilasciate in tarda età, Meghni dirà di non aver mai voluto somigliare a Zidane ma a Saifi. Quel soprannome è stata una maledizione per lui, è chiaro. Non ha mai pensato di essere il piccolo Zidane, ma le persone attorno a lui volevano così tanto che lo fosse che la sua volontà, ovviamente, finiva per non contare niente. «Prima io, poi Ben Arfa e Gourcuff. Quel paragone è stato un danno per tutti. Una volta che hai quell’etichetta, non te la leva più nessuno» commenterà in una delle innumerevoli interviste rilasciate in tarda età agonistica. Zidane come Crono, padre cruento e paranoico che col semplice fantasma della sua presenza divora i propri figli per paura che lo spodestino dal pantheon francese. Ovviamente non per colpa sua, di Zidane, ma nostra che volevamo che la magia unica che portava in campo non finisse mai.

Mourad Meghni era chiamato Le Petite Zidane e noi non avevamo motivo per non credere che lo fosse davvero. Era un’epoca diversa. Forse io ero giovane e non vedevo insidie di fronte al percorso di un altro giovane, la cui bravura è conclamata e riconosciuta, verso il successo. O forse lo eravamo tutti, più ingenui, più pronti a credere all’inevitabilità della riuscita del talento e della sua manifestazione come fatto divino. Un’ingenuità costruita dal contesto. Dei giovani talenti non circolavano i video di quando avevano 14, 12 o addirittura 8 anni. Non facevamo in tempo a sviluppare delle aspettative su di loro, e a venir ripagati dalla delusione. Eravamo pronti ad accogliere ogni giovane esordiente con illusioni sempre intatte. I piccoli calciatori che si perdevano nel percorso, ancor prima di arrivare ai nostri occhi, rimanevano nelle tracce dei discorsi di qualche allenatore giovanile sotto forma di racconti e leggende. Per arrivare al pubblico il loro schianto doveva essere stato fragoroso.

Adrian Doherty si diceva fosse il talento più splendente della classe del ’92 del Manchester United. Pochi però lo hanno visto giocare. La sua bravura si tramandava per passaparola con la trepidazione per l’arrivo di un nuovo profeta. Doherty non diventerà mai un calciatore e la sua presenza rimarrà solo in qualche foto a bassa risoluzione e nei racconti e nelle leggende sul suo conto. Meghni invece è uno dei primi talenti di cui abbiamo visto il fallimento trasmesso per televisione. Eppure è difficile capire con esattezza cosa sia andato storto. In tutte le interviste di fine carriera i giornalisti gli fanno domande su questo tema, tanti piccoli investigatori alla ricerca del misfatto.

Qualche anno fa Paolo Gemerei ha girato un bellissimo documentario intitolato Zero a zero. Racconta il percorso di tre talenti perduti delle giovanili della Roma: basta qualche piccolo dettaglio fuori posto per veder deragliare un futuro all’apparenza assicurato. La sensazione che si ricava alla fine, oltre all’enorme peso che ha la fortuna, è che nemmeno i protagonisti riescono a darsi una spiegazione precisa di cosa sia successo.

Dopo il Sochaux, Meghni torna al Bologna, in Serie B, una stagione in cui gioca una trentina di partite e si alterna in campo con un altro numero dieci di culto come Lamberto Zauli. Segna un gol in campionato con un tiro violento da posizione angolata. A fine anno va alla Lazio, in una squadra che gioca la Champions League. Ma Meghni ha già intorno la fama del talento decaduto su cui si può scommettere, ma di cui si mette largamente in conto il fallimento. Il soprannome di “Petit Zidane” comincia a essere usato con ironia.

Gli avevano consigliato di non andare alla Lazio, che Delio Rossi non lo avrebbe mai fatto giocare. In realtà, quando sta bene, gioca, oppure subentra a partita in corso al posto di Stefano Mauri. È difficile ricostruire gli anni alla Lazio, internet ci aiuta con qualche video che restituisce più o meno che giocatore fosse diventato Meghni. Non un giocoliere dal gusto barocco come Saifi, ma un regista dalle movenze classiche, ancora formidabile nel resistere al pressing e ad associarsi con i compagni negli spazi stretti. Al primo anno alla Lazio, in Champions League contro il Werder Brema, gioca quella che è, a suo dire, la migliore partita della sua carriera. Partito per la prima volta da titolare in stagione, Meghni è in campo con una mano fasciata di bianco e una gamba fasciata di fucsia, come se i pezzi del suo corpo dovessero essere contenuti dal disfacimento. Guadagna un calcio di rigore poi, al 67’, un’azione geniale. Riceve palla dietro il centrocampo e corre verso l’esterno cercando di difendersi dall’arrivo degli avversari. Ne ha tre addosso e gli passa attraverso come un fiotto d’acqua. Dopo una piccola croqueta alza la testa verso gli attaccanti; Rocchi sta scattando ma Meghni si trova in una posizione di campo inutile, quasi sulla linea laterale, fuori equilibrio, con la palla sul piede debole. Dopo una piccola esitazione, parte un lancio di interno che prende una traiettoria larga e poi stringe esattamente sulla corsa di Rocchi, che va a segnare il 2-0.

Cos’altro ci è stato tramandato? Un paio di partite a San Siro contro il Milan, una in campionato e una in Coppa Italia, in cui mostra qualche protezione palla d’alta scuola. Un doppio passo contro l’Udinese, un colpo di tacco al volo contro la Reggina, un dribbling nello stretto su De Rossi in un derby ben giocato ma perso. Un assist d’esterno incredibile per Rocchi contro il Palermo, un tunnel a Stankovic.

Nelle prime due stagioni alla Lazio ha qualche problema fisico, ma gioca abbastanza, poi sparisce, gli infortuni lo colpiscono in ogni parte del corpo. Soffre di Pubalgia, tendiniti, strappi muscolari, due operazioni chirurgiche alla rotula del ginocchio. Prima dello schianto definitivo, riesce a fare il suo canto del cigno con la maglia dell’Algeria. Viene convocato nel 2009, è il primo a sfruttare la legge che gli permette di giocare per la Nazionale di un paese in cui non è nato. C’è il video di un'amichevole giocata contro l’Uruguay, l’esordio con la maglia algerina, Meghni al centro del campo alterna scambi corti a passaggi lunghi verso le punte, corse a testa alta e i soliti tunnel preparati con tocchi di suola che aprono il sipario delle gambe dei difensori. In una partita contro l’Egitto, decisiva per la qualificazione ai Mondiali, gioca una partita entrata nella leggenda, offrendosi come faro per i compagni, giocatore a cui affidare i palloni per dare ordine al caos e calmare la tensione. René Girard, uno dei suoi primi tecnici, aveva parlato di lui come di un artista: «Il cervello calcistico di Mourad è davvero eccezionale. Ha un senso innato dell’improvvisazione. Con la tecnica che ha quello che deve fare è portare gli altri nel gioco più spesso - è sempre sul punto di fare qualcosa».

Il modo in cui sposta il pallone con la suola agli avversari è appartenuto a pochi altri giocatori.

Alla fine dell’ultima partita del girone saluta il pubblico con una bandiera dell’Algeria messa a mantello. Dice che quello è stato il momento più bello della sua carriera, ma anche il più triste, perché poi l’infortunio al ginocchio lo ha costretto a saltare i Mondiali del 2010. Dopo la sua prima convocazione il CT dell’Algeria aveva detto: «Non ci abbiamo messo molto a riconoscere le sue immense abilità tecniche e tattiche. Sfortunatamente non è ancora in grado di giocare al meglio per i problemi fisici che si porta dietro. Prego che i problemi che il suo corpo sta soffrendo spariranno prima della Coppa del Mondo». Nella carriera di Meghni c’è sempre una speranza proiettata al giorno in cui potrà vivere libero dagli infortuni, ma quel giorno non arriverà mai.

Possiamo dire che nel 2009 la sua carriera in Europa è sostanzialmente finita, Meghni aveva 25 anni. Giocherà altre 11 partite con la Lazio, segnando un’ultimo gol in una trasferta d’Europa League contro il Levski Sofia. L’ho cercato dappertutto come se potesse dirmi qualcosa ancora, ma forse continua a vivere solo negli occhi dei tifosi laziali che lo ricordano, o forse è in questo fotogramma di un tiro di collo pieno. Nel 2011 il fratello rilascia un’intervista in cui dice che dopo due anni lontano dai campi «La gente lo ha praticamente dimenticato». Dice che giocare in Europa è la sua priorità, che quando ufficializzerà il suo addio alla Lazio arriveranno tante offerte. Meghni, però, andrà in Qatar, e neanche lì riuscirà a giocare. Una decina di partite di cui rimane traccia in un articolo su un giornale locale algerino, in cui Meghni compare con in testa una strana cresta.

Nel 2015 decide di tornare a casa, a Champs sur Marne, le ginocchia gli fanno male e a 31 anni cosa dovrebbe fare? È presto per ritirarsi, la sua carriera non sembra neanche mai cominciata. Inizia a giocare a Futsal nella squadra locale. Come sempre, qualcuno è lì a documentare questo finale malinconico. Meghni sul parquet fischiante di una palestra locale, gioca da ultimo uomo, fermo, stop e passaggio di piatto, stop e passaggio di piatto, prima a sinistra, poi a destra. Nessuna corsa, pochi tocchi di suola, nessun dribbling, zero tiri. Il suo gioco ridotto a uno stato larvale.

Sempre nel 2015 riceve la proposta del Constantine, una squadra di calcio a undici algerina, e decide di accettare. Quando arriva all’aeroporto gli mettono una sciarpa al collo e un mazzo di rose in mano. Due tifosi lo scortano tra la folla festante. Comincia a giocare su questi campi spelacchiati dove batte un sole impietoso, il suo corpo ha ormai perso tutta la leggerezza della gioventù ma in compenso ha assunto un’eleganza enigmatica da elefante. Si muove lento ma il pallone continua a obbedire alla sua volontà, le sue finte rimangono illeggibili per i difensori. Vale sempre la pena guardare Mourad Meghni giocare a calcio. Segna un gol nella Champions League africana con un tiro a giro, poi allarga le braccia e aspetta che i compagni lo inghiottano per farlo scomparire. Tutto attorno il frastuono, una marea irrequieta di persone ammassate, arrampicate ovunque, sugli spalti, sotto le transenne, sopra altre persone, sui pali di sostegno della copertura come pipistrelli felici.

Nel 2017 si ritira, torna a casa, continua a giocare a futsal. Due anni dopo si lascia convincere da alcuni suoi amici a giocare nel Val de France, una squadra di dilettanti dell’ottava divisione francese dove suo figlio milita nella formazione U-11. Nel video di presentazione ha la barba e qualche capello in più; tra una domanda e l’altra un montaggio professionale che sembra averlo improvvisamente trasportato nel presente per la prima volta nella sua vita. Dice che i “grandi spazi” del calcio gli sono mancati e che continuerà a giocare finché starà bene fisicamente. La domenica gioca contro ragazzi che lo avevano come idolo da piccoli ma che non lo riconoscono: «Ora che lo so lo andrò a dire a tutti nel quartiere».

Meghni oggi ha 36 anni e per quel che ne sappiamo gioca ancora al Val de France, si definisce prima un padre e poi un calciatore. Rilascia spesso interviste in cui si lascia scappare frasi un po’ malinconiche come: «Se avessi avuto più continuità, forse oggi sarei in una big», o «Quando stavo bene ho sempre fatto la differenza»; poi è costretto a tornare sul solito argomento: cosa è andato storto? Cosa gli è mancato per diventare il nuovo Zidane? O perché, almeno, non una carriera più ricca di soddisfazioni? Lui prova a rispondere. Dice che i problemi fisici, ovviamente, lo hanno limitato, ma anche che forse non ha lavorato abbastanza per evitare quegli infortuni. A un certo punto si era convinto inconsciamente che il suo talento gli sarebbe bastato.

I video delle sue partite si trovano su YouTube, caricati dalla setta del culto di Meghni presente soprattutto tra i tifosi algerini. È grazie a loro che possiamo ancora guardarlo giocare. Sono video che alimentano un culto segreto per persone che continuano a guardarli come un vizio. Hanno titoli come “The biggest loss in the history of world football”; “le magicien perdu”; “l’ancien prodige algerien”. Raccolgono con chissà quale fatica giocate sparse in una carriera con più partite saltate per infortunio che giocate. Contando tutti i match disputati in carriera, compresi quelli con l’Algeria, Meghni arriva a 201 presenze, di cui forse la metà dal primo minuto.

Nei video la sua corsa continua ad avere qualcosa di ipnotico, i dribbling di suola, sterzando all’improvviso sulla corsa dei difensori, contengono ancora tutto il loro mistero. Gli stop di petto così dolci, i doppi passi, i dribbling e i tunnel riusciti nello spazio di una monetina. La malinconia che si porta dietro non è tanto nella sua incompiutezza, quanto nella sensazione che il suo modo di giocare, così unico, potremmo non rivederlo mai più.

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