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Mentre la casa andava in pezzi
08 lug 2016
Jésus Manuel Corona, nonostante la brutta uscita di scena del Messico in Copa America, continua a crescere.
(articolo)
11 min
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Dopo il tempo delle immagini c’è per forza quello delle parole. La narrativa della disfatta ha una semantica e delle regole sintattiche precise. Si muove in bilico tra vergogna, ricerca del perdono, tentativo di ritagliarsi una strategia d’uscita che risulti decorosa, piena di tatto, ma che sappia in qualche modo trasudare anche speranza.

Credevamo che questo Messico potesse essere altro: giunto ai quarti di Copa América surfando le onde di un momentum inedito nella sua storia, imbattuto da 22 partite consecutive sotto la guida di Osorio, bello da vedere, ricco di talenti individuali, forte di un seguito di per sé caloroso, in terra statunitense ancora di più, per tutta una serie di ragioni che travalicano la semplice afficción futbolistica. La Copa América Centenario, insomma, doveva essere il torneo della svolta: quello che avrebbe fatto tornare il Messico nei radar del calcio mondiale, dopo anni di periferia.

Invece la gara contro il Cile, la sconfitta per sette a zero, è finita per essere la notte più buia del calcio messicano.

Negare tutto

«Non c’è niente di più buio del cielo prima che cominci ad albeggiare: è una frase che tengo sempre ben fissa in mente». Il Chicharito, da uomo rappresentativo della Tri, è stato uno dei più lucidi (e coraggiosi) nel tornare sull’argomento insieme a Ochoa e a Layún. La pagina twitter del Tecatito Corona, invece, è cristallizzata al momento più alto della sua Copa América, la gioia e l’orgoglio successivi al suo gol contro il Venezuela, il più bello finora della manifestazione, un gol in cui salta sei avversari convergendo dalla fascia, il suo regno, verso l’area avversaria, un gol che ha permesso al Messico di passare il turno come primo del suo girone ma che soprattutto, nel suo essere così messiesque, è eloquente del perché dovremmo essere dispiaciuti per i destini della Tri e del suo astro più brillante.

Quel che è successo dopo, per Corona, è come se non esistesse, come se non fosse affar suo. Il genere umano non può sopportare troppa realtà, diceva T.S. Eliot. O forse deve soltanto somatizzarlo ancora. La sua sostituzione al sessantesimo della partita contro la Roja, con i suoi sotto già di cinque reti, è stata la bandiera bianca issata da Osorio. La realpolitik del fallimento porta sempre, inevitabilmente, all’evirazione del talento.

Jesús Manuel Corona, el Tecatito, oggi è il più cristallino prodigio del calcio messicano moderno: una rivisitazione meno eterea e bizzosa di Giovani dos Santos. Vederlo giocare vale il prezzo del biglietto: un’affermazione in linea di massima inesatta quanto odiosa, ma che nel caso specifico del Tecatito trascende la banalità per farsi manifesto del suo gioco, capace di lasciarci un insegnamento morale di cui dovremmo fare tesoro: il calcio moderno non è il circo, né uno spettacolo del Cirque du Soleil. È coralità, è musica di una band. Ma il nocciolo della questione è che i peli delle braccia ci si rizzano sempre, ineluttabilmente, quando la chitarra parte nell’à solo.

Hugo Sánchez crede molto nel calcio messicano, e non è mai stato parco di elogi per i talenti nati in casa: «Pochi giocatori al mondo hanno la sua qualità nell’uno contro uno», ha detto del Tecatito. Corona possiede tutti i crismi dell’esterno moderno: tecnica sopraffina, mobilità fantastica, rapidità alla nitroglicerina. Una scuola che in Messico ha trovato alcuni tra i migliori esponenti di questa nouvelle vague, da Damm a Aquino a Hirving Lozano.

Quel tipo di giocatori che costringono le regie televisive a fare zoom sui loro piedi per vedere cos’è che si stanno inventando.

10 generoso

Parlando della lingua poetica, Octavio Paz, nella sua autobiografia «Io sono letteratura», ha scritto che «l’atteggiamento del creatore (cioè il poeta, NdA) nei confronti del linguaggio deve essere quello di un innamorato. Un atteggiamento di fedeltà e, al tempo stesso, di mancanza di rispetto nei confronti dell’oggetto amato». Corona ha lo stesso mood per il gioco: i suoi strappi, le sue accelerazioni (in cui dà l’impressione costante che stia perdendo attrito con il terreno e la palla), l’atteggiamento di sfida nei confronti dell’avversario prima e della fisica e della logica poi, sono la lettera d’amore, e il j’accuse al contempo, che fanno da didascalia a quell’ora e mezza di tempo in cui il suo solo obiettivo è sopraffare i ventuno uomini che lo circondano, dieci dei quali indossano i suoi stessi colori.

Vi odio e poi vi amo e poi vi odio e poi vi amo.

Di speciale Corona ha una caratteristica che è spesso mancata nelle maggiori espressioni talentuose messicane recenti: indossa la Diez con un’abnegazione che la generazione dorata, quella dei Vela e dei Gio, quella che ha vinto la medaglia d’oro nelle ultime Olimpiadi di Londra, non ha mai dimostrato di conoscere. Corona non è tipo da capriccio, non rifiuta convocazioni né impone paletti. Nel 2015, nell’arco di un’estate, ha disputato due tornei, la Copa América cilena come esponente di spicco di una Tri sperimentale e la Copa de Oro da trascinatore assoluto. Forse era dai tempi di Cuauhtémoc Blanco che non si vedeva un numero 10 in maglia verde azteco con tutta questa personalità.

Finale della Copa de Oro 2015, contro la Jamaica. In una posizione di campo che non gli appartiene per assegnazione divina, Corona strappa il pallone a un avversario con la testardaggine del Caparbio, poi punta Wes Morgan che lo osserva con lo stato d’animo con cui si attende il passaggio di un uragano su Kingston. Il resto è precisione chirurgica, sensibilità nel tocco del pallone, quattro sillabe: Te-ca-ti-to. Per questo e per molto altro è stato insignito del Bright Future Award.

Hermosillo, estremo nord messicano, dirimpetto alla Baja California, è la città industriale nella cui suburre Jesús Corona è nato e cresciuto: si trova nel bel mezzo del deserto di Sonora. Paesaggi lunari, altipiani rocciosi, case basse inzuppate di bianco. Qualche cactus occasionale. Strade sterrate.

I Cimarrones de Sonora, la squadra cittadina, è stata fondata solo nel 2013: le ultime due stagioni li hanno visti sedicesimi, su sedici squadre, della Liga de Ascenso MX, la seconda serie nazionale. Il calcio a Sonora non è mai stato granché celebre, lo sport più amato è il baseball. Forse perché si confa di più al clima e ai ritmi dell’area.

El Tecatito prima che fosse El Tecatito: è quello inginocchiato di fronte all’allenatore. Maglie dei Pumas UNAM, campo delimitato dalle gomme dei tir: il paesaggio tutto intorno è lo stesso che avremmo ammirato se una squadra di ragazzini fosse andata a scattarsi una foto su Marte.

C’è un aneddoto sulla nascita (e sullo sviluppo) della passione di Corona per il fùtbol che ricorda molto da vicino la palingenesi dell’amore reciproco tra ragazzino e pallone vissuta anche da Landon Donovan: il calcio scelto dai genitori come palliativo per l’iperattività, come passatempo sfiancante per la vivacità fanciulla, si trasforma in droga, in dipendenza. Di lì in avanti la formazione è un continuo piallare, tornire la pietra grezza, modellarla: Francisco Fierro, il suo primo allenatore, racconta che «quando lo mettevo in panchina si disperava, e non vedeva l’ora di poter scendere in campo per dimostrare che mi ero sbagliato». Quando poi scendeva in campo, in effetti, era superiore al resto della media, ma come fai ad ammettere di aver sbagliato quando stai cercando anche di formare il carattere, oltre che lo stare in campo, di un bambino? Un altro coach, Guerra, gli ha insegnato che «non avrebbe dovuto dribblare sempre l’avversario, perché avrebbe corso il rischio di diventare un giocatore prevedibile. Ed è esattamente ciò che di peggio un atleta può diventare: prevedibile».

Un monito che il Tecatito deve aver conservato in quella zona del cervello in cui si fissano gli odori dell’infanzia e le facce delle donne di cui ci innamoriamo: nello stop di tacco, al volo, con cui arpiona la palla che poi incrocia nell’angolino basso, per una vittoria che in Honduras mancava da cinquanta anni, in nessuna cosa che partecipa a questo gol c’è qualcosa di prevedibile.

In un’intervista recente, da Oporto, dove si è trasferito quest’anno per giocare con i Dragões, Corona confessa che a un certo punto ha pensato che il calcio non fosse cosa per lui: i suoi compagni di scuola, a dieci anni, se ne andavano a fare provini per le giovanili dell’Atlas, dei Tigres, venivano scelti; lui, invece, non lo considerava nessuno.

Anche per questo decide di partecipare, con il suo Liceo, alla Copa Coca Cola, una manifestazione che in America centrale e del Sud ha un fascino - e un seguito - tutto particolare: un mix tra i Giochi della Gioventù e un reality show, nel quale ci si diverte spensierati e si gettano le fondamenta per la realizzazione di un sogno allo stesso tempo.

Corona trascina il suo college alle finali provinciali, regionali, nazionali; poi interviene quello scarto grazie al quale Hermosillo non è già più una città in cui si trova una scuola, ma si trasforma nella Tri, anzi di più, in un paese intero, nel Messico: nella finale del giugno 2008 segna due reti, contro Panama. È una partita che si gioca al Maracanã di Rio de Janeiro: negli spogliatoi ci sono jacuzzi e campi sintetici per il riscaldamento. Corona non è mai uscito prima dal Messico, molti suoi compagni non hanno neppure mai fatto più che un giro veloce per il centro di Hermosillo.

Mi sarebbe piaciuto scrivere che «al netto della retorica questo filmato è il miglior endorsement che Corona possa fare», ma mi rendo conto che la sua storia non è che si possa troppo distillare dalla retorica.

Ha quindici anni. Il Santos fa un’offerta: è buffo pensare che avrebbe potuto essere compagno di squadra di Neymar e Ganso. Invece sceglie di restare in patria, e firma per il Monterrey, per i Rayados. Forse un trasferimento a sensazione lo avrebbe aiutato a entrare a far parte della Sele Tri per i Mondiali U17 del 2009, per i quali non viene convocato. «Piangeva e diceva che non avrebbe mai più giocato al calcio», ricorda oggi la madre.

La nascita del Tecatito

Nel periodo del Monterrey nasce il soprannome Tecatito, che ha un’origine così capitalista e grottesca da risultare antipatica, addirittura brutale per dinamica e margine di arbitrarietà nei confronti del ragazzo. Il Monterrey è sponsorizzato (e in parte ne è proprietà) dell’industria birraria Cuauhtémoc Moctezuma, produttrice della Carta Blanca, l’etichetta che compariva sulle maglie dei Rayados. Per quanto possa sembrare assurdo, a preoccupare i vertici della società era il fatto che all’interno dell’Estadio Tecnológico potesse risuonare il grido «Gol di Corona!», la principale etichetta concorrente. È così che nasce l’apodo Tecatito, diminutivo di Tecate, uno dei prodotti di punta della Moctezuma.

Jesús sarebbe potuto rimanere nella comfort zone in cui molti suoi colleghi connazionali hanno scelto di trastullarsi nell’ultimo quinquennio: le squadre di LigaMX offrono contratti lusinghieri, e ai giocatori non viene chiesto di provarsi in situazioni di adattamento stressanti.

Invece ha deciso per l’Europa: lo cercava il Barça B, ha finito per accettare l’offerta del Twente, in Olanda, dove ha impiegato qualche tempo per affermarsi, dove ha atteso lanciando sassolini ai compagni nella speranza che si stufassero e gli lasciassero il posto, come Francisco Fierro racconta facesse da piccolo.

Nella maniera in cui oggi Corona scende in campo, nei movimenti che fa, nella lettura delle gare, c’è la profonda impronta, una legacy quasi, che lo lega al contesto in cui è nato. La discontinuità di rendimento sull’arco dei novanta minuti, il suo scomparire dalla manovra per poi riapparire con strappi improvvisi, sembra il naturale e darwiniano risultato d’adattamento di chi è cresciuto giocando su campi in cui la temperatura, di media, sfora i 35 gradi.

Ai bordi di quei campi non c’è pubblico pronto a entusiasmarsi, non ci sono estimatori: c’è solo il deserto, e il vento che soffia distante, come in quel racconto di Pacheco, pronto a spazzare via i sogni, le velleità.

La Powerade, uno dei main sponsors della Copa América Centenario, ha scelto come testimonial una serie di atleti con una storia d’infanzia ai margini, se non comportamentali almeno geografici: Derrick Rose, Jimmy Graham, Shakur Stevenson, tutti giovani che si sono affermati come rookie della NBA o next big things del Football e della boxe partendo dalle periferie della periferia degli States.

Nel Tecatito Corona i responsabili marketing dell’azienda che produce la bevanda energetica hanno riscontrato la storia «di un atleta il cui talento indiscutibile è riuscito a mettere a tacere le critiche e i dubbi che aveva sollevato nella prima fase della sua carriera».

Jesús è davvero just a kid from Mexico: un ragazzo che sperava di trovare, negli States, quest’anno, qualcosa di non necessariamente grande come il successo, qualcosa che dal successo sarebbe potuta passare ma che dal successo può anche prescindere: la consacrazione.

Nonostante il brutto epilogo della spedizione della Tri, la rifondazione non può che ripartire anche dal suo volto, e dal suo talento.

Il punto più buio della notte è solo il principio di una nuova alba.

E chissà che Jesús non sia già pronto per fare sua un’altra coppia di versi di Octavio Paz, quelli che dicono «Mentre la casa andava in pezzi / io crescevo».

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