Ora, io non so se riuscirai a leggere questa lettera, però sento lo stesso come la necessità di dirti che io, con te, sono stato più felice di quanto i libri dicono sia possibile.
Eduardo Galeano, La canción de nosotros.
Secondo Jorge Luís Borges «lo scrittore che scrive ciò che si propone, non ha scritto niente; per essere buona, l’opera, deve trascendere la proposta».
Lionel Messi avrebbe potuto avere una carriera diversa? Forse sì. Magari più nella forma, che nei contenuti. Sarebbe potuto rimanere in Argentina, tanto per iniziare, almeno un po’ più a lungo: il percorso da predestinato si sarebbe realizzato comunque, la matassa di dubbi sul suo valore disintricata rapidamente - in maniera piuttosto naturale, probabilmente con grande sfoggio di retorica. Sarebbe diventato facilmente l’idolo, indiscusso, insuperato, del Newell’s Old Boys. Ma da qualche parte, nei suoi geni, o a voler scomodare il destino proprio là, nel suo destino, c’era l’obbligo di trascendere. E di farlo da subito, precocemente.
Dev’essere per questo che il 17 Settembre del 2000, appena tredicenne, Lionel Messi si è imbarcato all’aeroporto internazionale di Ezeiza, con destinazione Barcellona, dove avrebbe trascorso i suoi successivi 21 anni di carriera, anche se in quel momento non lo sapeva mica ancora, che la sua sarebbe diventata una storia paradigmatica dei valori di immedesimazione, rappresentazione identitaria.
Una delle spiegazioni al fatto che i porteños, cioè gli abitanti di Buenos Aires, siano così invidiosi del successo planetario raggiunto da Lionel Messi, dell’identificazione con il Barça così intrisa di senso d’appartenenza e inscindibilità - apparente, perché nulla è inscindibile, irrevocabile, per sempre come abbiamo visto - gli serbino una specie di rancore risentito, potrebbe risiedere nel fatto che Lionel ha messo piede davvero assai raramente nella loro città. Per rubare i cuori bonaerensi, ogni calciatore sembra dover obbedire a un imperativo: giocare per una delle due grandi squadre cittadine, River Plate o Boca Juniors.
Lionel Messi, invece, a Buenos Aires non ha lasciato alcun segno, prima di lasciare l’Argentina. A pensarci bene, neppure l’aeroporto di Ezeiza si può propriamente dire a Buenos Aires.
Il binomio Messi - Barcellona, il club che è més que un club ma che è in primo luogo una città, la rappresentazione di uno spirito, si è così stratificato, cristallizzato, che non solo ci sembrava esistesse da sempre, e per sempre fosse destinato a durare. Era, vieppiù, così perfetto, immarcescibile, consolidato da sollevarci dall’analisi dei come, dei perché sia nato. Forse per un rifiuto della sdolcinatezza di un’overdose romantica tralasciamo, ritenendolo secondario, che quella di Barcellona nei confronti di Messi è stata in primo luogo un’adozione, un’operazione di salvataggio: cruzar el charco, letteralmente “attraversare lo stagno”, come si diceva nell’argot spagnolo parlato a Buenos Aires a metà del Ventesimo Secolo, era per Messi e la sua famiglia l’unica mossa per smuovere le acque, per cercare di andare a dama economicamente, specie in un periodo di crisi diffusa, per il Paese, così oscuro. Barcellona era il luogo in cui Messi avrebbe ricevuto le cure giuste per la disfunzione ormonale ne ostacolava la crescita. Barcellona era il palcoscenico in cui inscenare una storia d’amore e di successi che trascendono il calcistico.
Quando i Messi sono sbarcati a Barcellona, ad attenderli c’è Horacio Gaggioli, il rosarino che aveva fatto da intermediario con Josep Maria Minguella, che a sua volta aveva introdotto Messi al Barça. Da El Prat Gaggioli li ha accompagnati al Plaza Hotel, in Placa de Espanya, dove si sarebbero stabiliti per il periodo necessario a sostenere il provino. Josep Minguella conosceva bene il proprietario dell’hotel: ai Messi viene assegnata la stanza 546, un’assegnazione probabilmente effettuata ad arte, perché dalla camera si vedono l’ingresso della Fiera di Barcellona, e in lontananza il Palazzo Nazionale. Poco distanti svettano le torri che fiancheggiano Avinguda de la Reina Maria Cristina. Di fronte c’è la fontana di Placa de Espanya, la Font Mágica, e sullo sfondo il declivio di Montjuic, sul quale si erge el Estadio Olimpico. Un volo d’aquila su alcuni degli angoli più suggestivi della città che sarebbe diventata la sua città.
Eduardo Mendoza ha detto di Messi: «Ci è piovuto un po’ dal cielo. Quel tipo di personaggi che ti fanno venire voglia di abbracciarli, un po’ come Fiocco di Neve, che ti viene voglia di adottarli, per sempre». Fiocco di Neve, o Floquet de Neu se preferite, è stato un gorilla albino che negli anni Settanta è diventato una specie di icona, a Barcellona. Catturato da un contadino di etnia Fang in Guinea Equatoriale, Fiocco di Neve era stato estirpato dal suo habitat naturale per essere venduto a un primatologo catalano, Jordi Sabater Pi, che lo affidò al Giardino Zoologico di Barcellona, dove divenne una celebrità: ad attirare i curiosi era la sua estraneità al contesto, la sua unicità dettata soprattutto dal fatto che fosse albino. Ma a rapire i cuori era l’estrema ritrosia, e la dignità, con cui viveva il suo status. Una maniera regale di interpretare il suo ruolo nel mondo. Il senso di estraneità è stato il fil rouge dell’esperienza di Messi a Barcellona, negli ultimi vent’anni: concreto, a volte, in campo, ma anche culturale. Oltre che linguistico.
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Per quanto banalizzante, c’è sempre una leggera aura di poeticità attorno ai discorsi che partendo dall’assonanza tra Messi e il Messia parlano di Lionel in termini cristica. La parabola barçelonense di Messi è, in fin dei conti, una lunghissima Passione che sembra essersi incagliata, da un momento in poi, nella scena dell’ingresso a Gerusalemme accompagnata dallo sventolìo di palme. I tradimenti, l’Ultima Cena, i commiati e le condanne sul Calvario sarebbero arrivate un tempo interminabile più tardi. Ma con una rapidità d’avvicendamento vertiginosa.
L’arrivo di Messi a Barcellona è coinciso con l’apice del pujolismo, il programma politico lanciato da Jordi Pujol nel 1980. Presidente della Catalogna, sostenuto da borghesia, Chiesa e buona parte dell’intellighenzia catalana, Pujol aveva il proposito di creare un ideale catalano capace di restituire alla regione un’identità nazionale negli anni successivi a quelli del franchismo.
Se c’era un elemento essenziale e imprescindibile, in questa ideologia di stampo nazionalista e prettamente conservatrice, era la perpetuazione di un senso diffuso di vittimismo ed emarginazione.
Gli argentini, dal canto loro, sono un popolo fiero, con un profondo rispetto per le proprie radici e un desiderio inscalfibile di perservarle. Lionel Messi era soltanto un ragazzino: non poteva conoscere la storia catalana, e ovviamente nessuno aveva pensato che potesse essere una buona idea raccontargliela. A posteriori verrebbe quasi da pensare che, chissà, magari si sarebbe potuto immedesimare, avrebbe provato solidarietà per una regione che aveva subito tanta di quella discriminazione, una così pesante repressione, e ora cercava di imporsi attraverso ciò che più la caratterizzava, cioè la lingua. Gli argentini lo sanno, cosa significa oppressione. Lionel lo sa, cosa significa imporsi attraverso la propria caratteristica dominante, ovvero il talento.
Il Barça per Messi, e viceversa, sarebbero stati il volano per le rispettive indipendenze.
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Non è stata una storia d’amore - ventennale, ricordiamocelo, un esempio di longevità sempre più raro - del tutto priva di screzi, ovviamente. Nessuna storia d’amore, neppure quelle ventennali, lo è. Ci sono state gelosie, tradimenti, tentazioni, piccole impasse e giganteschi struggimenti. E poi: dubbi, perenni. La strategia che Lionel ha scelto di perseguire, con costanza e coerenza, anziché farsi avviluppare dalla cultura della città che lo avrebbe adottato, è stata quella di ricreare in Catalogna una specie di piccola Rosario. Di cercare in blaugrana ciò che gli sfuggiva in albiceleste. Accettazione ecumenica, dapprima. Idolatria incondizionata, poi. Vittorie, infine.
Cristina Cubero, giornalista che ha seguito Lionel durante i suoi primi passi, dice che è «il calciatore argentino più argentino che abbia mai conosciuto». Non possiamo sapere se i Messi avessero paura di diventare troppo spagnoli, di perdere l’argentinità. L’avvicinamento culturale, in fin dei conti, non ha mai saputo cancellare del tutto l’identità di un individuo. Aveva paura di perdere la propria identità, Lionel? Di trovarne un’altra? Eppure l’identità non implica nessun giudizio di valore, non significa essere migliori o peggiori degli altri. Semplicemente: difendere ciò che si è. Forse Lionel ha pensato che difendere la propria identità - nella fattispecie di argentino - fosse l’unica maniera che aveva per crescere più forte. Affermarsi attraverso la distinzione.
Vestito dei colori culé, Messi si è ammantato di un’aura di invincibilità. Con quell’armatura si è elevato. E tanto più l’amore che ricavava dai colori di una maglia, da uno stadio che lo osannava, si elevavano, tanto più deprimente era il rendimento al di fuori di quei colori, quella casa, quella compagnia.
Messi, a Barcellona, nel Barcellona, ha imparato a sentirsi indispensabile, cosa che gli è mancata con la Selección.
Non mi sembra sia una forzatura eccessiva immaginare che la concretizzazione dell’idea che potesse esistere un Messi al di fuori di Barcellona, in Messi stesso, si sia cominciata a far largo, per poi deflagrare, proprio nel momento in cui le contingenze hanno fatto sì che Messi, anche se formalmente, non appartenesse più al Barcellona. Quando il primo Luglio scorso è scaduto il suo contratto coi blaugrana, ed era impegnato in Copa América, Messi si è trovato davanti alla condizione di poter prendere il coraggio a due mani e librarsi. Essere soltanto sé stesso, non già più il numero dieci culé, il capitano del Barça, il simbolo di una città, di un movimento, di un’idea calcistica. Ha avvertito il brivido quasi proibito di sentirsi diverso, per certi versi nuovo. Lontano dall’immagine di sé impressa nell’immaginario collettivo, data per scontata. Come dice Salmo, Messi è diventato tutto ciò che ha sempre odiato. E gli è piaciuto.
Il calcio, come la vita stessa, racchiude sempre un’aspirazione estetica. Si può vivere, senza bellezza? In potenza si può. Ma no: non si può essere felici. La bellezza è sempre una promessa di felicità.
Il calcio è una delle forme d’arte, dei giochi, che rendono più visibile il processo creativo della bellezza. Creandola, o sfruttandola, ci rendiamo un po’ migliori, perché in quel momento - il momento della creazione, che è anche il momento della contemplazione - stiamo convivendocon il perfetto, o con l’idea che ce ne siamo fatti. Se al bello aggiungiamo qualcosa, o togliamo qualcosa, ne otteniamo una storpiatura. La bellezza e l’arte hanno qualcosa di divino, e il calcio, quando rasenta la perfezione, come il calcio che Messi ha inscenato a Barcellona, quando ci strappa stupore, sembra anch’esso imbevuto della stessa materia sublime. Non si tratta soltanto di estetica di gioco, ma anche di valori più elevati, di cui spesso tendiamo a condannare la presa in considerazione, quando si parla semplicemente di calcio: rappresentazione. Potenza immaginifica. Identità.
Ogni liaison apparentemente destinata all’eternità suscita lo stupore struggente del massimamente bello. E la paura che possa finire. Anche, e soprattutto, quando poi finisce davvero. Quando ci spiazza scavando il solco di una vacuità che ci sembra incolmabile.
Messi, a Barcellona, è stato bellissimo. Lo sanno i tifosi culé, lo sanno tutti gli appassionati di calcio, lo sanno i suoi seguaci, chi lo idolatra, chi pensava che non avrebbe mai smesso di essere tifoso del Barça, continuando a tifare per Leo.
Ora è già il tempo che segue, il principio di un processo di elaborazione del lutto, o la prima lettera vergata su un foglio bianco che è il massimamente possibile.
Anche se sembrerà una frase smielata, da Smemoranda alle medie, non dovremmo lasciare che lo spaesamento per il crollo di uno status quo che credevamo eterno possa avvelenare i ricordi di ciò che è stato.
Dove finisce un’epoca ne inizia un’altra. Non per questo, la storia d’amore tra Leo e Barcellona ne uscirà scalfita. Con il tempo, finiremo tutti per realizzare quanto la felicità che si sono donati reciprocamente sia davvero troppo più grande, come scriveva Galeano, di quanto i libri dicono sia possibile, lecito, plausibile.