«Quando si ritirerà, Lionel Andrés Messi guarderà indietro alla sua carriera e penserà che ha vinto meno Champions League di quanto la sua grandezza come calciatore avrebbe meritato. Il miglior torneo per club lo ha ferito negli ultimi anni. Quello che è successo al Santiago Bernabeu è lo stesso che è successo anche in altri stadi. L'immagine definitiva è lui con la testa bassa che non chiede la palla quando ci sono i minuti finali e sta per finire la partita». Questo ha scritto il giornale argentino Clarín dopo la scioccante, o “irrazionale” per citare il titolo de l’Equipe, eliminazione al Bernabeu.
Negli anni di Barcellona quello stadio era definito “il suo giardino di casa”. Lì ha segnato 15 gol: nessuno ne ha fatti di più contro il Real Madrid nel suo stadio. L’ultima volta che ha affrontato il Real Madrid in Champions League ha confezionato una delle sue reti più iconiche. Ora invece anche il Bernabeu si aggiunge alla collezione degli stadi che fanno da sfondo alla tragedia di Messi.
Il rapporto tra Messi e la Champions League è cambiato in una notte, la sconfitta all’Olimpico nel 2018. Dal gol di Manolas ogni eliminazione è arrivata sotto forma di tragedia greca in due atti: il promettente inizio e poi la più crudele fine. Messi somiglia a Prometeo, l’uomo che ha rubato il fuoco agli Dei, e che è stato punito da Zeus. È stato incatenato a una roccia e un’aquila scendeva su di lui ogni giorno per squarciargli il petto e dilaniargli il fegato, che poi ricresceva durante la notte, in una catena di sofferenza infinita. Messi ha mostrato che il Pantheon del calcio poteva essere toccato, gli Dei del passato messi in discussione: non tutto era stato già visto. Messi però ogni anno viene punito in modi nuovi, il suo petto viene squarciato e la sua smorfia di dolore viene trasmessa in mondovisione. Chi gli strappa il petto può avere le sembianze di Thomas Müller, Kylian Mbappé o Karim Benzema. Il colpo può arrivare tutto assieme o può essere una lunga agonia di novanta minuti, poco cambia. La testa bassa, le mani sui fianchi, l’attesa del fischio dell’arbitro. Ora abbiamo tante istantanee di Messi che esulta nelle grandi vittorie in Champions League prima dei 30 anni, quante quelle di Messi dilaniato dalla cocente delusione nelle ultime quattro stagioni.
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Messi ha cambiato per sempre il modo in cui in cui viene percepita la prestazione individuale nel calcio. Guardavamo le sue statistiche avanzate per darci una misura tangibile della distanza che lo separava dagli altri, dai calciatori normali, anche dai migliori di loro. Ora pare schiacciato dai suoi stessi standard.
Un anno fa scrivevamo della frazione di secondo persa da Messi: sufficiente al cortocircuito tra il suo corpo e il suo cervello. Certe azioni prima le faceva in automatico, oggi non sono scontate. Soprattutto nelle grandi partite, quando la tensione è alta e la frustrazione per l’errore lo innervosisce. Diventa un Messi diverso, lontano dalla felicità pura che ha mostrato nei momenti migliori della sua carriera.
Oggi Messi pare soffrire emotivamente le grandi partite. Lui che ha sempre associato il calcio alla felicità, il campo al posto in cui è più felice. Forse è stata la responsabilità morale di dover tenere in piedi la nave Barcellona che affondava. Ogni anno, quando la squadra veniva presentato, Messi ripeteva l’esigenza di dover vincere la Champions League. Solo quella avrebbe rimesso il Barcellona nel posto che gli spetta, cancellando il ricordo delle recenti delusioni.
È incredibile da dire, per un calciatore di tale successo, ma le delusioni hanno forgiato la carriera di Messi. Il parallelo dei successi catalani e delle delusioni argentine l’ha perseguitato per anni e, per un paradosso affascinante, quando è finalmente riuscito a vincere con l’Argentina ha dovuto lasciare il Barcellona.
In Copa America Messi si è tolto l’etichetta di perdente. Non è che era il Barcellona a imbrigliare Messi nelle sue delusioni, a renderlo più catalano che argentino? Non era forse il Barcellona, col suo declino, ad avvolgerlo in una spirale di muffa e lacrime?
L’ultimo trofeo vinto, l’ultimo ricordo felice nelle ultime due stagioni è una Coppa del Re festeggiata quasi come una Champions League. L’ossessione per vincere la Champions lo ha portato a scegliere il PSG, quando è stato costretto ad allontanarsi dal Barcellona. Solo il PSG riuniva le condizioni fondamentali per rimanere in Europa e inseguire quel trofeo un’ultima volta invece che anticipare la pensione dorata a Miami, o quella sentimentale a Rosario.
A Parigi pagano benissimo, la famiglia vive bene, ci sono amici come Neymar, Di Maria e Verratti, dove gioca Mbappé, che sembra fatto apposta per essergli compagno d’attacco e dove la squadra non deve preoccuparsi di bilanciare i conti. Dove insomma può concentrarsi unicamente sulla sua ossessione: le partite in Champions League.
Aurelien Meunier - PSG/PSG via Getty Images
Il problema è che anche il PSG ha una storia da incubo col trofeo, un’ossessione per la coppa grande tanto quanto la sua. Come in algebra dove due meno fanno un più, così sembrava possibile far diventare positiva la storia recente negativa di Messi e del PSG in Champions League. La ciliegina sulla torta, il simbolo della vittoria definitiva del megaprogetto qatariota rispetto alla vecchia guardia del calcio europeo. Vincere la Champions a Parigi come ultimo lavoro per Messi, Neymar, Mbappé. Togliersi la spina da sotto pelle, e poi ognuno per la propria strada. Messi è un feticcio della dirigenza del PSG, la figurina che mancava per elevare il successo della pubblicità del Qatar ad un livello mai visto; il PSG per Messi è un mezzo buono per il suo fine.
Anche se già a Barcellona sembrava che il calcio avesse smesso di essere un gioco per Messi da diversi anni, con la maglia blaugrana per lo meno era ancora presente l’orgoglio, quello che a volte viene identificato come il peso della maglia di una squadra a cui teneva. Un fuoco dentro che non è solo retorica ed è anche il motivo per cui le delusioni erano così cocenti. Non perché attentano alla sua legacy nella storia del calcio, ma perché colpiscono e feriscono una squadra e un ambiente di cui si sente parte, con tanto di i figli e gli amici tifosi.
Questa dimensione, però, per forza di cose è assente a Parigi. Certo, non manca la professionalità, ma l’attaccamento emotivo è ciò che ti fa superare il limite, e credo sia per questo che sia così distaccato nelle partite di Ligue 1. Come se un pezzo si fosse staccato da lui dopo quella conferenza stampa con cui ha annunciato il suo addio al Barcellona. Improvvisamente Messi ha smesso di essere un giocatore parte di qualcosa più grande di lui e che conta su di lui anche in termini emotivi.
Il PSG ha bisogno solo del suo talento in campo, e il PSG è la squadra di Mbappé. Ora anche un Neymar declinante gioca per il fuoriclasse francese e questo inizialmente sembrava una situazione perfetta per Messi in questa fase della carriera. Tatticamente la squadra di Pochettino per sostenere anche Messi ha semplificato talmente tanto il suo gioco da avere uno schieramento sostanzialmente suddiviso tra giocatori che proteggono palla e poi verticalizzano, e giocatori verticali che provano ad attaccare la porta. Il PSG è una collezione di figurine che porta a inevitabili compromessi, dato che due dei tre davanti sono nella fase della carriera in cui fanno correre il pallone e devono contare gli scatti che possono spendere in partita.
Messi sembra il primo ad essersi reso conto che non può più avere quel livello di finalizzazione in area di rigore, concentrandosi nella creazione dell’azione - semplicemente il fisico non può sostenere entrambe le cose. Anche dalle statistiche sembra chiaro la scelta che ha preso: la scorsa stagione nella Liga ha chiuso con 190 tiri, in questa in Ligue 1 è ancora a 58, la scorsa stagione ha fatto 30 gol e 9 assist in Liga e in questa in Ligue 1 è arrivata la doppia cifra negli assist, ma solo 2 gol. Il suo raggio d’azione si è ristretto alla zona di rifinitura in modo evidente.
In questa stagione Messi parte nominalmente come attaccante destro del tridente, ma basta guardare una qualunque partita del PSG per vedere che a tutti gli effetti è un enganche, anche in questo il catalano è diventato argentino. Forse ora più che mai è tornato a sovrapporsi alla parabola in campo di Maradona, Messi a 34 anni è Maradona dell’ultimo scudetto a Napoli e poi di Italia ‘90. Quel giocatore che sa di non poter più sgusciare via a piacimento dai raddoppi avversari o sverniciare in conduzione il terzino, e che deve misurare le volte in cui prova le sortite offensive. Deve giocare molto di più sugli angoli con cui controlla il pallone e sui tempi di gioco con cui lo fa andare via, deve affidarsi molto di più ai movimenti dei compagni per attaccare l’area. Il calcio improvvisamente non va più lento delle gambe di Messi e questo lo rende più umano.
Contro il Real Madrid nella partita più importante della stagione è stato il giocatore dopo Verratti a tenere più palla di tutta la partita (dati Fbref) con 85 tocchi, il terzo dopo Neymar e Vinicius per conduzioni che hanno fatto avanzare il pallone con 10, il primo del PSG per dribbling tentati e riusciti (4 su 8, dati Sofascore). Ha tentato solo 3 tiri, nessuno finito nello specchio della porta. Almeno non ha sbagliato un rigore come all’andata, ma la difficoltà mostrata nel fare le cose ha reso la sua prestazione ancora più malinconica.
Ha fatto il giro dei social l’immagine dell’occasione da gol mancata sul finale del primo tempo, quando con un taglio in area dalla seconda linea perfetto nelle tempistiche si è liberato per ricevere il passaggio di Verratti fermo col pallone sul lato sinistro dell’area e con la traccia sgombra. Non è chiaro se Verratti non lo abbia visto o se ne ha semplicemente ignorato il movimento, fatto sta che il centrocampista italiano crossa invece sul secondo palo per la sponda di Hakimi su Mbappé che non riesce ad arrivare alla conclusione. La posizione di Verratti e il taglio di Messi ha ricordato le decine di gol che ha segnato l’argentino su assist di Jordi Alba. Verratti però non l’ha servito e si può vedere la frustrazione di Messi che urla a braccia aperte al compagno, che torna in difesa coprendosi il viso dal dispiacere.
Poco prima Messi era stato poco lucido nel raccogliere una bella sponda di Mbappé, provando a portarsi il pallone sul sinistro ma perdendo un tempo di gioco e permettendo a Militao di chiuderlo. Sono le ultime sue due azioni del primo tempo, che col senno di poi aprono una piccola finestra su quello che sarebbe accaduto nel secondo. Eppure i suoi primi 45 minuti possono essere definiti come di buon livello, non un “livello Messi” certo, ma propedeutici alla strategia del PSG, ovvero quella di controllare il gioco attraverso il controllo del pallone. Forse è questo il massimo a cui può aspirare oggi l’argentino: essere utile in una fase di controllo del pallone. Oramai si è specializzato in questo, e bravo nel farlo, lo è sempre stato. Messi trova con facilità gli spazi in cui ricevere per aiutare i centrocampisti a resistere alla pressione, offre quasi sempre una linea di passaggio pulita, con la sua tecnica può controllare e far progredire il gioco anche in spazi stretti. Quando riesce prova la verticalizzazione, anche in questa partita ce ne sono un paio al bacio per Mbappé, ogni tanto può anche partire palla al piede in conduzione. È tutto quello che il PSG può avere da lui e forse per un altro giocatore sarebbe abbastanza. Se i francesi non avessero subito quella pesante rimonta forse avremmo descritto la sua partita come “matura”, non ottima, ma piena di piccole cose utili, in una squadra che per la maggior parte del doppio confronto è sembrata la più forte, certamente la più tecnica.
Però c’è stato anche il secondo tempo. Messi è stato tra i primi a sparire, a un certo punto Modric gli ha sradicato un pallone in campo aperto lungo la linea laterale in cui sembrava il tempo si fosse fermato solo per il croato. Dopo sono arrivati i tre gol di Benzema e il PSG si è sciolto. I giocatori più importanti sono scomparsi. Era questo il momento in cui Messi doveva prendersi le sue responsabilità? Se così fosse, non lo ha fatto. L’abbiamo rivisto solo per calciare una punizione appena sopra la traversa nei minuti di recupero. Quando il Barcellona aveva subito la rimonta ad Anfield contro il Liverpool, invece, Messi aveva provato a caricarsi la squadra sulle spalle, cercando la via del gol in tutti i modi, personali o servendo assist ai compagni.
Vederlo incapace di reagire anche in un momento così, in quella che sembra la sua ultima occasione per togliersi la scimmia della Champions League, è stato tragico. Il finale della sua carriera storica verrà marchiato da queste rimonte? Dopo Madrid sembra impossibile per Messi (e il PSG) invertire la rotta, diventare una squadra che domina l’Europa prima di tutto con la testa. Per Messi vincere il campionato non porta nulla, solo quello che fa in Champions (o con la Nazionale) serve a giudicarlo. La scelta di andare al PSG da questo punto di vista potrebbe essere un fallimento, il segno di un declino non solo fisico ma anche nelle scelte di carriera, che per un calciatore del suo livello sono ugualmente importanti.
Prometeo è stato liberato dalla sua sofferenza dall’arrivo di Ercole, che uccide l’aquila e lo libera dalle catene. E per quanto per 150 minuti è sembrato che Mbappé potesse da solo liberare anche Messi dal suo destino, neanche lui ci è riuscito. Al contrario di Prometeo Messi, però, può scegliere di smettere il tormento, soprattutto visto che in fondo nulla lo lega alla sorte del PSG se non la comune ossessione per la coppa. A differenza della società francese lui quella coppa l’ha già vinta, perché continuare ad inseguirla? Questa ossessione sta tingendo il suo finale di una sfumatura fosca, ci sta togliendo il piacere di Messi, un calciatore nato per divertirsi e divertirci. E allora forse non sarebbe meglio accettare che questa Champions League può anche non essere vinta? Che la serenità è più importante? Se Messi sta meglio in Argentina, soprattutto dopo aver vinto la Copa America, un’altra ossessione, dovrebbe tornare dove è più felice. Chiudere la carriera lì, giocando felice, tanto uno trofeo in più o uno in meno non cambieranno davvero la nostra percezione di Messi, uno dei calciatori più meravigliosi della storia di questo gioco.