Una delle più classiche fallacie, tradizionalmente, è quella di assumere un gol a metonimia di un calciatore: una polaroid in movimento non può riassumere un tutto compiuto. Se è vero che siamo più o meno sempre ciò che facciamo, che le nostre azioni ci qualificano, ci sono pure moments of being che scavano più in profondità, ci danno coscienza della nostra essenza primigenia. Il gol che Walter Junior Messias ha segnato contro il Parma, per esempio, è una specie di “Talismano della felicità” di Ada Boni: codifica in maniera semplice e diretta la ricetta di un giocatore di culto.
Nello stop a mezz’aria sul lancio di Molina, nella maniera in cui addomestica il pallone con il petto, nella fluidità del movimento con cui si prepara alla conclusione, peraltro con il suo piede debole, il destro, uno, due, tre passi, tac, c’è la tutto quello che ne fa uno dei calciatori più divertenti della nostra Serie A. Ma è nella pennellata che disegna subito dopo - un arcobaleno sotto il quale ti viene voglia di precipitarti per vedere se casomai trovi la pentola con le monete d’oro - che si nasconde la meraviglia, quel tipo di rilassato stupore che si prova di fronte a un campo di girasoli, a una spiaggia deserta al tramonto dopo quattro ore di viaggio.
C’è un verso di una canzone di Rino Gaetano, che si chiama “Per esempio a me piace il Sud”, in cui - tra le cose amabili - viene citato «camminare con quel contadino, che magari fa la mia stessa strada, parlare dell’uva, parlare del vino, che ancora è un lusso per lui che lo fa». Ecco: nel secondo gol di serata del 30 del Crotone (il primo è arrivato con una mezza girata in area, dopo un controllo di sinistro che per me è il 75% del gol), c’è tutta l’empatia che possiamo provare per un ragazzo umile, eppure talentuoso, per il quale il calcio è al contempo un lusso e un’arte antica.
Anche la linguaccia dell’esultanza, più che un’idea di irriverenza, sembra suggerire un certo imbarazzo genuino: Messias Junior, in fondo, è anche un nome che finisce per rimandare a un’idea di figlio di un dio minore,
C’è una foto, scattata a metà degli anni Dieci, sulla pista d’atletica di un campo dal prato assai curato, tribune in legno, una cornice di cipressi. Al centro della scena ci sono dei calciatori, indossano un completo gialloverde che ricorda quello della Amarelha; in una propaggine esterna, con un trofeo tra le mani, i calzettoni abbassati, c’è un ragazzo con lo sguardo distratto, e una bandiera brasiliana legata al collo.
Se non conoscessimo la sua storia, se non ci soffermassimo su tutti i dettagli di quella foto, potremmo immaginare che si tratta dei festeggiamenti che seguono il successo di una Seleçao parallela, che da qualche parte, in uno dei multiverso, ha in Messias il suo trascinatore. La proiezione scintillante dei suoi sogni. Invece quella non è la Seleçao, ma lo Sport Warique, un gruppo di amatori composto perlopiù da immigrati peruviani, che milita nel campionato Uisp piemontese e che però, stavolta sì, ha in quel giovane brasiliano dal nome profetico, più che un leader, un marziano fuori contesto, troppo fuori dimensione. Così fuori dimensione che nel giro di 5 anni (per quanto non proprio senza difficoltà) sarebbe approdato in Serie A, e avrebbe segnato uno dei gol più belli della stagione, a qualche giorno da Natale.
Messias è arrivato in Italia nel 2011, a vent’anni. Nato a São Cândido, una striscia di case sugli altipiani del Minas Gerais, a metà strada tra Belo Horizonte e l’Oceano Atlantico, ha coltivato il sogno di diventare calciatore professionista in una delle squadre storiche del Brasile, il Cruzeiro. Che l’Italia fosse nel suo destino può essere una curiosa coincidenza, o anche semplicemente un calembour: il Cruzeiro, dopotutto, è stato fondato proprio da coloni italiani negli anni ‘10 come estensione belo-horizontina del Palestra Italia paulista. E il nome attuale, che designa la costellazione della Croce del Sud, è in realtà un’affermazione anti-italianista: la Cruz del Sur si può vedere soltanto nell’emisfero australe, e quindi non in Italia, paese che negli anni ‘40, quelli del rebranding, erano rivali del Brasile schieratosi al fianco degli Alleati nella Seconda Guerra Mondiale.
Messias era bravo, ma evidentemente non così bravo da riuscire a mettersi in mostra. O forse è solo stato sfortunato, o forse ancora è così che doveva andare la sua storia, affinché potesse essere più incredibile. Anziché continuare a giocare nell’Ideal, squadra della terza serie dello stato di Minas Gerais, decide di provare il tutto per tutto, raggiungere il fratello in Italia, a Torino, provarci, una volta sul posto. È un pensiero ingenuo, come naif è il suo modo di giocare, baciato dal talento, impresso nei filamenti di corredo genetico. Messias è funambolico, estroso, divertente: tratti che ha saputo conservare fino a oggi, ma che contestualizzati nelle partite dello Sport Warique devono essere sembrati fenomenali. Non riesco a immaginare quale espressione potesse strappare su quei campi, inventandosi una magia tipo questa inscenata la stagione scorsa, la sua prima al Crotone, contro il Pisa, se non quella di stupore. Quell’attonimento che ti sveglia i sensi di colpa per la brutalità con cui sei costretto a soffocarlo.
Oscar Arturo Vargas ha un’azienda di autotrasporti. È peruviano, è uno dei dirigenti dello Sport Warique e propone a questo giovane ambizioso e un po’ disorientato, appena arrivato dal Brasile, un posto come fattorino, oltre che una maglia con la sua squadra.
Mi chiedo se almeno lui ci credesse, un po’, all’ascesa di Messias, o se gli bastasse poter vantare quel fenomeno. Non sono molti, i calciatori professionisti che riescono a emergere dai bassifondi dei tornei amatoriali: Messias è una scheggia impazzita. Come racconta Olivier Guez nel suo Elogio della finta è nato come sublimazione di un sentimento conservativo, prima che come provocazione: la finta è una maniera di rivendicare la propria natura. Guardatelo in quest’azione del campionato di B dell’anno scorso, a Livorno:
Si vede lontano un miglio che Messias non è una foca ammaestrata, non cerca mai il colpo a sensazione, non gioca per strappare l’ammirazione del pubblico: la maniera in cui danza tra gli avversari è non solo funzionale alla progressione del gioco, ma soprattutto sincera. Si vede che in quello slalom, in quell’accarezzare la palla e assecondarla con i movimenti del corpo, Junior si libra.
Quando Ezio Rossi, ex calciatore del Torino anni ‘80, che nel tempo libero si mette a disposizione per allenare una squadra di rifugiati politici che milita nello stesso torneo dello Sport Warique, lo nota, ne rimane estasiato. Lo segnala al Fossano, che propone a Messias uno stipendio bassissimo: Junior ha un figlio piccolo, una famiglia da mantenere, a Rossi dice «ho mangiato riso e sassi pur di giocare a pallone, ma ora devo pensare a loro».
Se i film di Natale ci hanno insegnato qualcosa è che a un certo punto sopraggiunge sempre il twist che inclina il piano, e comincia a far sì che ogni stortura della vita dei personaggi si trasformi in lieto fine. Ezio Rossi viene ingaggiato dal Casale, e se state leggendo questo articolo in questo periodo dell’anno vi risulterà chiaro, chi sia stato il primo calciatore che ha voluto tra i nerostellati. Non vorrei che questa mia conclusione potesse apparire semplicistica, ma se Messias - oggi - dà l’impressione di essere tecnicamente sopra una spanna dei compagni del Crotone in Serie A, chissà che effetto doveva fare scendere in campo con il Casale e segnare gol tipo questo.
A fine stagione, dopo aver segnato 14 gol, e aver ottenuto la promozione in Serie D, Messias si trasferisce al Chieri, con il quale vincerà la Coppa Italia di categoria. È evidente - ma è davvero evidente, a ventisei anni? - che sia destinato a fare il salto, da un momento all’altro. E infatti arriva la chiamata della Pro Vercelli, che all’epoca milita in B e schiera Rolando Bianchi o Vives. Per Junior sembra finalmente arrivato il plot twist, la consacrazione, se non fosse che il trasferimento si blocca per un cavillo legale: le società professionistiche di B, infatti, non possono tesserare giocatori extracomunitari che provengono dalle serie minori. Il suo sogno sfuma, comincia a credere che davvero non riuscirà mai a farcela. Tra le tante mete possibili sceglie il Gozzano, società ambiziosa che punta alla promozione in Lega Pro: Messias ha già deciso che sarà questo, il grimaldello con il quale ottenere il cartellino da professionista.
Chissà che non ci sia una correlazione - mi piacerebbe ci fosse - tra la sua centralità nel gioco offensivo del Crotone, tanto nella stagione scorsa quanto in questa, tra la sua presenza soverchiante, e il desiderio di esserci, di affermarsi. Oggi Messias tira quasi tre volte a partita: è l’uomo, tra i pitagorici, che ci prova di più, anche più di Simy. Prova a trovare il gol con la stessa cocciuta testardaggine con cui ha lastricato il sentiero della sua carriera. Forse per l’avanzamento del suo ruolo in campo - Stroppa lo sposta spesso dall’esterno del campo al centro, dove gli chiede di supportare da seconda punta il centravanti nigeriano -, forse, ancora più semplicemente per un istinto, anche egoista, per fame, Messias tira. E a volte segna: al termine di cavalcate picaresche occhi negli occhi col difensore; dopo averli scherzati, serissimo; calciando punizioni deliziose. Ma anche e soprattutto portando a compimento, sublimando quella che sembra essere la caratteristica più distintiva del suo gioco, e cioè strappi, strappi continui, accelerazioni, a volte brutali e aggressive, allunghi micidiali accompagnati da un tocco di palla sempre educato, rispettoso, e allo stesso tempo elegante e altero come un broccato.
E poi c’è l’eterno ritorno della finta, del movimento fulmineo che scoperchia gerarchie, che elude controlli. Che illude ed entusiasma, che umilia e intrattiene, che porta il pubblico sugli spalti - ammesso che ci sarà ancora un pubblico sugli spalti - ad alzarsi in piedi, a trattenere il respiro, a galvanizzarsi per un tocco di tacco di prima, per una finta di corpo, per un pallonetto che produce il suono dei treni quando entrano in galleria.
Ogni volta che Messias ingaggia un duello 1 contro 1 (e ci prova, in media, 4 volte e mezzo ogni novanta minuti, riuscendoci almeno la metà) sta in realtà ingaggiando una sfida non solo all’avversario, o multipli di, ma soprattutto a se stesso, alla percezione che abbiamo di Messias, al senso comune secondo il quale un giocatore, a ventinove anni, non può più sbocciare, perché è ormai troppo tardi.
Messias Junior è la smentita, e al tempo stesso la conferma, a tutta una serie di cliché: è un manifesto alla perseveranza e la personificazione di un genius loci futeboleiro. È una storia di sacrifici e privazioni, ma anche di successo.
È uno dei calciatori più divertenti da osservare, nella nostra Serie A, oltre che la calcificazione di un grumo di fattori che ti portano a volergli bene incondizionatamente. Soprattutto perché si porta dietro un insegnamento in fin dei conti fondamentale: essere sempre se stessi, con umiltà e coerenza, al di là degli obiettivi che ci siamo prefissati, porterà sempre a raggiungere il fine più importante, e cioè imparare a rimanere se stessi. Per rimanere, tanto sui campi del campionato Uisp quanto in A, con uno squalo sul petto, riconoscibili, inconfondibili.