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L'Olimpiade dei record e delle rivoluzioni
01 nov 2018
01 nov 2018
Storie da un'Olimpiade storica, ancora a 50 anni di distanza.
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Furono le Olimpiadi più “alte”, a 2.250 metri di altitudine. Furono quelle con più record storici. Furono i Giochi delle rivoluzioni, con il trionfo di Dick Fosbury nel suo strano salto in alto e degli atleti africani nel mezzofondo. Ci fu il primo squalificato per doping nella storia olimpica, il pentatleta svedese Hans-Gunnar Lijenwall, per tasso alcolemico troppo alto. Furono i Giochi più sanguinosi e più politicizzati.

Le Olimpiadi di Città del Messico 1968, le più famose e discusse della storia, hanno compiuto cinquant’anni. Mezzo secolo restano il simbolo di tutto ciò che significano i cinque cerchi, non solo sul piano sportivo ma soprattutto su quello sociale e politico. Anche per il contesto in cui capitarono: il Maggio francese, l’omicidio di Martin Luther King, la Primavera di Praga, la guerra del Vietnam. Impossibile ricordare tutti gli avvenimenti e i protagonisti che si susseguirono tra il 12 e il 27 ottobre 1968. Ma alcuni fatti hanno avuto un’importanza particolare, soprattutto in prospettiva storica. Due di questi, la finale del salto triplo e il salto nel Ventunesimo secolo di Bob Beamon, hanno già trovato spazio nei giorni scorsi. Eccone alcuni altri.

Il massacro di Tlatelolco

«Non avevo mai visto niente di simile. Dicono di non aver visto niente di simile anche colleghi che hanno fatto il Vietnam. È vero che gli studenti hanno sparato, e forse per primi, ma le forze dell’ordine hanno fatto il tiro a segno su una folla di diecimila persone». Così scrive Paolo Bugialli, inviato del Corriere della Sera, sulla prima pagina dell’edizione del 4 ottobre 1968. Da poche ore i proiettili hanno smesso di vagare per le strade di Città del Messico. Il conto delle vittime degli scontri iniziati il 2 ottobre in Piazza delle tre culture è devastante: 26 i morti accertati mentre il giornale va in stampa, ma in realtà sono oltre 300. Gli arrestati sono più di mille, i colpi sparati almeno 25.000.

Nel disinteresse del Cio, il Comitato olimpico internazionale, il cui presidente Avery Brundage si limita ad assicurare che le Olimpiadi, «una vera oasi in un mondo tormentato», si svolgeranno regolarmente. Il massacro di Tlatelolco, dal nome del quartiere popolare in cui si trova Piazza delle tre culture, è il punto di arrivo del Sessantotto messicano. A una manifestazione di studenti in piazza, per contestare il clima repressivo che ha portato anche all’occupazione militare dell’Università statale Unam, l’esercito messicano risponde soffocando nel sangue il movimento studentesco.

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I titoli di coda della ribellione degli studenti sono i cadaveri portati via dalle camionette della polizia, dopo il massacro portato avanti da cecchini e baionette. Tra i feriti c’è la giornalista italiana Oriana Fallaci: «Sono stata alla guerra del Vietnam – racconta a Bugialli – e non ho mai visto niente di simile a quello che ho visto oggi. Ecco, per trovare un paragone con quello che è successo in piazza delle Tre Culture bisogna forse risalire alla strage compiuta dai tedeschi a Sant’Anna, in Versilia». La sera stessa del massacro Eddy Ottoz, che poi vincerà il bronzo olimpico sui 110 ostacoli, si presenta in piazza con una macchina fotografica insieme a Mario Pescante, che qualche decennio dopo diventerà presidente del Coni.

Quello che vede lo racconta a Emanuela Audisio, sull’edizione del Venerdì del 31 agosto di quest’anno: «Quando arriviamo lì, qualche ora dopo la tragedia, ci sono ancora gli elicotteri che ronzano, ci fermano, ci perquisiscono, mi prendono la macchina fotografica, che mi ridaranno, ma senza rullino. Il massacro non toccò il Villaggio, eravamo troppo distanti, spiritualmente chiusi nel nostro egoismo da atleti». Il 12 ottobre il presidente messicano Gustavo Diaz Ordaz inaugura i Giochi in uno stadio blindato. In un corridoio dell’edificio occupato dagli atleti italiani, poche ore prima lo stesso Ottoz ha affisso un ordine del giorno: «I signori capigruppo sono pregati di rendere noti i nomi dei partecipanti alla sfilata inaugurale. Insieme ai nomi, sono richieste le misure (altezza e torace) per l’ordinazione dei pigiamini di legno. Gli atleti nello stadio sono pregati di non unirsi agli studenti attentatori alla vita del presidente Diaz Ordaz: sono individui molto cattivi».

Il meno 10 di Jim Hines

L’atletica leggera occupa la prima settimana di programma. E sono scintille: i 2.250 metri di altitudine di Città del Messico permettono agli atleti di fare cose mai vite prima, soprattutto nelle gare di velocità e nei salti. Lo show inizia con i 100 metri che si disputano il 14 ottobre 1968. Il favorito è l’americano Jim Hines, già primatista del mondo, in grado di correre 9’’9 a giugno: è stato il primo in grado di fermare il cronometro in un tempo inferiore ai 10 secondi, ma solo col cronometraggio manuale. L’equivalente elettrico di quella prestazione è 10’’03. Il muro però è vicino. Durante i quarti di finale, il primato olimpico viene migliorato due volte: prima dal cubano Hermes Ramirez, poi dall’americano Charles Greene, il rivale più accreditato di Hines, che scende a 10’’02. In semifinale si scatena Hines, che regola tutti con un 10’’08. Ma più del tempo, fa impressione la lista degli otto finalisti: per la prima volta hanno tutti la pelle nera. Oltre a Hines e Greene hanno strappato il pass il giamaicano Lennox Miller, il cubano Pablo Montes, il malgascio Jean-Louis Ravelomanantsoa, il francese Roger Bambuck, il canadese Harry Jerome e lo statunitense Melvin Pender.

La finale sembra è una questione tra Hines e Greene, rispettivamente in corsia 3 e corsia 1. Sono loro due a darsi battaglia, fin dal primo metro, insieme al piccolo Mel Pender, il più veloce a rialzarsi dai blocchi. Hines la spunta a 30 metri dalla fine, quando Greene, colpito da un crampo, è costretto a rallentare: arriverà terzo, con il giamaicano Lennox Miller a inserirsi tra i due statunitensi. Il tabellone luminoso segna 9’’9, il cronometraggio elettrico dice 9’’89 ma poi viene corretto a 9’’95. È la prima volta che un cronometraggio elettrico, più penalizzante di quello manuale, segna un meno 10. Il record riesce ad attraversare imbattuto tutti gli anni Settanta e ad arrivare al 1983, quando l’americano Calvin Smith lo ritoccherà di due centesimi. Sul podio, né Hines né Greene inscenano dimostrazioni di qualche genere: nessuno di loro due è tra gli atleti di punta dell’Olympic Project for Human Rights, l’organizzazione che, nei mesi precedenti, è arrivata vicinissima al boicottaggio delle Olimpiadi di Città del Messico. Dopo il bis nella 4x100, il giovane velocista abbandona l’atletica e tenta la carriera del football americano. Ma non riesce mai a disputare una partita tra i professionisti.

La finale dei 100 metri di Città del Messico.

Il podio dei 200 metri

«Mi sconvolge che l’immagine sia sempre lì sui libri di storia con la didascalia sotto, ma non si racconti mai la storia». Lo scrive John Carlos, in una delle sue due autobiografie, sul gesto più famoso mai fotografato nei dintorni di un evento sportivo. John Carlos, insieme a Tommie Smith, è uno dei due uomini fotografati con i pugni guantati di nero alzati il 16 ottobre 1968 a Città del Messico. Sulla vicenda di Tommie Smith, Peter Norman e John Carlos c’è una letteratura sterminata. Tra le tante opere vale la pena ricordarne due.

Una è il libro di Lorenzo Iervolino, Trentacinque secondi ancora, che ha il merito, oltre che di ripercorrere gli eventi storici, anche di restituire il lato umano di Smith e Carlos, di inquadrare correttamente il gesto di solidarietà di Norman e di spiegare cosa volesse dire, in tempi di guerra del Vietnam e di Ku Klux Klan, prendere posizione per i diritti dei neri. L’altra è The Revolt of the black athlete di Harry Edwards, del 1969. Si trova facilmente online e ripercorre il biennio 1967-68, con un punto di osservazione particolare: l’autore è il professore di Sociologia co-fondatore e principale animatore dell’Olympic Project for Human Rights, il movimento contro la segregazione razziale nato nell’ottobre 1967. Un movimento che per mesi radunò intorno a sé oltre 200 atleti neri americani, portandoli a un passo dal boicottaggio olimpico.

La segregazione razziale, negli Usa degli anni Sessanta, non è in discussione. I neri accedono alle Università solo se eccellono negli sport. Possono partecipare solo ad alcuni corsi e vengono relegati ai margini della vita universitaria: le “stanze” a loro dedicate spesso sono garage, l’accesso alle fraternities e sororities è permesso ai soli bianchi, molti locali non servono da bere ai neri. Si ritiene che gli studenti afroamericani debbano pensare solo allo sport e in questo, sottolinea Edwards nel suo libro, sono analoghi ad animali o macchine: considerati esclusivamente per il valore economico che possono produrre.

Edwards sa bene di che cosa parla, perché anche lui è entrato in università per meriti sportivi, ha vissuto in un garage, ha dovuto farsi firmare un tesserino ogni settimana per partecipare alle lezioni di Sociologia, è diventato professore dopo essere stato il primo nero laureato in corso della San Josè State University. Nel 1967 ha 25 anni e fra i suoi allievi c’è Tommie Smith, 23 anni, il più grande talento della velocità dai tempi di Jesse Owens (e probabilmente il più grande fino almeno a Carl Lewis). Nell’autunno di quell’anno li raggiunge il ventiduenne John Carlos, che ha abbandonato il Texas perché non ne può più del razzismo dilagante.

Smith e Carlos non potrebbero essere più diversi. Tommie Smith, detto Jet, è nato in Texas, settimo di dodici fratelli (contando solo quelli sopravvissuti alla tenera età), in una famiglia di mezzadri che raccolgono il cotone. È cresciuto in una casa senza luce, bagno e pavimenti. Quando aveva sette anni tutta la famiglia si è trasferita, con un viaggio della speranza, in California, in un campo da lavoro in cui è rimasta per anni in condizioni misere per ripagare i debiti del viaggio. Si è fatto largo grazie alla sua straordinaria velocità, frutto di un dono naturale per il gesto tecnico della corsa. Ma all’università ha scoperto anche la passione per lo studio e il desiderio di insegnare. Stringe amicizia con Edwards mentre si consacra come lo sprinter più talentuoso degli Stati Uniti, una macchina da primati mondiali continui, tra 200, 400 e distanze spurie. A fine estate 1967 è a Tokyo per le Universiadi. Un cronista giapponese gli chiede se è vero che gli afroamericani potrebbero boicottare i Giochi di Città del Messico. «Sì, è vero – risponde Smith -. Alcuni atleti neri stanno discutendo la possibilità di boicottare i Giochi, per protestare contro l’ingiustizia razziale in America». Da lì, Smith inizierà a ricevere valanghe di minacce di morte.

Poco dopo arriva alla San Josè anche John Carlos. Che a differenza di Smith è cresciuto in città, ad Harlem. E a differenza di Smith non ama lo studio, non è introverso e non è nato per correre. Il suo amore sarebbe il nuoto, che però è di fatto chiuso ai neri. Il secondo tentativo lo ha fatto con la boxe. L’atletica con ogni probabilità l’ha salvato dalla galera. Carlos ha passato infanzia e adolescenza a derubare i treni in corsa, a farsi chiamare “Robin Hood” dai suoi vicini di casa e a ribellarsi all’ordine costituito. Ha un’adorazione per Malcolm X, con cui ha spesso conversato per le strade di New York. Ha frequentato l’università in Texas per meriti sportivi, ma l’ha abbandonata perché disgustato dal razzismo. E ha scelto San Josè perché conosce la fama di Bud Winter, il coach della squadra di velocità, di Tommie Smith e di Harry Edwards.

Smith e Carlos diventano le figure di punta del movimento per il boicottaggio, che porta avanti sei rivendicazioni: la riabilitazione di Muhammad Ali, a cui erano stati revocati titolo mondiale e licenza per il rifiuto di andare in Vietnam al grido di «Nessun Vietcong mi ha mai chiamato negro», la rimozione dalla presidenza del Cio di Avery Brundage, l’esclusione di Sudafrica e Rhodesia dai Giochi del 1968, l’assunzione di allenatori neri nella squadra olimpica, l’inclusione di due persone nere tra i responsabili politici, la desegregazione del New York Athletic Club, una polisportiva tra le più importanti negli Usa che nega l’accesso a neri ed ebrei. Nel corso dei mesi si susseguono i boicottaggi di eventi sportivi e i dialoghi con gli studenti messicani e gli atleti africani. Fino all’omicidio di Martin Luther King, che toglie forza al partito del boicottaggio.

Brundage, per fugare ogni rischio, accetta di rinnovare l’esclusione di Sudafrica e Rhodesia, nonostante sia solidamente dell’idea che sport e politica non debbano mischiarsi. Da presidente del Comitato olimpico Usa, nel 1936, ha fatto sostituire due atleti ebrei americani nella staffetta 4x100 per non fare uno sgarbo alla Germania nazista. Brundage è anche il proprietario del Montecito Country Club di Santa Barbara, che ammette gli ebrei solo in una certa quota e non dà spazio a delegazioni all’interno delle quali siano presenti neri. Viene difeso apertamente da Jesse Owens, l’atleta dei quattro ori di Berlino in faccia a Hitler. E lo stesso Owens, che si è sempre dichiarato contrario al boicottaggio, viene scelto come accompagnatore della nazionale. Un’operazione di facciata, usando un atleta che, ai tempi, fu discriminato più da Franklin Delano Roosevelt che da Hitler e fu squalificato a vita per aver rifiutato di correre una gara. Proprio per protesta contro Brundage nella squadra di basket Usa manca l’asso Lew Alcindor, più tardi noto come Kareem Abdul-Jabbar.

La sequenza dei 200 metri è fenomenale. Il primato mondiale, prima delle batterie, è in mano a Tommie Smith, che ha un 20’’0 risalente al 1966.

Ma ai Trials John Carlos ha già corso in 19’’7, un tempo non omologato perché ha usato un tipo di scarpe in quel periodo non regolari. Carlos e Smith vincono agevolmente le prime batteria, Smith fa segnare il record olimpico in 20’’37. Nella sesta serie un australiano, Peter Norman, ferma il cronometro in 20’’23, battendo il primato appena stabilito da Smith. Carlos, Norman e Smith vincono agevolmente i quarti di finale e Smith eguaglia (col cronometraggio manuale) il record olimpico stabilito poche ore prima da Norman. In semifinale, invece, è Carlos ad abbassare ancora il record, stoppando il cronometro in 20’’12. Norman, che è nella sua serie, si impegna a fondo per finire nel suo raggio visivo e instillargli qualche dubbio. Sa di non essere il più forte e che Smith è irraggiungibile. Ma sa anche che le condizioni di Smith sono precarie, mentre Carlos cala alla distanza. Norman, al contrario, esplode in rettilineo. Gioca ad irritare gli avversari, fino agli ultimi istanti prima della partenza della finale. È in sesta corsia, Smith e Carlos sono in terza e quarta. Quindi non li vedrà fino a quando non lo supereranno.

Non ci mettono molto. Carlos parte come una furia, si rialza in prima posizione e si scrolla di dosso il gruppo in una manciata di passi. Esce dalla curva in testa. In scia è rimasto solo Smith, che però dall’inizio del rettilineo comincia a recuperarlo inesorabilmente. Il sorpasso arriva negli ultimi sessanta metri: Tommie Jet dà fondo alla forma precaria e chiude a braccia alzate. Ferma il cronometro sul 19’’83, distruggendo il proprio record del mondo. E quel primato resta in mano sua per undici anni, fino al trionfo di Pietro Mennea. Dietro di lui Carlos non riesce a mantenere la velocità. E Peter Norman, che aveva imboccato il rettilineo in settima posizione, completa una rimonta pazzesca superandolo nel finale. Il cronometro, per lui, dice 20’’06: a mezzo secolo di distanza, è ancora il record oceanico. Carlos chiude terzo.

La premiazione è storia più o meno nota. Smith e Carlos hanno solo un guanto a testa perché John ha lasciato in albergo i suoi. I guanti servono, secondo alcune interpretazioni, a non toccare le mani di Brundage, che dovrebbe premiarli. Ma Brundage non c’è, perché ha fiutato l’aria. Smith si appunta la spilletta dell’Olympic Project for Human Rights, che Carlos ha tenuto addosso per tutte le serie di gara. Avvertono Peter Norman e l’australiano, nato anche lui in una famiglia umile e impegnato nella difesa dei diritti degli aborigeni, decide di manifestare il suo sostegno. Gli recuperano una spilletta dal canottiere Paul Hoffman, uno dei bianchi che solidarizzano con la causa degli atleti neri. Ed entrano nello stadio. Smith e Carlos sono scalzi. Tommie indossa una sciarpa nera, porta un ramoscello d’ulivo in una teca e al collo ha una sciarpa. John ha una collana con di sassolini. Il braccio destro di Smith rappresenta la forza del popolo nero, quello sinistro di Carlos la sua unità: insieme formano un arco. Ma le simbologie sono infinite: i piedi scalzi per protestare contro la povertà, la collana di Carlos che per i neri linciati e così via.

Smith, Carlos e Norman si congedano dalle Olimpiadi così. Ai due americani, che vengono espulsi dal villaggio olimpico, i decenni successivi riserveranno povertà e minacce di morte. Alcuni loro cari moriranno, provati anche dallo stress. Carlos continua a gareggiare nel 1969, ottenendo risultati eccellenti, prima di passare al football ed essere messo ko da un infortunio. Per molti anni vengono pedinati dall’Fbi, stentano a trovare lavoro. A Norman non va meglio: continua a strappare ottimi tempi, ma piuttosto che portarlo alle Olimpiadi di Monaco 1972 l’Australia decide di fare a meno della squadra di velocità. Viene emarginato, escluso persino dall’organizzazione di Sydney 2000.

I tre, che sono sempre rimasti in contatto, si ritrovano nell’ottobre 2005. Smith e Carlos sono stati riabilitati e nella San Jose State University gli studenti sono riusciti a far erigere una statua per ricordare il loro gesto. Il giorno dell’inaugurazione, con loro, c’è anche Peter Norman. Non ha soldi per permettersi il viaggio, ma una colletta gli ha permesso di essere lì. Sul podio il secondo gradino è vuoto. Dove dovrebbero trovarsi i suoi piedi c’è una targa, che invita i visitatori a prendere il suo posto: quel gradino è per i Peter Norman che verranno. Il podio di Città del Messico si riunisce per l’ultima volta nell’autunno del 2006. Ma stavolta si tratta dei funerali di Norman. Carlos e Smith sono i primi a uscire dalla chiesa, con la bara dell’amico sulle spalle.

La finale dei 200 metri di Città del Messico.

L’Olimpiade di Lee Evans

Lee Evans, 21 anni, è amico e rivale di Tommie Smith e John Carlos, ma soprattutto del primo. Fa parte dell’Olympic Project for Human Rights come i due compagni della San José University. Come loro è un ottimo duecentista (con un personale di 20’’4), ma dà il meglio sui 400 metri. Anche Smith eccelle sul giro della morte, tanto da essere uno dei pochi a poter dire di aver battuto Evans: nel 1967, quando si sono incontrati sulla pista di casa, Smith ha chiuso in 44’’5, migliorando il primato mondiale di quattro decimi. Poi però ha deciso di concentrarsi sui 200 ed Evans ha avuto campo libero sulla distanza doppia. Alle Olimpiadi Evans ci è arrivato con le stesse idee di Smith e Carlos: è stato uno dei massimi sostenitori del boicottaggio e anche lui ha ricevuto la sua dose di lettere minatorie.

Quando scende in pista per la finale, il 18 ottobre 1968, è da poco stata ufficializzata l’espulsione di Smith e Carlos dal villaggio olimpico. Lee Evans corre in sesta corsia, mentre il suo rivale più pericoloso, Larry James, 21 anni come lui, è in seconda. Polverizza il cronometro: 10’’4 il primo 100, 21’’1 a metà gara, 32’’2 ai 300 metri. Sull’ultimo rettilineo, davanti a lui sbuca James. Il testa a testa, drammatico, si risolve con Evans che, proprio nel finale, riesce a guadagnare un metro. Il tempo è clamoroso: 43’’86, arrotondato a 43’’8, un miglioramento di tre decimi rispetto al vecchio primato mondiale. Evans è il primo uomo a scendere sotto i 44’’, James il secondo (43’’97). Quel tempo è destinato a durare vent’anni, fino a quanto Butch Reynolds, nel 1988 a Zurigo, riuscirà a chiudere con uno stratosferico 43’’29.

Sul podio Evans ha puntati addosso gli occhi di tutti. Molti scommettono che seguirà l’esempio dei due colleghi con cui ha condiviso gli allenamenti, le gare, il tentativo di boicottaggio e le minacce. Ma non va così. Evans decide di non inscenare nessun tipo di protesta, per tutta la durata della premiazione. In The revolt of the black athlete, Harry Edwards parla così della sua decisione: «Evans aveva deluso la sua gente. Molti ritenevano che stesse solo aspettando il suo secondo giro sul podio, dopo la staffetta 4x400. Evans ovviamente sentiva la pressione sotto cui si trovava. Alla fine si decise a non seguire l’esempio di Smith e Carlos». Edwards è molto critico sulla sua scelta. Riporta che pure la moglie, in vista della staffetta, lo avrebbe incitato a rifarsi.

Il 20 ottobre, l’ultimo giorno delle gare di atletica, Evans vince la 4x400 insieme a James, Vincent Matthews e Ron Freeman, con un altro stratosferico record del mondo: 2’56’’1, destinato anche questo a durare decenni. I quattro salgono sul podio indossando baschi e guanti neri. Ma il tutto scompare, quando parte l’inno. «Tra il desiderio di capitalizzare le sue vittorie olimpiche e il bisogno di mantenere il rispetto di sua moglie e dei neri a casa – scrive ancora Edwards – Evans tentò di fare l’impossibile». E cioè di farsi benvolere da entrambe le parti della barricata. Obiettivo fallito, secondo Edwards: «Poiché questa è una lotta per la sopravvivenza dei neri in cui non c’è una via di mezzo, fallì su entrambi i lati».

Oggi è facile criticare la mancanza di coraggio di Evans. Ma l’americano è un giovane di 21 anni, passato attraverso mesi di minacce di morte, che ha appena visto espellere dal villaggio olimpico i suoi amici. Come Smith, anche lui è cresciuto raccogliendo cotone in Texas. Sa benissimo a che cosa andrebbe incontro, con una protesta plateale come quella di Tommie Smith e John Carlos. In seguito se ne pentirà amaramente, ma quel giorno prevale la paura. Evans non è un eroe come Smith, Carlos e Norman. Per lui, anche se non vorrebbe, vince l’istinto di sopravvivenza, come per la maggioranza delle persone.

A testimoniare ancora di più la grandezza di chi ha messo in gioco tutto e poi lo pagherà per tutta la vita. Restano la sua adesione all’Olympic Project for Human Rights e i mesi vissuti in prima fila. E questo anche Edwards, ricordandolo nei ringraziamenti del suo libro, glielo riconosce.

Il giro della morte di Lee Evans.

La prima volta del Kenya

L’Africa è unanimemente riconosciuta come la maggior fucina di talenti nel mezzofondo maschile. Quasi tutti i fuoriclasse degli ultimi decenni provengono da qui: pure il britannico Mo Farah, nativo di Mogadiscio. Le eccezioni sono pochissime. Il maggior numero di atleti di punta viene dal Kenya. Se i dieci mezzofondisti più veloci di sempre sui 1.500 sono tutti africani, sei sono keniani. Tra i primi 30 trovano spazio appena sette extra-africani, contro 13 keniani. Tra 30 uomini più veloci sui 5.000 solo 2 non sono africani, mentre i keniani sono 13. Nei 10.000 metri la top 30 è composta per metà da keniani. E fra i 30 atleti top sui 3.000 siepi 21 sono keniani.

Le cose non sono sempre state così. Il Kenya e l’Africa hanno iniziato a dominare il mezzofondo solo mezzo secolo fa, a Città del Messico. I 2.250 metri di altitudine che hanno esaltato velocisti e saltatori spaventano, per la rarefazione dell’aria, chi è impegnato nelle distanze più lunghe. A farne le spese sono americani, australiani ed europei, che pure in quel periodo detengono tutti i record mondiali. Non chi è nato e vissuto sugli altipiani.

Si comincia il primo giorno di gare, il 13 ottobre: sui 10.000 il keniano Naftali Temu, al termine di una volata sfiancante, riesce a sconfiggere l’etiope Mamo Wolde, con il tunisino Mohammed Gammoudi sul terzo gradino del podio. Passano tre giorni e, il 16 ottobre, il Kenya aggiunge un altro oro alla bacheca appena inaugurata: è quello dei 3.000 siepi, dove Amos Biwott chiude davanti al connazionale Benjamin Kogo e all’americano George Young. Il 17 ottobre è ora del terzo round, la finale dei 5.000. Anche qui europei e americani non toccano palla. Sul podio salgono ancora Temu e Gammoudi, ma stavolta a posizioni invertite. Temu viene sfiancato dall’ultimo giro del tunisino, che corre gli ultimi 400 metri sotto i 55’’. Ma Gammoudi, una volta liberatosi del campione olimpico dei 10.000, si trova un altro avversario sul rettilineo finale: Kipchoge Keino, anche lui keniano.

È un testa a testa serrato, con Keino che sembra riuscire a prevalere prima che la reazione del tunisino risolva definitivamente la gara. Keino ha ancora una freccia al suo arco e sono i 1.500 metri. Ha passato l’infanzia facendo il guardiano di capre, sulle colline nei dintorni di casa sua, ha partecipato alle Olimpiadi per la prima volta nel 1964, ma è ai vertici mondiali dal 1965. Il suo connazionale Ben Jipcho parte forte, costringendo gli avversari a marcarlo. Keino, dal canto suo, si mantiene sempre nel quartetto di testa.

A due giri dalla fine sorpassa Jipcho e scappa via. Jim Ryun, primatista mondiale che l’anno prima aveva più volte sconfitto il keniano, non può fare niente per limitarlo. Keino va a prendersi il titolo olimpico con il tempo, mostruoso per le condizioni ambientali, di 3’34’’91, suo nuovo primato personale. Stacca di 2’’98 Ryun e di oltre quattro secondi il tedesco occidentale Bodo Tümmler. Distacchi siderali, per un 1.500. È la ciliegina sulla torta per il Kenya, che chiude secondo nel medagliere maschile, con tre ori, quattro argenti e un bronzo. Per Keino è l’inizio di una cavalcata che lo porterà, nel 1972, a conquistare l’oro sui 3.000 siepi e l’argento sui 1.500. Si ritira un anno dopo ed è tuttora l’atleta keniano più medagliato alle Olimpiadi.

La vittoria di Kipchoge Keino sui 1.500.

La rivoluzione di Fosbury

Non è una dimostrazione di forza clamorosa come quella di Bob Beamon, né una vittoria dal significato politico come era successo per Smith. Il trionfo di Dick Fosbury nel salto in alto, a guardare semplicemente il risultato, non desta grande impressione. Eppure una delle gare simbolo è la sua. Perché Fosbury con la sua vittoria dà il via a una rivoluzione profonda e irreversibile del salto in alto.

Per decenni, questa è stata la disciplina più aperta alle novità tecniche in tutto il panorama dell’atletica. Negli anni si sono susseguiti la forbice, il costale e, infine, lo scavalcamento ventrale, che sembra la tecnica finalmente perfetta. Sul fatto che non siano possibili miglioramenti non è d’accordo Fosbury, che già a 16 anni, nel 1963, ha deciso di optare per un altro metodo. Inizia a saltare con la schiena rivolta verso l’asticella, mantenendo il baricentro sotto di essa per tutta la durata del salto. «Semplice come starsene a giacere», scherza Fosbury spiegando il suo salto. Non è l’unico ad applicarlo, ma è grazie a lui se si diffonde in tutto il mondo. In finale, domenica 20 ottobre, si arrampica fino a 2,24, fra i boati del pubblico che non ha mai visto saltare in quel modo. Fosbury guadagna l’oro e poi non riesce più a ripetersi. Ma ormai quello strano modo di superare l’asticella è diventato il suo: è diventato il Fosbury Flop, giusto omaggio a un genio. I sostenitori del ventrale resistono ancora più di dieci anni, sfornando altri fuoriclasse sia tra gli uomini sia tra le donne. Poi l’evoluzione fa il suo corso. E oggi tutti saltano sulle orme di Fosbury.

Il trionfo del Fosbury Flop.

Il tramonto dell’Imperatore

Prima dell’esplosione della maratona come fenomeno di costume, prima dell’assalto alle due ore, c’è stato Abebe Bikila. E ci sarà anche dopo, perché nemmeno il keniano Eliud Kipchoge, il più grande maratoneta vivente, ha fatto ciò che la leggenda etiope è riuscita a fare. La vittoria alle Olimpiadi di Roma da sconosciuto, con il record del mondo a piedi nudi corso all’ombra dell’obelisco di Axum che Mussolini rubò all’Etiopia ai tempi dell’invasione. L’assolo a Tokyo quattro anni dopo, con un altro primato mondiale clamoroso a un mese e mezzo dall’operazione per appendicite. Nella sua vita Bikila ha corso 15 maratone e ne ha vinte 12. È stato il primo etiope a vincere un oro olimpico e il primo uomo nella storia a vincere due maratone olimpiche di seguito. Ed è stato l’ispirazione per tutti gli atleti e le atlete etiopi venuti dopo.

Nella storia del mezzofondo ha avuto lo stesso ruolo dirompente che ebbero, prima di lui, il finlandese Paavo Nurmi e il cecoslovacco Emil Zátopek.

Abebe Bikila è ancora alla partenza, il 20 ottobre 1968. Ha 36 anni e un infortunio a una gamba. Persino lui soffre l’altitudine. Il record mondiale non è più suo. Si mette comunque in testa al gruppo, che conta nelle prime posizioni anche un altro etiope: l’argento dei 10.000 Mamo Wolde. I due sono grandi amici e coetanei, Wolde ha addirittura esordito prima, nel 1956. Ma non ha mai raccolto i trionfi di Bikila, fino a quel giorno. Si è accontentato di batterlo in qualche gara minore. Il passaggio di consegne arriva dopo 17 chilometri. Bikila non riesce a continuare, è costretto a fermarsi. Wolde lo supera e si mette a guidare. Vince, regalando all’Etiopia il terzo successo consecutivo nella disciplina simbolo dei cinque cerchi. Bikila festeggia l’amico e promette che nel 1972, a Monaco, sarà lui a spuntarla. E pazienza se, in Germania, avrà quarant’anni. Ma non va così.

Nel 1969 è a bordo della sua Volkswagen quando la macchina sbanda e lui finisce in una scarpata. Ci resta 12 ore, prima di essere ritrovato con la spina dorsale spezzata. A Monaco ci va per partecipare alle gare di tiro con l’arco dedicate ai disabili. Muore un anno dopo, il 25 ottobre 1973, per un’emorragia cerebrale. Ai funerali ci sono 75mila persone, tra cui l’imperatore Hailé Selassié. Un destino tragico attende anche Wolde, dopo il bronzo conquistato a Monaco 1972. È ancora militare quando la rivoluzione filo-comunista del 1974 depone Hailé Selassié. E nel 1993, poco dopo la caduta del regime, viene arrestato con l’accusa – molto discussa - di aver ucciso un uomo. Resta in carcere nove anni. Viene liberato nel 2002, ma la sua salute è irrimediabilmente compromessa e muore il 26 maggio dello stesso anno. È sepolto ad Addis Adeba, nel cimitero di San Giuseppe, accanto ad Abebe Bikila.

Vera Caslavska e la rivincita della Cecoslovacchia

Quando iniziano le Olimpiadi di Città del Messico sono trascorsi meno di due mesi dall’invasione sovietica della Cecoslovacchia, che ha soffocato nel sangue la Primavera di Praga. La rappresaglia dell’Unione Sovietica e della classe dirigente imposta sul Paese ha conseguenze pesanti anche sul mondo sportivo. Non viene risparmiato neppure Emil Zátopek, il più grande atleta nella storia della Cecoslovacchia e uno dei più grandi corridori di tutti i tempi. L’eroe nazionale è tra i primi firmatari del Manifesto delle duemila parole, il documento redatto da Ludvik Vanulik per sintetizzare l’esperienza della Primavera di Praga. Zátopek, dopo l’invasione della capitale, partecipa alle proteste di piazza davanti ai carri armati. Un anno dopo, nel 1969, viene espulso dall’esercito e spedito a lavorare in una miniera di uranio. Ci vogliono tre anni per piegare la sua resistenza e convincerlo a fare un’autocritica che gli spalanca le porte della “rieducazione” e, nel 1977, l’impiego nel centro di documentazione sportiva di Praga.

Se l’eroe cede, una ragazza di 26 anni non o farà mai. Si chiama Vera Caslavska ed è una ginnasta eccezionale, capace di vincere 22 medaglie d’oro in carriera fra Mondiali, Europei e Olimpiadi. In Messico ci arriva da campionessa olimpica 1964 nella trave, nel volteggio e nell’individuale. Soprattutto, ci arriva dopo aver trascorso due mesi ad allenarsi in montagna, lontana dai carri armati sovietici. Come Zátopek, anche lei è tra i firmatari del Manifesto delle duemila parole e vuole evitare rappresaglie prima dei Giochi. Si allena facendo pesi con i sacchi di patate: «Le ginnaste sovietiche erano già in Messico per adattarsi all’altitudine e al clima, mentre io mi appendevo agli alberi, mi esercitavo nel corpo libero sul prato davanti al mio cottage e mi facevo venire i calli alle mani spalando carbone».

In Messico ci va con un obiettivo preciso: «Sputare sangue per battere gli atleti che rappresentavano gli invasori». La sua parabola si sviluppa tra il 21 e il 26 ottobre 1968. In sei giorni conquista i tifosi messicani e poco prima di partire si sposa con il mezzofondista Josef Odlozil. Va a medaglie in tutte le sei gare del programma. Due volte, alla trave e nel concorso a squadre, arriva seconda.

Quattro volte, nel concorso individuale, nel volteggio, nelle parallele asimmetriche e nel corpo libero, vince. Quando sul gradino più alto non c’è lei ci sono le sovietiche. E nel corpo libero pareggia con la sovietica Larisa Petrik. Alla dimostrazione di forza devastante aggiunge la protesta sul podio: quando suona è l’inno sovietico distoglie lo sguardo, puntando gli occhi in basso a destra. Dall’altra parte della cortina gliela giurano. Suo marito viene espulso dall’esercito, lei viene costretta ad abbandonare le competizioni. Le viene ritirato il passaporto e le viene impedita qualunque prospettiva lavorativa. Vive come donna delle pulizie, poi con caparbietà riesce a recuperare qualche ruolo marginale nello sport. Passa un periodo allenando in Messico, dove è ancora una leggenda, ma fino alla fine degli anni Ottanta il regime fa di tutto per renderle la vita impossibile. Lei non arretra di un centimetro: la presa di distanza dal Manifesto delle duemila parole non arriverà mai. La dittatura è riuscita a piegare persino Emil Zátopek, ma non ha potuto nulla contro Vera Caslavska.

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