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Metti a Insigne
27 giu 2016
In ogni grande torneo c'è sempre un giocatore invocato dal popolo. Stavolta è Insigne, che ancora non abbiamo capito.
(articolo)
10 min
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Probabilmente è il giocatore più suggestivo della Nazionale italiana. Di sicuro contro l'Irlanda è stato l'unico in grado di scuotere l'aria, oltre che il palo alla sinistra di Randolph. Nelle gerarchie di Conte sembra partire da dietro, a ridosso delle convocazioni è stato addirittura a rischio esclusione.

In ogni torneo c'è un estroso che il CT di turno vede poco. Qualcuno che la piazza vorrebbe vedere titolare e invece parte dalla panchina. Qualcuno che viene invocato per aggiungere brio e scardinare la situazione. Nella fase finale degli Europei, il ruolo di incompreso ce l'ha Lorenzo Insigne da Frattamaggiore. Il suo esordio a Lille è stato accompagnato da sospiri di “finalmente”. I suoi movimenti hanno dato l'impressione di portarci fuori da una monotona staticità.

Il primo gol con la Nazionale, in amichevole contro l'Argentina, nel 2013.

Questa appena conclusa è stata la sua quarta stagione con il Napoli. Ha già portato la fascia di capitano, giocato 165 partite. In Nazionale vanta 10 presenze e la partecipazione al Mondiale in Brasile, oltre a questo Europeo. Insigne ha venticinque anni, è padre di due figli. Eppure si tende a considerarlo ancora un ragazzino, non gli si riconosce la maturità che pure è evidente.

Nelle interviste, punta a tenersi fuori da qualsiasi polemica. Dichiarazioni sempre misurate, in cui resta blindato a proposito di sé e dimostra di voler parlare esclusivamente sul campo. C'è un'intervista a Sky in cui Caressa resta sorpreso dalle risposte attente e gli dice: “Insigne politically correct”.

Parla poco, Insigne. La sobrietà è la soluzione che ha individuato per continuare a crescere. Ci è riuscito, nonostante le pressioni e i paragoni. In lui si rivede Gianfranco Zola, Totò Di Natale l'ha incoronato proprio erede e addirittura Diego Armando Maradona l'ha incensato pubblicamente.

Ogni tanto i cliché glieli appiccicano comunque. Qualche giorno fa, la Gazzetta dello Sport ha giocato un retorico contrasto tra il piccolo e buon Insigne e la brutalità criminale di Napoli. “I puffi non abitano a Gomorra” dice il pezzo.

Intorno agli otto anni, qualcuno lo schernì: “Ma dove vuoi andare? Il pallone è più alto di te”. E proprio a causa della statura, fu scartato nei provini con Inter e Torino. Dopo quasi trecento gare da professionista, tra club e nazionale, i suoi 163 centimetri non sembrano più un problema.

Viene da una zona popolare di Frattamaggiore, dov'è nato il 4 giugno 1991. Una casa piccola, con i letti aperti in soggiorno ogni sera. Sulla porta, una targa in ottone dice: “Insigna”, un errore che all'epoca sfuggì al nonno perché non sapeva leggere.

Quattro fratelli maschi. Tutti hanno avuto esperienze con il calcio, Lorenzo e Roberto sono diventati professionisti. Tutti sono cresciuti all'Olimpia Sant'Arpino, che ha intitolato loro la scuola calcio: “Fratelli Insigne”. Il più grande, Antonio, ha un negozio d'abbigliamento sportivo a Frattamaggiore, si chiama “Insigne Sport”. Quando viene intervistato dalla Rai, a ridosso di Euro 2016, dice: “Sono Antonio, il fratello di Insigne”. Un rapporto di lontana parentela c'è anche con Francesco Lodi, l'altro calciatore celebre di Frattamaggiore.

Il padre si chiama Carmine, il nome che Lorenzo ha dato al suo primogenito. Faceva l'operaio in una fabbrica di scarpe, prima che chiudesse. Ancora nel 2012 s'arrangiava con i lavori che capitavano, perché trovava poco dignitoso farsi aiutare dal figlio, che era diventato professionista. A ventun anni quel figlio gli chiedeva ancora il permesso, se voleva acquistare qualcosa per sé: “Che dici, papà?”.

“Crediamo nell'onestà e nel lavoro” spiegano i genitori. E lo stesso Lorenzo lavorava, da ragazzino: si svegliava all'alba, prima di scuola, e andava a vendere vestiti al mercatino di Fratta. Così poteva comprarsi parastinchi e scarpini, per poter giocare in condizioni migliori e provare a diventare calciatore. “Non bisogna mai smettere di sognare” ha detto.

L'etichetta di scugnizzo, oltre che abusata, suona odiosamente impropria. Insigne è uno che per timidezza evitava di firmare autografi, quando già era nel giro della Nazionale maggiore, giustificandosi: «Mi dispiace, ancora non ci ho fatto l'abitudine». E anche dei complimenti, dice: «Mi imbarazzano». È uno cresciuto nelle scuole calcio, non per strada: prima il Grumo Nevano, poi l'Olimpia Sant'Arpino, nell'aversano. Ed è uno che dal ritiro di Coverciano telefonava alla madre per condividere lo stupore di stare insieme a Buffon e Pirlo.

Fin da ragazzino, colleziona occhiali da sole e li tiene sotto chiave. Si può pensare che gli piaccia sfoggiare il lusso. Ci si può concentrare, piuttosto, sullo status symbol che ha scelto: qualcosa che nasconde gli occhi, una barriera per non mostrarsi. Il contrario esatto dell'ostentazione.

Durante una presentazione della rosa del Napoli, Insigne rifiuta di parlare al microfono. Si sollevano fischi e proteste. Lui tiene duro. La timidezza che si maschera da arroganza.

Nel gennaio 2010 esordisce in serie A, con la maglia del suo Napoli, giocando un solo minuto. Qualche settimana dopo va in prestito, poco lontano, a Cava de' Tirreni. Nell'estate che segue, lo chiede il Foggia. È ancora Lega Pro, ma c'è un allenatore con il quale le sue caratteristiche possono risplendere.

In effetti Zeman lo aiuta a fare il salto di qualità, da esterno offensivo largo a sinistra. Sono due anni decisivi nella sua carriera. Il primo, a Foggia: 19 gol, compresa una doppietta alla Cavese. Il secondo in serie B, a Pescara, dove l'allenatore boemo lo porta con sé: 20 gol, e soprattutto 14 assist, nella trionfale cavalcata fino alla promozione.

È l'estate 2013, il nome di Insigne ormai gira ovunque. Il Napoli decide di scommetterci.

Tutti i gol con il Pescara, stagione 2011/12.

Se ne sta con i calzettoni abbassati, larghissimo su un fianco del campo, minuto e discreto. Poi all'improvviso entra nel gioco, buca la fascia o s'accentra, creando scompiglio. Ha un ritmo di gioco diverso dagli altri, come se avesse una diversa temperatura corporea. Quando ha palla sulla trequarti, i difensori devono rincorrere più possibilità del solito e in tempi più ridotti. Perché Insigne ha un gran tiro da fuori, sia in movimento che da fermo, ma ha anche una lettura del tempo adatta all'ultimo passaggio. A Napoli inizia a caratterizzarsi per gli assist, prima che per i gol: nell'arco degli ultimi quattro anni, solo in quest'ultimo ha invertito la proporzione (13 reti, 11 assist).

Alcuni gol in particolare segnano il suo percorso recente. Quello al Cagliari nella prima stagione, fondamentale per il secondo posto finale, che realizza da subentrato e all'ultimo respiro. La punizione contro il Borussia Dortmund, nella notte del suo debutto in Champions League. La doppietta nel primo quarto d'ora con la Fiorentina, nella finale di Coppa Italia di quella stessa stagione 2013/14. E un'altra doppietta, accompagnata da un assist, con cui ha colpito il Milan nel 4-0 a San Siro dell'ottobre scorso.

Il colpo meraviglioso contro i gialloneri di Dortmund, l'esplosione del San Paolo.

Alla prima convocazione in Nazionale maggiore, il team manager gli passa al telefono Del Piero. Il suo idolo di sempre. «Ero molto emozionato, non sapevo cosa dirgli» racconta lui. Che riceverà un'altra chiamata da Alex, stavolta di conforto, quando si rompe il crociato a novembre 2014.

Quella stagione è guastata: Insigne si ferma a novembre, torna in campo ad aprile. Al rientro, però, segna. Con un tiro a giro che mette insieme la fine di un calvario, la maglia del Napoli e il marchio di fabbrica del suo idolo.

Il gol al rientro dopo l'infortunio, contro la Sampdoria. Nell'esultanza, Insigne corre fino a uscire dal terreno di gioco, poi si ferma a gridare verso il cielo, in un momento tutto personale che finisce in commozione.

Per ogni gol, a lungo sul cielo di Fratta si sono alzati i fuochi d'artificio. Per la convocazione al Mondiale, davanti al negozio del fratello hanno organizzato un brindisi che coinvolgeva tutto il paese. A ridosso del suo matrimonio in municipio con Genoveffa, detta Jenny, a Frattaminore pare che venissero prenotati i balconi, in modo da assistere meglio alle celebrazioni. Il suocero ha mantenuto la promessa di farsi un tatuaggio dopo che Lorenzo ha segnato alla Juventus. Ci sono persone care, intorno a lui, che modificano il proprio corpo in base a quello che fa in campo.

Nelle giovanili del Napoli ci era arrivato a quindici anni, in cambio di 1.500 euro versate all'Olimpia Sant'Arpino. In un'intervista video ha avuto un lapsus interessante: spiegava che segnare con il Napoli è bellissimo, perché è napoletano, mentre quando gioca con la Nazionale sente di rappresentare “tutto il mondo... cioè, l'Italia”. Mi sembra esserci tutta l'appartenenza al proprio territorio e la distanza dal resto.

La sua napoletanità non l'ha difeso, pochi mesi fa, da una rapina. Era già successo ad altri compagni di squadra. La cosa notevole è che il rapinatore, una volta presi soldi, bracciali e orologio, gli ha chiesto urbanamente di dedicargli il prossimo gol.

Arrigo Sacchi l'ha sempre esaltato. Ancora poche settimane fa, lo definiva: «il miglior talento del nostro calcio negli ultimi anni». E lo invitava a lasciare Napoli, per confrontarsi con realtà meno familiari e non adagiarsi: «Adesso deve fare qualcosa per sé stesso, altrimenti sarebbe una rovina per lui e per l’Italia».

È storicamente vero che i calciatori napoletani a Napoli fanno più fatica, ma per il motivo opposto a quello che fa notare Sacchi. Ha ragione Di Natale: «I napoletani sentono sempre di più la pressione al San Paolo». Il caso più recente, Quagliarella, mostra bene quella difficoltà. Crescere nelle giovanili è un conto, stare in prima squadra cambia tutto. E soprattutto nei ruoli legati alla fantasia, Napoli pretende molto.

Ci sono stati momenti di tensione, fra lui e i tifosi. Ai fischi, quando venne sostituito contro l'Athletic Bilbao, nel 2014, rispose invitando lo stadio a continuare e gettando la maglia sulla panchina. Sua moglie attaccò poi su Instagram: “Non lo meritate a Napoli”. Quello era lo stesso stadio dove andava, da ragazzino, di nascosto dal padre. Lo stesso con cui, a due anni dalla notte col Bilbao, Insigne si è rimesso in pace.

Tutto lascia pensare che Conte non cambierà il 3-5-2. Né che vorrà mettere in discussione la scelta di una seconda punta rapida al fianco del centravanti. Sulle fasce, finora ha optato per l'equilibrio tra una soluzione propositiva e una conservativa. Mancando fluidificanti di ruolo, il CT ha sacrificato un esterno d'attacco da una parte e spinto avanti un terzino dall'altra.

L'incompreso deve quindi scalare le gerarchie, in attacco o sulla fascia che sia. Insigne può adattarsi a entrambi i ruoli: vicino alla porta ha dimostrato di saperci stare, come pure ha riconosciuto lui stesso di essere cresciuto – grazie a Benítez – nella fase difensiva.

Sta entrando in una fase decisiva della sua carriera. Non si è montato la testa quando sembrava prossimo a esplodere, non si è depresso quando ha vissuto dei cali. Non l'ha mai dato a vedere, almeno, e già questo è indicativo. In tempi non sospetti, quando Insigne aveva solo ventun anni e aveva appena segnato la prima rete in A, il suo allenatore Mazzarri lo descriveva così: «È già un giocatore importante nella mente, sa reggere la pressione».

In verità, un Campionato europeo Insigne l'aveva già affrontato. Era quello Under-21 in Israele nel 2013. Quello in cui il trio con Verratti e Immobile riproduceva le meraviglie di Pescara. Quello che si infranse contro la Spagna, in finale. Ancora, la Spagna.

Tra gli altri, Insigne si giocò il titolo con Morata, De Gea e Thiago Alcántara. Si giocava alle ore 18, a Gerusalemme. Le lacrime di Lorenzo a fine partita, possono ora prendere la forma di un buon auspicio, di terra annaffiata per diventare fertile.

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