Le Finals sono finite da pochi minuti e una colata di champagne sta colorando di gialloviola la bolla di Orlando dopo che i Lakers hanno vinto il loro diciassettesimo titolo. Mentre il dibattito su chi sia il vero G.O.A.T. è ripartito (ma si è mai fermato?) con la stessa velocità con cui sono stati sparati i coriandoli, dall’altra parte dei corridoi della AdventHealth Arena di Disney World Jimmy Butler stava scattando l’ultima polaroid della stagione 2019-20 dei Miami Heat.
È uno scatto rubato, che arriva a noi grazie all’ennesimo contributo della reporter di ESPN Malika Andrews e che immortala Butler, Erik Spoelstra e Goran Dragic mentre si scattano un selfie. È un’immagine potente e non solo per il disagio involontario che la pandemia ci spinge a provare nel vedere tre persone che si abbracciano, ma perché restituisce un senso di completezza e di serenità, quasi da chiusura del cerchio, l’immagine di tre uomini che, indipendentemente dalla sconfitta finale, sanno di aver compiuto qualcosa di straordinario.
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Attraverso le immense prestazioni di Butler, soprattutto in gara-3 e gara-5 delle Finals; attraverso la stoppata molecolare di Bam Adebayo nella serie contro i Boston Celtics; attraverso la scoperta del talento di Tyler Herro; e attraverso ogni penetrazione con la testa incassata nelle spalle di Dragic, così come nelle notti in cui Jae Crowder è sembrato Klay Thompson, gli Heat hanno incastonato il loro nome nella memoria della stagione più strana di sempre.
Per una volta la regola dei vincenti non vale: non basterà la sconfitta a farci dimenticare di questa edizioni dei Miami Heat. Vedere una squadra andare oltre i propri limiti giocando insieme e facendo affidamento su giocatori il cui talento (seppur cristallino) non ci appare così mostruosamente alieno ci colpisce dentro in un modo particolare. Difficilmente qualcuno potrà riuscire a fare qualcosa di simile a quello che fanno LeBron e Anthony Davis, ma se ci si impegna davvero, se si lascia ogni goccia di sudore sul parquet, se ci si crede, allora magari si può diventare Jimmy Butler. Per quanto la distorsione della realtà sia evidente, questo è un pensiero che nutre, che redime: ci fa sentire più vicini ai nostri idoli, ci permette di provare una sincera empatia verso uomini che solitamente si avvicinano più alla mitologia che alla nostra specie.
Adesso che la bolla si è finalmente svuotata, però, è giunto il tempo di porsi qualche domanda su quanto abbiamo visto. Quanto possiamo fidarci del successo degli Heat in questi playoff? In tutte e quattro le serie giocate gli Heat hanno mostrato un potenziale autentico e che sembra destinato a ingrandirsi, ma come mai, al tempo stesso, non saremmo neanche stupiti di vederlo svanire, anche solo in parte, quando si tornerà a giocare in un contesto ordinario?
Farsi trovare pronti
Non si fa torto a nessuno affermando che quanto fatto da Miami nel corso dei playoff non ha niente di normale. Il loro under/over a inizio stagione oscillava tra le 42.5 e le 44.5 vittorie, un range all’interno del quale Miami si è mantenuta tutto l’anno, chiudendo la regular season con 44 vittorie (seppur con nove partite giocate in meno rispetto alle canoniche 82) rispetto alle 43 dei modelli di projection di ESPN, FiveThirtyEight e The Ringer. È vero che fin dal primo giorno la squadra di Spoelstra ha sempre mostrato un’organizzazione impeccabile, dimostrando di poter dare del filo da torcere alle principali rivali della conference (record prima della sosta forzata: vs Milwaukee 2-0; vs Toronto 2-0; vs Philadelphia 3-1), ma a differenza delle altre - Boston inclusa - gli Heat sembravano quelli con l’upside meno evidente.
Nelle 65 partite giocate prima che la pandemia mettesse in stand-by la stagione, gli Heat avevano il settimo attacco della lega, la quattordicesima difesa, e un +2.9 di Net Rating che li ha resi la quinta “peggior” squadra di sempre ad essere arrivata alle Finals. Questa anomalia statistica viene confermata anche dal fatto che nessuna quinta testa di serie prima di loro era mai arrivata a giocarsi l’ultima partita della stagione e, anche se questi dati vanno preso con le dovute precauzioni (gli Houston Rockets 1980-81 e 1994-95 ci erano riusciti partendo dalla sesta posizione; i New York Knicks 1998-99 addirittura con l’ottava) e necessitano sicuramente di un contesto più ampio (Miami è stata la quarta seed per la maggior parte della stagione, ed è scesa al quinto posto soltanto dopo aver perso l’ultimo seeding game contro Indiana, scegliendo di non schierare Butler, Adebayo, Andre Iguodala e Crowder), restituiscono anche la prospettiva che questi Heat non avessero molto in comune alle precedenti late-bloomer che dopo una stagione a vivacchiare si sono accese nel momento più importante.
Quanti si sono innamorati di Tyler Herro negli ultimi tre mesi? Il modo in cui si disinteressa del blitz in raddoppio della difesa dei Celtics (una delle migliori della lega) nella quarta clip è oggettivamente sensazionale per un ragazzo nato il 20 gennaio 2000.
L’arrivo di Butler da solo poteva garantire la consapevolezza di avere il miglior giocatore in un’ipotetica serie contro Toronto (e forse anche i Celtics, prima che Tatum esplodesse definitivamente), ma non sembrava sufficiente per spazzare via del tutto la sensazione che per Miami fosse ancora troppo presto, che senza un altro giocatore di livello assoluto l’organizzazione di squadra non sarebbe bastata. Invece è stata proprio l’organizzazione a permettere agli Heat di sparigliare la carte.
Il gruppo di Spoelstra è stata quella che meglio di tutte ha incarnato lo spirito che serviva per giocare un torneo come quello di Orlando. Chiedersi quanto abbia influito l’assenza del fattore campo o di altri elementi che sono venuti meno nella bolla, per quanto lecito, appare anche limitante dal momento che tutti (Heat compresi) hanno dovuto sottostare alle stesse regole. Il fatto che qualche squadra possa aver sofferto, mentalmente ancora prima che tecnicamente, la lontananza da casa e dai propri familiari, dalla propria routine, non mina in alcun modo il risultato di una squadra che invece è riuscita a fare delle difficoltà la propria forza.
Per tutta la durata dei playoff gli Heat sono stati quelli che hanno giocato col maggior senso di urgenza, riuscendo a imbastire quintetti camaleontici e capaci di plasmare, plagiare, contorcere il contesto di gioco al fine di imporre il proprio volere. Nessuno, neanche i Toronto Raptors della scorsa stagione, era riuscito a costruire un game plan difensivo contro Giannis Antetokounmpo tanto sofisticato come quello di Spoelstra, così come nessuno prima di loro aveva messo così tanto in difficoltà Brad Stevens senza possedere un roster superiore. E se le due vittorie strappate ai Lakers in situazioni di estrema emergenza, figlie del cuore di Butler e di una squadra divenuta talmente consapevole dei propri mezzi da rischiare di doversi sottoporre al test di Voight-Kampff non sono bastate per salire anche l’ultimo gradino del podio, certamente hanno contribuito a riaccendere il riflettore dell’opinione pubblica laddove merita di essere puntato: sulla franchigia nel suo insieme.
L’highlight più pregiato dei playoff di Adebayo, chiusi con 17.7 punti, 10.4 rimbalzi, 4,5 assist, una stoppata e un recupero per 36 minuti e la sensazione di aver aggiunto un ulteriore tassello futurista al ruolo del centro.
Ma che cos’è davvero la Heat Culture?
Provare a dare una definizione unica ed esaustiva di quello che si intende quando si parla della “cultura” di una franchigia è sempre un rischio. Per esempio, chiedendo a un giocatore degli Heat cosa sia davvero la Heat Culture, le risposte che si ottengono – qui trovate quella di Crowder, qui quella di Haslem, qui quella di Butler, qui quella di Adebayo – sono sempre molto frammentarie e deludenti: sembrano degli haiku promozionali sulla mentalità del guerriero che non muore mai e sulla durezza dell’anima. La realtà (per fortuna) è un po’ diversa.
Un’organizzazione NBA, come qualsiasi altra organizzazione del resto, non è altro che la somma degli uomini che la compongono. Il motivo per cui gli Heat sono una delle più funzionali e vincenti franchigie NBA dell’era moderna risiede proprio qui: da anni Miami possiede uno dei migliori dipartimenti di scouting della NBA, uno dei migliori front office (prestate attenzione al nome di Andy Elisburg perché lo sentirete nominare parecchio nei prossimi mesi), uno degli staff tecnici migliori nel lavorare sul materiale umano a disposizione nonché uno degli allenatori più preparati in circolazione.
Gli Heat sono una franchigia molto attenta al lato umano, al costruire un ambiente positivo e allo stesso tempo esigente nel quale far sentire i propri giocatori qualcosa di più di semplici macchine da intrattenimento, pur aspettandosi sempre un alto livello di professionalità. Il vantaggio di avere delle stelle polari che indicano la via come Pat Riley, che oltre a essere uno dei dirigenti più stimati dello sport americano siede al suo posto dal 1995, ed Erik Spoelstra - capo allenatore da dodici anni - permette una continuità di lavoro preziosa, soprattutto in termini di allineamento ideologico, un elemento fondamentale per ogni franchigia moderna, non dovendo così correre il rischio di dover ricominciare un progetto da capo ogni due anni come succede in molti altri posti.
Questo (spesso) si trasforma in disciplina e semplicità di applicazione. Nonostante un roster molto nuovo, durante questi playoff gli Heat hanno usato variazioni difensive drasticamente diverse, e allo stesso tempo sono stati la squadra con il miglior rapporto assist/palle perse (il 66% dei canestri è arrivato dopo un assist, un numero stile-Golden State), nonchè quella più capace di coinvolgere ogni elemento del proprio roster in attacco, facendo di necessità virtù.
Le triple di Crowder, la “gravità” esercitata da Duncan Robinson sul perimetro, il lavoro di rifinitura di Iguodala, le serate di grazie di Olynyk: Spoelstra ha saputo tirare fuori il massimo da ognuno dei propri giocatori.
Mettere i giocatori nelle migliori condizioni di fare il proprio lavoro – un concetto tanto facile da dire quanto complesso da applicare – è un’arma preziosa quando si è costretti ad assemblare il proprio roster in condizioni non ottimali. Se si escludono i Toronto Raptors della scorsa stagione, nessuna squadra nella storia della NBA era riuscita ad arrivare alle Finals nonostante una produzione offensiva inferiore al 4% proveniente da giocatori selezionati nelle prime 10 scelte al Draft. E il fatto che l’unico top-10 a roster fosse il venerabile Andre Iguodala, scelto nell’anno di grazia 2004, certifica meglio di ogni cosa la competenza di una franchigia che riesce quasi sempre a ricavare il massimo da ogni situazione.
La trade per Jimmy Butler nonostante la complessa situazione salariale di Miami della scorsa estate è un esempio valido, così come lo sono le prese miracolose di Adebayo (Draft 2017) e Herro (2019) rispettivamente con la 14^ e la 13^ scelta. Ma il diavolo (aka: Riley) è nei dettagli, nei contratti dati agli undrafted Kendrick Nunn, Derrick Jones Jr. e Duncan Robinson, nella trade per Iguodala e Crowder, fondamentale per permettere a Miami di acquisire quella dimensione fisica tornata poi tanto utile nel corso della post-season.
La stagione degli Heat può essere vista da tre angolazioni diverse. Si può attribuire alla bolla parte del merito del loro successo, asserendo come Miami abbia dimostrato non tanto di essere forte quanto quella più capace di adattarsi alle condizioni da camera sterile di Disney World. Si può scegliere di credere che la cavalcata degli Heat sia la favola della buonanotte della quale avevamo tanto bisogno dopo mesi difficili, quella dove un manipolo di uomini (per metà reclute ambiziose e per metà veterani in cerca di rivincita) guidato da un generale severo ma dal cuore d’oro (e con alle spalle una storia toccante) arriva a sfidare la corazzata invincibile e quasi riesce a prevalere. Oppure si può credere nell’organizzazione di una franchigia che da anni lavora con metodo e precisione. Ancora una volta, la verità si conferma una questione di prospettiva.
Riprendere il potere
Questo ovviamente non significa che Riley, Spoelstra e gli Heat siano perfetti. La free agency del 2016, gestita malissimo con una lunga serie di rinnovi a prezzi sconsiderati visto il valore reale dei giocatori, è soltanto l’esempio più lampante. Prima di questa stagione, dalla partenza di LeBron Miami era rimasta fuori dai playoff per tre volte in cinque anni e fino a dodici mesi fa (lo so che sembrano di più, ma sono sempre 365 giorni) scenari di possibili trade per giocatori come Chris Paul o John Wall erano tutt’altro che rumors. Cosa penseremmo, oggi, se davvero gli Heat avessero scambiato Adebayo per Kawhi Leonard? La Heat Culture avrebbe convinto Leonard a restare? Quel tiro da quattro rimbalzi sarebbe esistito?
Speculazioni del genere sono infinite, ed a volte sfiorano la fantascienza, ma il punto cruciale della faccenda resta lo stesso: tutte le franchigie NBA commettono errori, e dietro ogni grande traguardo c’è sempre una grande dose di fortuna e di casualità. Cosa sarebbe successo se Herro lo avesse scelto qualcun altro? E se gli Hornets avessero accettato quelle quattro scelte per Justise Winslow nel 2015? Chi avrebbe scelto poi Riley, Devin Booker o Cameron Payne? Ma non è un caso se, alla fine, quelle che sbagliano meno sono sempre le stesse. Gli Heat, così come i Raptors e i San Antonio Spurs – un’altra franchigia in grado di costruire qualcosa di grande senza il vantaggio di scegliere i migliori prospetti da lotteria, nonché l’esponente principale di quell’egualitarismo sportivo ripercorso molto bene sia dai Raptors di Nurse che dalle squadre di Spoelstra – sono soltanto gli ultimi esempi di franchigie funzionali, proattive, capaci di forgiare delle fondamenta destinate a durare nel tempo.
Questi mesi ci hanno permesso anche di approfondire meglio la bella storia di Duncan Robinson e del suo rilascio fulmineo.
La forza strutturale della franchigia è il motivo per cui domandarsi quanto sia replicabile il loro successo anche fuori dalla bolla di Orlando appare limitante. È vero che se volessimo provare a costruire un power ranking della prossima stagione oggi (senza vedere come evolverà la questione del salary cap e senza sapere come si muoveranno le squadre di conseguenza) difficilmente metteremo Miami nelle prime tre posizioni della griglia, ma l’esperienza di Orlando (replicabile o meno con questo roster) è stata la miglior vetrina possibile per vincere quello che conta davvero: l’interesse delle superstar.
Il poter sfoggiare sia l’”Ultimate Teammate” che il raffinatissimo talento di Herro e Adebayo in un biglietto da visita che comprende già la figura imponente di Riley e le spiagge di South Beach (oltre ai vantaggiosi sgravi fiscali vigenti in Florida) è un lusso che pochissime altre franchigie possono permettersi. Questa è la vera vittoria di Miami: l’essere tornata in prima linea per ogni free agent di livello, per ogni stella NBA che si dovesse chiedere dove poter andare per vincere un titolo NBA.
Negli ultimi dodici mesi gli Heat sono passati dal dover inventare soluzioni ad avere il lusso di poter scegliere cosa fare: le scadenze dei contratto di Meyers Leonard, Solomon Hill e Dragic in questa stagione (e di Olynyk e Iguodala nel 2021) garantiscono la flessibilità per permettersi ogni nome sulla lista, da Antetokounmpo in giù. Miami può scegliere di puntare qualcuno per essere più competitiva già dalla prossima stagione così come rinnovare con un annuale le pedine più importanti e tirare nuovamente i dadi. Gli Heat (aka: Riley) non si sono mai fatti scrupoli a giocare pesante quando il piatto è di quelli importanti – basta pensare all’arsenale di pick investite per arrivare a LeBron e Chris Bosh nel 2010 – e le prime scelte 2025, 2026 e 2027 potrebbero fare gola a qualcuno.
Recentemente la NBA si è interrogata spesso su quale corrente di pensiero sia la più valida, quella che ti permette di restare competitivo per dieci anni oppure quella che preferisce vincere subito. Un titolo, questo è innegabile, vale più di qualsiasi cosa. Ma avere la possibilità di restare lassù, di essere una presenza fissa nel panorama delle migliori squadre della lega, spesso si porta dietro benefici più duraturi (un valore di franchigia maggiore, una crescita più organica, il poter sviluppare una cultura vincente e stimata) e di commettere degli sbagli senza pagare le conseguenze troppo duramente.
In questi playoff gli Heat sono definitivamente rientrati nella aristocrazia della NBA, hanno riacquistato potere. E se c’è una cosa che Pat Riley sa fare è convertire quel potere in qualcosa di concreto. Non ho idea se Butler, Spoelstra e Dragic pensavano proprio a questo mentre scattavano quella foto, ma per aver appena perso le Finals NBA di sicuro non sembravano neanche troppo affranti.