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Emanuele Atturo

Il miglior allenatore: Thiago Motta

Ha portato il Bologna in Champions League e vinto un premio inevitabile.

Quando il Bologna ha scelto Thiago Motta come allenatore non era la prima scelta. Era stato prima contattato Roberto De Zerbi, che però aveva rifiutato con motivazioni particolari, e cioè che sarebbe stato fuori luogo accettare la panchina dell’esonerato Mihajilovic – in quel momento malato. Una posizione che rischiava di mettere eticamente in difficoltà qualsiasi successore.

 

Per giorni si è parlato di Claudio Ranieri: la zattera di salvataggio buona per i momenti di tempesta, dove la necessità è attraccare sulla terra, non importa dove. Alla fine però la dirigenza ha scelto un allenatore su cui provare a imbastire un progetto sul medio-lungo periodo.

 

Saputo aveva promesso di portare il Bologna in Europa entro dieci anni, e l’anno successivo la scadenza sarebbe arrivata.

 

Gli inizi di Motta al Bologna avevano lasciato delle perplessità. Quasi subito dopo il suo arrivo era tornato dalla difesa a 5 a quella a 4 e aveva cercato di lavorare sui principi di una squadra in quel momento confusa e spaventata. Aveva cercato di convincere i suoi giocatori di poter giocare un calcio produttivo a partire da un possesso palla ben fatto. Aveva cercato di stravolgere l’idea che si poteva attaccare solo andando sopra ritmo, perdendo il controllo e le distanze. All’inizio non ci stava riuscendo. Per un mese al Bologna non ha vinto una partita. Ha perso contro la Juventus, il Napoli, l’Empoli, pareggiato con la Sampdoria. Poi è arrivata la vittoria col Lecce, ed è stato come se si fosse sciolto qualcosa nella consapevolezza dei rossoblù.

 

Il Bologna aveva chiuso la stagione al nono posto, con un andamento non dissimile da quando Mihajilovic subentrò in corsa dando una scossa alla squadra. Se il Bologna avesse mantenuto quell’andamento anche con la nuova stagione, quella del decimo anno di Saputo, allora avrebbe veramente potuto nutrire ambizioni europee.

 

Eppure in estate la squadra sembrava ancora imprigionata nel proprio meccanismo di auto-ipnosi che la costringeva nella metà classifica ogni anno. Il mercato, infatti, non aveva lasciato buone sensazioni, almeno fino agli ultimi giorni. La squadra era ricca di scommesse, a cominciare da Zirkzee, che avrebbe dovuto sostituire Arnautovic ma fino a quel momento non sembrava offrire le giuste garanzie in zona gol. Tutte le scommesse, alla fine, hanno funzionato, escluso il giocatore pagato di più, ovvero Jesper Karlsson. La sua esclusione resta un mistero, e forse apre uno squarcio su un lato oscuro di Motta, o quanto meno sulla sua rigidità. Come successo in passato con Nzola, Karlsson non ha giocato poco: è stato proprio fatto fuori. Stiamo parlando di un giocatore con tiro e gol nei piedi, che sulla carta avrebbe fatto comodo a una squadra che ha faticato a segnare con continuità. Cosa non ha funzionato tra Karlsson e Motta? È un giocatore tatticamente troppo indisciplinato per lui? Troppo individualista? Oppure ci sono problemi di carattere personale? La risposta a questa domanda forse la sapremo più avanti, quando avremo più indizi sul tipo di allenatore che è Thiago Motta. Di certo su questo rapporto su Karlsson si sono concentrati tutti gli spifferi degli ultimi giorni, quando si cercava una spiegazione complessa a un fatto semplice, e cioè il passaggio di Motta alla Juventus.

 

Al di fuori di Karlsson, comunque, la squadra si è rivelata straordinariamente funzionale alle idee di Thiago Motta. Una rosa moderna e con un bell’assortimento tra giocatori tecnici e fisici. Come sappiamo, Motta si era presentato da allenatore con un’intervista in cui aveva invitato a leggere le formazioni orizzontale e non in verticale, per sostenere l’inutilità dei moduli. Una dichiarazione che lo fece passare come un’eretico, o comunque come uno scemo. Già allo Spezia Motta però si è rivelato un allenatore molto diverso da come ce lo eravamo immaginati. Un allenatore molto pragmatico e flessibile, in grado di organizzare in modo maniacale la fase difensiva. Non in modo reattivo, chiaramente, ma modulando le altezze del pressing a seconda dell’avversario e della situazione. Un allenatore che sembra valorizzare soprattutto la gamba e il dinamismo dei suoi giocatori, e che da quelle caratteristiche parte per proporre una fase di possesso fluida in cui i ruoli sono definitivamente aboliti.

 

Motta non ha inventato niente: l’uso offensivo dei centrali, le rotazioni del centrocampo, la cura sofisticata del pressing, una forma ormai liquefatta della squadra, tutte tendenze in atto nel calcio contemporaneo e che in parte si erano già viste in Italia (con Gasperini, Inzaghi, Italiano). Un conto è avere questi principi, però, e un altro e saperli mettere in pratica al livello visto dal Bologna quest’anno. Un conto è metterli in pratica con giocatori affermati e dal valore riconosciuto, un altro è farlo col Bologna, e portarlo fino alla qualificazione in Champions League.

 

Zirkzee è un fenomeno, siamo d’accordo, ma non è stato scontato da parte di Motta costruire su di lui e la sua libertà l’attacco del Bologna.

 

Si è parlato tanto del Bologna quest’anno, fin quasi alla nausea dei tifosi neutrali, ma era inevitabile: era da tempo che in Italia non si vedeva una squadra superare così chiaramente i propri limiti competitivi grazie all’organizzazione tattica, e a idee fresche. Col suo passato da grande allenatore, e da grande regista, Motta è il perfetto uomo copertina: uomo che rimanda al prestigio nobiliare dei grandi tecnici.

 

C’è forse un aspetto meno sottolineato della stagione del Bologna, in questa storia ormai spremuta. La qualificazione in Champions è arrivata certo grazie alla continuità di risultati, ma soprattutto alla capacità del Bologna di vincere gli scontri diretti e le grandi partite. I rossoblù hanno battuto, nel corso dell’anno, l’Atalanta, la Lazio, la Roma, l’Inter, il Napoli; hanno pareggiato due volte con la Juventus e una volta col Milan. Non c’è miglior modo per mettersi in mostra, e dimostrare il proprio valore che giocare bene le partite di livello più alto. Sono state quelle sfide ad aver mostrato, più di ogni altra cosa, la capacità di Motta di preparare una squadra che può davvero competere con chiunque su un campo per novanta minuti.

 

 

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Emanuele Atturo è nato a Roma (1988). Laureato in Semiotica, è caporedattore de l'Ultimo Uomo. Ha scritto "Roger Federer è esistito davvero" (66thand2nd, 2021) e "Visionari, la percezione alterata degli sportivi" (Einaudi, 2024).