Lo scopo del calcio è far superare alla palla la linea della porta avversaria, all’interno dei pali che la delimitano ed evitando l’intervento del portiere messo a guardia della stessa. Certo, il calcio non si riduce a questa operazione finale, ma tra le molte cose importanti resta la cosa più importante di tutte. Un giocatore che mette dentro un’occasione su due, o su tre, può trasformare da solo una buona squadra in ottima, e una già ottima in una squadra eccezionale.
Ovviamente non c’è un solo modo per finalizzare l’azione e anche in questo aspetto - come negli altri che abbiamo classificato - possiamo considerarla una forma espressiva a parte, un modo come un altro, per i calciatori, per manifestare la propria singolarità. I giocatori che abbiamo scelto rappresentano tipologie diversissime tra loro di attaccanti - spesso sono anzi giocatori del tutto unici, impossibili da paragonare a chiunque altro.
Abbiamo tenuto fuori, come sempre a malincuore, giocatori grandissimi come Ronaldo il Fenomeno, Drogba, Sheva, Eto’o, Ibrahimovic, Rooney, Thierry Henry, Lewandowski e specialisti come Crespo, Immobile, Icardi, Falcao, Vieri, Di Natale, Totti e Del Piero. Alla fine, come sempre, è anche una questione personale e siamo finiti a scegliere i giocatori che, in questi ultimi venti anni, hanno maggiormente segnato la nostra memoria e il nostro immaginario.
Cristiano Ronaldo
Al momento della pubblicazione di questo pezzo, i gol segnati in carriera da Cristiano Ronaldo sono 725. Non c’è da aggiungere altro, basta solo questa cifra assurda, ridicola, sproporzionata, per constatare che Ronaldo sia uno dei migliori finalizzatori di sempre, «il miglior attaccante nella storia del calcio», secondo Carlo Ancelotti. Senza essere davvero un centravanti, Ronaldo ha segnato così tanto da far sembrare modeste anche le medie di finalizzatori puri come Raúl e Filippo Inzaghi, che per un certo periodo si sono contesi il titolo di miglior marcatore della storia delle Coppe europee. Sommando i gol segnati da entrambi in Champions League, Inzaghi e Raúl restano comunque dietro a Ronaldo, capace di segnare ben 129 gol (la somma di quelli di Inzaghi e Raúl fa invece 121).
Del percorso che lo ha portato a trasformarsi da ala dribblomane e poco consistente vicino alla porta al mostro mai sazio di gol che conosciamo oggi, capace di segnare da solo più di intere squadre, si sa praticamente tutto. Gli allenamenti con René Meulensteen ai tempi del Manchester United, il suo lavoro su aspetti poco visibili ma fondamentali come i movimenti senza palla, il cambio di mentalità e di ruolo che lo ha portato a eliminare dal suo gioco gli orpelli di inizio carriera per concentrarsi su come segnare più gol possibili.
Accumulare un numero spropositato di gol è l’obiettivo che Ronaldo si è fissato per dimostrare di essere il migliore di tutti, e per questo vive così male ogni occasione in cui non riesce a segnare, in cui qualcuno gli impedisce di aggiornare i suoi record. Spesso si descrive il rapporto tra il gol e gli attaccanti come un’ossessione, come un bisogno che se non viene soddisfatto li fa stare male. Forse nessuno lo manifesta in modo più visibile di Ronaldo, che sarebbe stato ricordato come uno dei migliori giocatori nella storia del calcio anche segnando la metà dei gol che ha fatto, e invece continua a fare di tutto per battere più volte possibili i portieri avversari.
Gonzalo Higuain
Oggi è difficile scalfire quella patina di ironia che si è creata sull’immagine di Higuain, che con l’approdo alla Juventus ha visto cominciare per paradosso il suo periodo di decadenza e che vede il suo record storico di gol in Serie A minacciato da Cristiano Ronaldo e soprattutto da Ciro Immobile, al momento a sole due lunghezze di distanza con due partite ancora da giocare. Eppure nel momento di suo massimo splendore, Higuain era forse la versione più vicina dell’idea platonica dell’attaccante che segna in qualsiasi modo - quello che ha un’influenza tale sul gioco della propria squadra e su quello della squadra avversaria da guardare con trepidazione ogni pallone passasse per i suoi piedi.
In quel periodo Daniele Manusia scriveva: “È importante, per lo scopo di questo articolo, tenere presente anche quando dico che è “indifendibile” il fatto che Higuaín non può fare quello che gli pare con una palla tra i piedi. Almeno non in mezzo a un campo da calcio pieno di avversari. La sua genialità sta proprio nell’aver trasformato l’assenza di specialità in una varietà di soluzioni talmente ampia da rendere il suo gioco imprevedibile. È come se potesse fare qualsiasi cosa gli passi in mente. Un difensore che si trova davanti Higuaín non può mai veramente essere sicuro se andare al duello per la palla o accompagnarlo, difendere il suo lato forte, il destro, o chiudere il tiro a sinistra”.
Anche in assenza di un talento paragonabile a quello dei migliori attaccanti del calcio contemporaneo, Higuain ha costruito sulla conoscenza dei propri limiti e dei propri punti di forza fino ad arrivare per un breve istante a una versione di se stesso che sfiorava quella dei più grandi attaccanti d’Europa. Un istante in cui aveva la capacità di stoppare un pallone di petto in mezzo all’area circondato da cinque avversari per poi piazzarlo al volo con una giravolta sotto la traversa.
Filippo Inzaghi
Sarebbe stato strano non trovare in questa lista il giocatore che più di tutti ha dedicato la sua carriera a un unico scopo, quello di segnare un gol, in ogni situazione e con ogni parte del corpo. Filippo Inzaghi non sapeva fare altro che segnare, e per questo è ricordato, a seconda dei punti di vista, come un fenomeno con un talento invisibile o come uno scarso con molta fortuna. Forse per nessun altro attaccante più di Inzaghi la sua carriera coincide in modo così esatto con i gol segnati. Lui per primo sembra pensarla così, e in questo senso è significativa la risposta data a Vincenzo Montella, che qualche anno fa lo aveva preso in giro dicendo che fosse «più scarso rispetto a tanti bomber che hanno avuto la metà del suo successo». Una cosa che pensano in molti e a cui Inzaghi aveva ribattuto citando semplicemente il numero di gol segnati: «Se mi trova uno che fa 316 gol mi fa un piacere». Altri attaccanti, in realtà, hanno segnato più di lui, nessuno però è riuscito a imporsi con la stessa forza come termine di paragone per il ruolo di finalizzatore.
Del rapporto assurdo e ossessivo di Inzaghi con il gol abbiamo parlato in modo più esteso in due pezzi. Daniele Manusia lo ha descritto come un Sisifo eternamente condannato a segnare, più recentemente Emanuele Atturo, descrivendo le sue esultanze, leggendarie per quanto fossero pazze, scomposte, fuori controllo, ha scritto che «quella tra Inzaghi e il gol era una forma di dipendenza. Non si è dipendenti solo dalle sostanze: possiamo diventare dipendenti dai videogiochi, dal sesso e persino dalle relazioni umane. Una dipendenza è in fondo una ricerca di piacere che diventa patologica. Inzaghi per tutta la carriera ha inseguito quel piacere intensissimo, quel rilascio di dopamina, di un gol. Per tutta la carriera ha cercato di far diventare naturale un evento nel calcio piuttosto raro».
Ruud van Nistelrooy
Ruud van Nistelrooy è un attaccante atipico rispetto alla tradizione calcistica olandese. Con quella corsa sgraziata che lo faceva assomigliare più a uno sciatore di fondo che a un calciatore, e quell’abilità unica nell’utilizzare il suo corpo anche nel più inelegante dei modi pur di segnare, van Nistelrooy aveva un istinto finalistico nei confronti della porta che associamo al mondo sudamericano e non certo a una scuola tattica che ha fatto dell’occupazione degli spazi e del raffinamento della tecnica i suoi due capisaldi. Se si riguardano oggi i gol di van Nistelrooy è difficile dire che eccellesse in qualcosa, perché naturalmente associamo l’eccellenza tecnica all’eleganza e non certo a un attaccante che si arrampicava quasi letteralmente sulle spalle degli avversari pur di segnare.
Eppure il modo in cui riusciva a ricalibrare continuamente i suoi movimenti in base all’imprevedibilità della palla, o ai tentativi dei difensori avversari di impedirgli di segnare, era a tutti gli effetti ciò che comunemente chiamiamo tecnica. Lo si può vedere, per esempio, nel gol che segnò nella stagione 2001/02 al Sunderland, che personalmente considero la sua rivisitazione di QUEL gol di Bergkamp al Newcastle. Una versione più artigianale, fatta per girare intorno ai propri limiti tecnici - anzi, di utilizzarli a proprio favore. Van Nistelrooy, nel suo gol, aggira il difensore avversario con un primo controllo di fatto sbagliato e poi deve praticamente stendersi a terra per imprimere forza al pallone e mandarlo sotto la traversa con la consueta violenza.
Il suo gol più famoso, quello segnato al Charlton nella stagione 2005/06 - un gol che potremmo inequivocabilmente definire come bello - rivela però forse ancora di più l’essenza della sua tecnica, che in fondo era un continuo riadattamento alle circostanze. Dopo una grande progressione in area di Rooney, van Nistelrooy riceve praticamente sul dischetto mettendosi davanti il diretto marcatore, che era teoricamente in vantaggio. Per quello slancio in avanti, però, van Nistelrooy deve stoppare il pallone di petto quando ancora è troppo in alto, e se lo vede sfuggire alle spalle. A quel punto sembrerebbe impossibile che un giocatore della sua stazza possa tirare prima che il pallone caschi a terra, eppure van Nistelrooy si avvita su se stesso in una frazione di secondo compiendo una rotazione di 360 gradi. Ma lo fa senza flessuosità, in maniera un po’ rigida o meccanica, come una ballerina classica su un carillon.
Dopo aver segnato di collo pieno lo stadio urla RUUD, come faceva sempre dopo un suo gol. I tifosi del Manchester United giocavano con l’assonanza con rude, per omaggiare la “maleducazione” che esercitava nei confronti dei difensori avversari pur di segnare. Ma rude in inglese può anche significare “grossolano, grezzo, non rifinito”, che mi sembrano tutte parole appropriate per definire il talento di van Nistelrooy. Un attaccante che ha preso le sue imperfezioni e le ha rese ciò che di più prezioso c’era nel suo talento.
Luis Suarez
Il problema di vivere nello stesso multiverso di Cristiano Ronaldo e Messi è che puoi segnare quasi 500 gol in carriera e comunque non essere il giocatore più prolifico della tua generazione, quello su cui sono puntati i riflettori. Ovviamente questo non vuol dire che il talento realizzativo di Suarez non sia riconosciuto, ma in un altro momento un calciatore con una stagione da 59 gol, una da 49 e diverse altre sfiorando i 40 avrebbe statue nelle piazze, sarebbe senatore a vita.
Suarez è un finalizzatore completo e diabolico, a voler fare una cattiva metafora potremmo dire che Suarez morde il pallone quando deve segnare, diventa una furia, lo aggredisce, è tarantolato. Se mettessimo in fila tutti i suoi gol sembrerebbe di vedere un film d’azione, dove l’eroe schiva le esplosioni, salta sopra macchine in corsa, fa a cazzotti con i nemici. Suarez ha una tecnica eccezionale che gli ha permesso di segnare gol fuori da ogni logica, ma il tratto distintivo è comunque questa voglia animalesca, feroce, di arrivare prima dell’avversario, di fare gol. Segnare è anche questione di determinazione e volontà e nessuno è più determinato di Suarez: nel gol del 2 a 1 nella finale di Champions League contro la Juventus, ad esempio, si muove come uno che deve salvare il mondo e ci riesce.
Suarez è stato capocannoniere in Eredivisie, Premier League, Liga, Coppa del mondo per club e Coppa del Re, vincendo anche 2 volte la Scarpa d’Oro, con i suoi gol ha fatto vincere tantissimo alle sue squadre, gol e vittoria sono strettamente legati nell’attaccante uruguaiano: «Non è che non ci sto a non vincere: io ho bisogno di vincere. È un sentimento soffocante: non sopporto il peso del fallimento», ha raccontato dopo uno degli episodi poco edificanti che lo hanno visto coinvolto.
Il “Kun” Aguero
Sergio Aguero è alto poco più di un metro e 70 e col baricentro basso e un’intensità fuori scala soprattutto per l’epoca sembrava tutto fuorché un attaccante. Era un esterno offensivo che sapeva segnare partendo da lontano, usando le leve corte per far impazzire i difensori con scarso senso dell’equilibrio. Era il contrario della nostra immagine del centravanti-uccello alla van Basten o alla Ibra; ma anche a quello bisonte alla Vieri o alla Diego Costa. Col tempo però è diventato evidente che il suo rapporto con la porta fosse speciale. Alla sua seconda stagione all’Atletico Madrid aveva già segnato 27 gol. In quel momento però nessuno avrebbe immaginato che un numero 9 di un metro e 70 sarebbe diventato il quarto miglior marcatore della storia della Premier League. Un campionato ancora molto legato all’idea che il centravanti dovesse essere soprattutto un formidabile colpitore di testa.
Per sopravvivere al centro dell’attacco di una delle migliori squadre al mondo, che ogni anno comprava giocatori sempre più eccezionali, e agli ordini di un allenatore sofisticato ed esigente come Pep Guardiola, Aguero ha dovuto adattare il suo gioco a tante cose diverse. La sua eccezionalità emerge però nella finalizzazione. Aguero è uno dei giocatori col più alto tasso di conversione di tiri nella storia. Nel 2019 una statistica diceva avesse segnato un gol ogni 6 tiri, che è una media francamente irreale, ma quest’anno ha fatto persino meglio: un gol ogni 3,3 tiri. Ridicolo.
Questa precisione dipende da tante cose. La prima è la sua preparazione al tiro: è un genio delle scelte, ma soprattutto degli appoggi. Quando si arriva agli ultimi metri e ogni briciola di spazio diventa essenziale, Aguero è capace di giocare in frazioni. Poi quando tira è una sentenza. I gol che più mi impressionano di Aguero sono quelli che segna con i piedi sulla linea di fondo, tirando in angoli impossibili. Quello segnato al Liverpool dopo aver saltato Reina; quello al Burnley arrivando dopo una corsa di 70 metri. Questo tipo di gol mi sembrano quelli che definiscono Aguero più di altri.
David Trezeguet
Se qualcuno mettesse una benda intorno agli occhi di Trezeguet, gli facesse fare qualche giro su se stesso e poi gli chiedesse di colpire un pallone crossato in area di rigore, Trezeguet non avrebbe alcun problema a farlo. Magari non lo prenderebbe pieno, non lo spedirebbe sotto l’incrocio, ma farebbe gol. Di molti attaccanti prolifici si dice che “sentono la porta”, Trezeguet piuttosto sembrava sentire il pallone. C’è un gol al Siena che mi sembra racconti meglio di tutti questa sua capacità: in mezzo a una tormenta di neve, col campo innevato e la visibilità ridotta, Trezeguet anticipa il marcatore su un cross senza velleità dalla trequarti, colpisce il pallone di struscio con un colpo di karate, quasi con la pianta del piede, mentre è di spalle alla porta. La palla dopo un rimbalzo si infila all’angolino e sembra quasi un miracolo.
Trezeguet non era grosso e potente come i centravanti d’area di rigore del 2000, piuttosto sinuoso ed elegante, anche nelle esultanze, anche quando proprio all’inizio di questo secolo brevissimo ci ha fatto male nel supplementare della finale degli Europei con una girata delle sue. E i gol avvitandosi di testa, colpendo al volo allargando il piatto, in mezza girata dopo uno stop, erano i suoi gol: ne ha segnati tantissimi così, gol da ballerina, da attaccante coordinato, agile, preciso. Un altro aspetto che rendeva Trezeguet un formidabile finalizzatore era che in area di rigore tra destro e sinistro non faceva differenza, magari fuori sì, ma dentro no, diventava completamente ambidestro quando c’era da anticipare un difensore, uccellare un portiere. Se una cosa si poteva risolvere con uno o due tocchi, Trezeguet è stato uno dei migliori al mondo nel farlo.
Raul Gonzalez Blanco
Quando Raul, coi capelli corvini, i tratti latini molto marcati - il naso grosso, gli occhi scuri, le labbra sensuali - segna uno degli oltre 400 gol in carriera si bacia l’anello con devozione. È una delle icone assolute del calcio di fine anni 90 e inizio 2000. In un momento storico in cui i finalizzatori incarnavano il lato più pratico e brutale del calcio, Raul era un artista. Tra i pochi a rendere il gesto del gol raffinato quando un ultimo passaggio o un dribbling. Raul quando concludeva in porta era sempre delicato, immaginifico. Usava sempre il sinistro, ma ne usava una superficie così ampia che era come se avesse due piedi. I suoi gol erano come un abito classico dal taglio raffinato, semplici ma ricercati. Ma in questa lista forse Raul è quello che ha spinto più in là la relazione piuttosto evidente tra il sesso e il gol: non c’è nessuna conclusione di Raul che non contenga almeno un minimo di sensualità.
Era il maestro degli scavetti, cioè quei pallonetti minimali che non si propongono di scavalcare il portiere sopra la sua testa, ma sopra il suo corpo steso e uscito in modo troppo precipitoso. Un gesto da Matador, ovviamente. Forse nessuno è stato forte come lui in quel fondamentale tecnico: non solo perché aveva un piede sinistro sensibilissimo, ma anche perché sotto porta era lucido e freddo e sapeva scegliere il tempo del tiro con esattezza. Col tempo è diventato sempre più statico e minimale nel suo gioco, ma nei primi anni di carriera arrivava al tiro dopo movimenti a elastico e tagli dietro ai difensori da artigiano. Il mio gol preferito l’ha segnato al Valencia in una di quelle sere in cui il Real Madrid indossava una maglia viola.
Ha ricevuto un passaggio al limite dopo un taglio da destra; il difensore lo ha seguito e gli è restato addosso; Raul l’ha controllata con l’esterno sinistro e poi ha sentito che il difensore, nella foga, aveva perso il passo, così l’ha dribblato rapidamente verso l’interno. A quel punto la palla era sul destro, ma Raul sapeva inventarsi di tutto pur di non tirare col destro, e così ha eseguito un pallonetto di esterno sinistro in cui ha dovuto incollarsi la palla sul piede e spingerla in alto accompagnandola.
Ma anche il gol al Betis, quando si è portato avanti la palla col tacco e dal limite ha lasciato partire un pallonetto di collo che ha colto la traversa prima di superare la riga. Non sembra esserci rapporto più naturale di quello tra Raul e il gol, ma anche questo, in realtà, è frutto del lavoro. Come ha detto Valdano: «Abbiamo passato tanto tempo a correggere la sua finalizzazione». Per l’argentino Raul avrebbe meritato di vincere un Pallone d’Oro.
Lionel Messi
Non sono i 700 gol segnati in carriera, o il fatto che da più di 12 anni Messi segna più di 20 gol a stagione in Liga. Cioè, questo genere di cose sarebbe sufficiente a testimoniare a una persona che di calcio non ne sa nulla la grandezza di Lionel Messi davanti alla porta, indipendentemente dalla distanza dalla stessa. Ma se di calcio avete visto più di qualche partita, se di attaccanti che sembrano nati per spingere la palla in rete ne avete visti a più livelli, nei campionati migliori come in quelli provinciali, allora potete soffermarvi sulla sensazione che accompagna i gol di Messi. Come vogliamo chiamarla, ineluttabilità? Quel pensiero che il portiere non ci sarebbe mai arrivato, che Messi anzi ha tirato esattamente dove il portiere non sarebbe potuto arrivare, o dove non avrebbe fatto in tempo ad arrivare. L’idea che Messi è l’unico giocatore con una tecnica tale nei tiri - come nei passaggi, come nei dribbling, come nei controlli, come nelle protezioni - da poter mettere la palla in uno spazio immaginario grande quanto la palla stessa. Ogni tiro di Messi sembra un calcio di rigore, calciato in funzione della posizione e dei movimenti del portiere, un esercizio di geometria e di previsione. Tra le tante cose che rappresenta, Messi è anche l’essenza stessa della finalizzazione, quella capacità di mettere la palla oltre la riga, tra i due pali, evitando il corpo del portiere. Che poi, volendo, è l’essenza del gioco del calcio.
Miroslav Klose
Per Miro Klose il gol era il risultato dell’incontro tra il suo corpo e la palla. Le traiettorie della sua corsa e il tempismo del taglio che lo portava nel centro dell’area erano tanto importanti quanto l’esecuzione del gesto che avrebbe messo la palla in porta. E parliamo di più di 300 felicissimi incontri con la palla, sempre nel posto giusto al momento giusto. Parliamo del giocatore che ha segnato più gol nella storia della Nazionale tedesca e dei Mondiali (16). Klose era anche un atleta fuori dal comune, alto e forte, con un’elevazione pazzesca e una rapidità insospettabile negli spazi stretti. Tecnicamente pulitissimo, efficace, uno di quei giocatori sempre una mossa in anticipo rispetto ai suoi avversari.
Per Klose la porta era più grande rispetto a quanto lo fosse quando un altro attaccante arrivava davanti alla porta, il portiere era sempre messo male, c’era sempre troppo spazio su un palo o su un altro, si tuffava sempre dalla parte sbagliata. Ma è il tempismo la qualità più grande di Klose, la capacità di nuotare sempre a favore di corrente, di scattare davanti al marcatore quando la palla cadeva davanti, dietro quando lo scavalcava, arrivandoci sopra in corsa, come un falco - o un'aquila, in onore del suo passato laziale - che un momento è ferma in mezzo al cielo, grande come un puntino, e un attimo dopo ha le ali aperte e gli artigli su di essa.