Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
I più grandi mangiatori di hot dog di sempre
27 dic 2023
Viaggio nel bizzarro mondo del competitive eating.
(articolo)
15 min
(copertina)
IMAGO / Xinhua
(copertina) IMAGO / Xinhua
Dark mode
(ON)

“Non fidarti dei fantasmi del '900. L'estate non tornerà più da queste parti. I più grandi mangiatori di hot dog di tutti i tempi che sorridono sazi agli angoli delle strade”. Così canta, o meglio recita, la voce malinconica di Emidio Clementi in uno dei pezzi più iconici dei Massimo Volume, Coney Island. I fantasmi del '900 sono, con tutta probabilità, gli inquietanti scheletri di ottovolanti e giostre abbandonate che incombono nel panorama di Coney Island. Sono il contraltare spettrale delle attrazioni più recenti, altissime ruote panoramiche sorte per tenere fede al soprannome di playground of the world con cui la penisola, tra i quartieri più celebri di Brooklyn, era conosciuta a inizio '900, quando si faceva a gara a chi costruiva il parco divertimenti più sfarzoso sulle rive di Brighton Beach.

I più grandi mangiatori di hot dog di tutti i tempi, invece, sono quelli che ogni 4 luglio si ritrovano a pochi passi dalla Riegelmann Boardwalk. È una pittoresca passerella in legno sul lungomare che si staglia sull'immancabile sfondo di montagne russe, davanti alla sede originale di Nathan's Famous, catena di fast-food specializzata appunto in hot dog, per contendersi il titolo più ambito nel mondo del competitive eating: dieci minuti di tempo per ingoiare quanti più hot dog possibili.

La scena è quanto di più americano si possa immaginare, e la scelta del giorno dell'indipendenza come data per la sfida non è casuale: i partecipanti entrano in scena accompagnati da musica, scenette coreografate e nickname altisonanti, introdotti dalla voce tenorile del presentatore George Shea, una via di mezzo tra predicatore invasato e padre fondatore con cappello di paglia d'ordinanza, in uno sventolare di stars and stripes. I mangiatori si dispongono in fila dietro a un tavolo imbandito, davanti a una schiera di arbitri e addetti al conteggio, e soprattutto sotto gli occhi di migliaia di spettatori dal vivo (l'edizione del 2007 ha registrato un pubblico stimato di 50mila persone) e sui canali della ESPN. Dopo il segnale del via cominciano a trangugiare.

Lo spettacolo, di per sé, non sarebbe entusiasmante, né particolarmente bello da vedere: come è facile prevedere, i contendenti non rispettano esattamente il galateo a tavola. Ma è il senso di sfida quello che affascina gli spettatori; portare una delle più basilari attività umane, mangiare, ai suoi limiti estremi, in uno sfoggio di abbondanza che sta al cuore di qualsiasi festa popolare e che, al tempo stesso, incarna perfettamente – nel bene e nel male – l'American Dream: abbiamo così tanto cibo che possiamo sprecarlo per gioco, e, al tempo stesso, il nostro cibo è così buono che non smetteresti mai di mangiarlo.

Come per le feste popolari, le origini della gara di Nathan's sono fumose, perse nei meandri di inizio '900 e legate a figure dello show business americano dell'epoca, come Jimmy Durante e Mae West. C'è chi racconta di una sfida improvvisata nel 1916 sul lungomare di Coney Island, con quattro immigrati che si diedero battaglia a suon di hot dog per sancire chi tra loro fosse più patriottico. Alcuni sostengono che la competizione vada avanti ininterrotta fin da quel giorno, fermandosi solo per la guerra, ma che in ogni caso si tratti di un'invenzione pubblicitaria.

Il primo evento “ufficiale” si tenne nel 1972, e dagli anni '80 in poi la tradizione non si è mai fermata, nemmeno per la pandemia. Nel 2020 i mangiatori si ritrovarono, in numero ridotto e con clima ovviamente meno festante, in un improbabile spazio chiuso e privo di pubblico, separati tra loro e dai giudici tramite pannelli di plexiglass che, nel giro di pochi minuti, si riempirono di chiazze come un dipinto di Jackson Pollock, solo con briciole e pezzi di würstel al posto dei colori. Nel 2021 la gara si spostò nella più appartata sede di Maimonides Park.

Quanto accaduto negli anni del COVID ci fa riflettere sullo status odierno del competitive eating. Una disciplina che comprende una lega professionistica, la Major League Eating, tanti eventi ufficiali oltre alla celebre sfida di Nathan's, fitti legami con la sfera dei social network, ricchi contratti di sponsorizzazione e per i diritti televisivi. L'idea che un evento nato come il più tipico gioco da fiera si tenga anche a porte chiuse, a solo beneficio degli spettatori in TV, ci permette di comprenderne la dimensione sportiva.

***

Partendo dalle sue origini fieristiche, si può tracciare un analogia tra il competitive eating e il wrestling, altro sport-spettacolo tipicamente americano. Nati entrambi da contesti popolari, o anche itineranti/circensi, si sono evoluti fino a diventare discipline a tutto tondo. L'uno, il wrestling, ha esaltato l'elemento coreografico e narrativo, l'altro ha puntato sulla tradizione e sull'aspetto competitivo, ma fondando comunque la sua fama su personaggi teatrali, grandi rivalità, leggende metropolitane o comunque costruite ad hoc, ed entrambi sono riusciti a creare intorno a sé un microcosmo sportivo e professionistico che mantiene quel pizzico di mistero e di magia, come uno spettacolo circense. Nel wrestling ci sono i sorvegliatissimi retroscena che non devono uscire da dietro le quinte: come ci si accorda per coreografare le mosse, quali sono i segnali segreti fra gli atleti, quanto di ciò che accade sul ring è improvvisato o predeterminato. Nel competitive eating, il grande mistero è uno solo, cioè dove va a finire tutto quel cibo: per non infrangere la sospensione dell'incredulità, ovviamente, le procedure post-gara sono tenute ben nascoste, sia al pubblico live sia alle telecamere (anche se il pluricampione Joey Chestnut ha raccontato, in modo poco prosaico, come il tutto si riduca a frequenti e intense sedute al gabinetto).

Nulla di tutto questo appartiene all'immaginario del competitive eating, che rimanda a un altro tipo di contesto. Si pensa a una fiera paesana dove le migliori forchette del quartiere si sfidano per un buono sconto in qualche negozio locale, avventandosi su torte, panini o qualsiasi altra pietanza prescelta con poca preparazione, o nulla, eccetto per la fame. Vengono in mente tovaglie a quadretti, sedie di plastica, o magari la famosa scena di Stand by me, il film del 1986 tratto dal racconto Il corpo di Stephen King, dove il giovane Sacco di Lardo partecipa alla gara dei mangiatori di torte al solo scopo di vendicarsi con i concittadini, aiutandosi con una robusta dose di olio di ricino per innaffiare il pubblico con spruzzi di vomito al sapore di crostata ai mirtilli. Fino alla fine degli anni '90, in verità, la scena del competitive eating non era molto differente. Il contesto era decisamente amatoriale, i premi andavano poco oltre una pacchiana cintura di stampo pugilistico e qualche fornitura gratis, i concorrenti avevano quasi tutti un fisico importante, e si limitavano a trangugiare i panini senza badare alla tecnica, arrivando al massimo a una ventina di unità.

Questo articolo è stato realizzato grazie al sostegno degli abbonati. Sostienici regalando o regalandoti un abbonamento a Ultimo Uomo.

Sul finire del secolo, però, a Coney Island sbarcano i giapponesi – straordinari come sempre a prendere una qualsiasi stupidaggine occidentale e trasformarla in scienza. Hanno un metodo, si allenano specificamente per l'evento, e fanno la differenza. I primi due classificati dell'edizione 1997 – Hirofumi Nakajima, fattorino per un mobilificio, e Kazutoyo Arai, venditore di materassi – messi insieme pesano circa cinquanta chili meno del terzo classificato, il campione in carica Ed Krachie. È un'invasione, che comprende anche il settore femminile: Takako Akasaka finirà al terzo posto assoluto nell'edizione del 2000, prima che venga istituita una gara specifica per le donne, dominata ormai da lungo tempo da Miki Sudo.

Ma la vera rivoluzione arriva nel 2001, e si chiama Takeru Kobayashi. 173 centimetri per 60 kg (bagnato), Kobayashi si presenta a Coney Island per la prima volta da totale sconosciuto in America e divora 50 hot dog, più del doppio del record precedente. I giudici non avevano nemmeno preparato un numero di cartelli sufficiente a indicare il punteggio, e dovettero segnalare gli ultimi hot dog con le mani. Con lui il competitive eating assume un connotato prettamente sportivo, e inizia a crescere di popolarità.

I suoi metodi di allenamento fanno notizia. Per ottenere risultati del genere occorre seguire un regime dietetico particolare e prepararsi gradualmente al giorno della competizione, tenendo anche conto di variabili come temperatura e umidità. Non serve mangiare tanto, anzi, è controproducente. La chiave è allenare l'elasticità dello stomaco, ingerendo grandi quantità d'acqua o cibi poco calorici, e vanno allenati anche esofago, denti e mascelle. Essenziale poi è la tecnica. Kobayashi, che di lì a breve si guadagnerà il soprannome di Tsunami, pratica il metodo da lui stesso denominato “di Salomone”, cioè spezzare l'hot dog a metà, per poi mangiare prima i würstel e successivamente il panino – precedentemente inzuppato in un bicchierone d'acqua (dunking) per facilitarne la discesa nell'esofago. È anche l'inventore del cosiddetto “Kobayashi Shake”: una serie di saltelli e movimenti del busto per aiutare il cibo a scendere nello stomaco, e fare spazio alle nuove infornate di hot dog.

Kobayashi vince la gara di Nathan's dal 2001 al 2006, migliorando il record fino a 53 hot dog e tre quarti. Per gli americani, venire surclassati da un giapponese in una sfida così patriottica è un boccone difficile da digerire (no pun intended), ed è qui che la gara del 4 luglio, e il mondo del competitive eating in generale, assimila a pieno la lezione del wrestling e mette in scena una storyline degna della WWE. I nuovi talenti americani prendono la disciplina con serietà, adesso, imitando e possibilmente migliorando i metodi di Kobayashi, e la testa di ponte della riscossa americana è Joey Chestnut, classe 1983, detto Jaws, mascelle – o lo squalo se vogliamo prenderci una libertà cinematografica, e dotato, come suggerisce il soprannome, di un talento naturale: una bocca e dei denti da far spavento. Nel 2006 Chestnut mette in serissima difficoltà Kobayashi, costringendo il giapponese a stabilire un nuovo record mondiale per batterlo sul filo di lana. L'anno dopo, nel 2007, il redemption arc è compiuto quando Chestnut frantuma il record di Kobayashi (66 hot dog) riportando la cintura del campione in patria.

Negli anni successivi, i due daranno vita a una rivalità storica, aspra – anche se nessuno sa quanto vera o costruita – e ben raccontata dal documentario di ESPN The good, the bad, the hungry, per la serie 30 for 30. Kobayashi e Chestnut si danno battaglia da un lato all'altro del Mississippi in gare di vario tipo, alzando l'asticella a ogni occasione tra hamburger, ali di pollo e altro ancora. Il palcoscenico più importante, la loro Wrestlemania, rimarrà però sempre il 4 luglio a Coney Island. L'edizione 2008 resta negli annali come la più combattuta ed emozionante, decisa a favore di Chestnut con uno spareggio, dopo che entrambi avevano totalizzato 59 hot dog allo scadere del tempo.

Da lì, l'americano non si guarderà più indietro. L'anno successivo piazza un irraggiungibile record di 68 hot dog (ancora più impressionante perché il tempo massimo è passato da 12 a 10 minuti) mentre Kobayashi prenderà una traiettoria da antagonista o addirittura rinnegato, come un heel turn nel wrestling. Rinuncia a partecipare alle successive gare del 4 luglio perché, consapevole del proprio valore in termini di marketing, non vuole firmare un contratto esclusivo con la Major League Eating, come richiesto dal regolamento. È una storia fatta di ripicche, come Nathan's che esclude il giapponese dal proprio wall of fame, e addirittura scandali. A un certo punto Kobayashi si fa addirittura arrestare, poi rilasciato, quando alla fine dell'edizione 2010 tenta di saltare sul palco, e l'anno dopo mette in scena un 4 luglio tutto suo, sfidando (e, per quel che conta, battendo) Joey Chestnut in una bizzarra sfida a distanza.

***

Joey Chestnut regna (quasi) incontrastato dal 2007 a oggi, sedici titoli totali con un'unica interruzione nel 2015. È il principale responsabile della crescita in popolarità della disciplina e dell'evento del 4 luglio, ormai diventato una sfida contro sé stesso. Il record ha scollinato oltre quota 70 hot dog, 76 per la precisione. Alcuni commentatori online – basta fare un giro su reddit – lo inseriscono nella conversazione per il GOAT (Greatest of All Time) di tutti gli sport, e persino il giornalista Bill Simmons, al netto della sua solita ironia, non si fa problemi ad accostarlo a Wayne Gretzky, Tom Brady e Michael Jordan. Del resto, la frase forse più caratteristica mai pronunciata in telecronaca recita: “Michael Jordan è il Joey Chestnut della pallacanestro”.

Nel frattempo, il competitive eating si è allontanato sempre più dalle sue origini itineranti e fieristiche per dialogare con la sfera dei social network e dell'intrattenimento in generale. Programmi di successo come Man v. Food hanno attirato la curiosità degli spettatori sulle sfide culinarie di tutto il mondo, giocando con l'idea di trattare il cibo come una challenge – tema dominante, non a caso, dell'era social. Sfide che spopolano, di conseguenza, anche su canali YouTube, alcuni dedicati specificamente all'aspetto giocoso/competitivo, e altri che invece interpretano il cibo come uno strumento di comunicazione particolarmente intimo, l'idea di “mangiare da soli insieme”, o anche di cultura, pur con tutti gli eccessi del caso. È l'idea che sta alla base del fenomeno coreano del mukbang, o anche dell'italiano Omar Palermo, in arte “Youtubo anche io”, tristemente scomparso nel 2021.

L'unico uomo in grado di spodestare Joey Chestnut, per un'unica volta nell'edizione 2015, proveniva proprio dall'ambiente dei social network. Matt Stonie, minuto e frizzante californiano, di dieci anni più giovane del campione, sorprende tutti con un risultato di 62 hot dog e riaccende i riflettori sulla passerella di Coney Island. La nuova rivalità, però, si rivela più che altro un fuoco di paglia. Stonie diventerà un abbonato ai piani alti della classifica ma non riuscirà più a superare quota 60 panini, riuscendo invece nell'intento di stuzzicare lo spirito competitivo di Chestnut, che sposterà l'asticella ancora più in alto. Stonie si può decisamente accontentare con gli oltre 16 milioni di subscriber del suo canale e una catena di ristoranti tutta sua, ma, a onor del vero, va detto che prima dell'exploit del 2015 vantava già una carriera nel competitive eating “tradizionale”, a dimostrazione di come la dimensione sportiva della disciplina sia ormai un dato di fatto.

Non ci può improvvisare mangiatori professionisti, insomma, e bisogna ben distinguere il gioco dallo sport perché il secondo richiede un approccio atletico e scientifico che, se trascurato, comporterebbe seri pericoli per il fisico: quando ha stabilito il record di 76 hot dog, Chestnut ha consumato circa 22.800 calorie, il fabbisogno calorico di nove-dieci giorni, e se normalmente lo stomaco umano può contenere un litro di cibo prima di avvertire lo stimolo della nausea, gli stomaci dei mangiatori professionisti superano i quattro litri di capacità. E quando addentano il cibo, possono esercitare una pressione vicina a 130 chili.

***

Durante l'edizione 2022 della gara del 4 luglio sul lungomare di Coney Island, una persona ha fatto irruzione sul palco con un cartello di protesta, puntando dritta verso Joey Chestnut il quale, senza neanche perdere il ritmo fra un hot dog e l'altro, ha pure trovato il tempo di placcare l'intruso con una presa al collo prima che venisse preso in consegna dalla security. Al di là del gesto di Chestnut, che solidifica ulteriormente la sua immagine di American Hero, vale la pena di soffermarci sui motivi della protesta, che verteva sul tema dei diritti animali. E in effetti, usare un cibo di origine animale per sfidarsi a ingerire nell'arco di dieci minuti il fabbisogno calorico di dieci giorni può certamente apparire offensivo per la sensibilità di una persona vegetariana. Per quanto gli hot dog di Nathan's possano essere famosi per la loro bontà, i concorrenti del 4 luglio difficilmente riescono ad apprezzarne il sapore (specialmente Chestnut che, per la pratica ormai canonica del dunking, predilige inzupparli nel Gatorade o bibite alla frutta). E viene anche da riflettere su come l'idea stessa di sfidarsi a mangiare a più non posso sia anacronistica, un relitto del boom economico non dissimile dalle ruote panoramiche fatiscenti che svettano nello skyline di Coney Island. Un altro fantasma del '900, come cantavano i Massimo Volume, di cui non bisogna fidarsi, perché l'estate non tornerà più da queste parti.

Forse, però, quando i mangiatori di hot dog si sfidano a Coney Island per il 4 luglio, non lo fanno solamente per restare aggrappati a un American Dream che scricchiola da tutte le parti – o che più probabilmente è già crollato. Il cibo è anche cultura, e la cultura ha sempre radici più profonde di quanto si sospetti. Celebrare l'abbondanza, talvolta anche lo spreco, è un tratto della nostra civiltà, nel bene e nel male – grasso può significare anche ricco e potente, sebbene i mangiatori di oggi siano spesso tutt'altro che grassi, bensì dei veri atleti. Ed è un tratto della nostra civiltà anche sfidarsi e giocare, chiedendosi solo in seconda battuta quanto sia eventualmente immorale l'atto o l'oggetto del contendere.

Le parole di Joey Chestnut descrivono benissimo quanto sia preponderante la dimensione sportiva della disciplina: «Il punto di questo sport non è mangiare. Il punto sono l'impegno e la preparazione, la sfida con sé stessi, e in questo senso, mangiare hot dog mette alla prova sia il mio corpo che la mia mente». Seguendolo nel lato più privato dei suoi canali social, però, emerge anche quanto sia importante il rapporto culturale con il cibo. Nell'introdurre un video dove si cimentava nel mangiare una quantità spropositata di Big Mac, Joey raccontava come quel particolare panino, con il suo profumo e le sue sensazioni, costituisse un profondo legame affettivo con il padre, che quando Joey era piccolo lo portava a mangiare da McDonald's per le occasioni di festa – una sorta di madeleine proustiana in salsa consumistica. E durante il periodo più duro della pandemia, quando molti ristoratori erano in crisi per le chiusure dovute al lockdown, il campione sfruttava la sua popolarità per invitare il pubblico a ordinare cibo da asporto presso i loro locali preferiti, per aiutarli a sopravvivere – e ovviamente dava l'esempio piazzando ordini luculliani che consumava da solo.

La riflessione da fare, piuttosto, è chiedersi perché la nostra cultura del cibo comprenda il consumare altre creature animali, talvolta senza considerare il loro punto di vista – e da questa domanda iniziare a interrogarsi sulle alternative, affrontando l'elefante della stanza possibilmente senza macellarlo. Il valore della gara di Coney Island del 4 luglio, della rivoluzione di Kobayashi e dei record di Joey Chestnut, in definitiva, sta tutto nel contesto, nella tradizione, nella storia che racconta, e il contenuto delle due fette di pane è la cosa meno importante di tutte: sarebbe interessante quindi, anche se la prospettiva è ancora remota, vederlo un giorno sostituito da alternative vegetariane.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura