La run di Dallas Oberholzer nello skate park
Dallas Oberholzer ha iniziato ad andare sullo skate nel 1985, quando in Sudafrica, il suo paese, c’era ancora l’Apartheid. Oggi è già in una terza fase della sua passione per lo skate: «Negli ultimi anni mi sono occupato di costruire Skate Park, ora voglio solo skateare!».
A Parigi si è presentato a 49 anni e, pur non essendo il più anziano della competizione, visto che Andy McDonald ha 51 anni, la sua prova è stata tra le più notevoli. Con t-shirt, pantaloni al ginocchio, gomitiere e Nike Blazer Mid, il suo stile contrastava con i capelli bianchi e lunghi, e la barba incanutita. Sembrava un po’ il meme di Mr. Burns vestito da giovane. Sullo skate era stranamente rigido rispetto ai suoi concorrenti, ma la differenza di età era abissale ed era impossibile non rispettarlo. C’erano in gara un sedicenne danese, un diciassettenne australiano e due diciottenni. Il corpo di Oberholzer non può avere la loro elasticità. Eppure c’era qualcosa di glorioso, di estremamente vitale, nel vederlo scivolare per i primi secondi con lo skate. Consideriamo istintivamente lo skate come una cosa per giovani ma si va sullo skate ormai da quasi un secolo e Oberholzer era lì a rappresentare i veterani, e l’idea che non si è mai troppo vecchi per esprimersi nella sottocultura a cui si appartiene. In questi giorni Federico Fiumani, cantante dei Diaframma di 64 anni, ha condiviso una propria foto con una cresta verde. Molti trovano patetici gli anziani che cedono ancora ai propri gusti giovanili, eppure c’è un romanticismo profondo nei vecchi punk, nell’idea di un’irriducibilità della propria identità, nel non volersi piegare al conformismo.
Oberholzer ha qualcosa del vecchio punk. Quando ha iniziato a skateare mancavano ancora 36 anni prima che lo skate diventasse disciplina olimpica e probabilmente non lo avrebbe neanche mai immaginato. Dice che alle prossime Olimpiadi ci saranno solo 14 enni già fisicati che si sono allenati in palestra e ci teneva a essere presente, a Tokyo come a Parigi, per portare un po’ di mentalità da veterano. «È spaventoso perché lo skate ha sempre avuto a che fare con la libertà, il potersi esprimere in modo alternativo, farlo a modo tuo». La vita da skater lo ha provato finanziariamente; per mettere insieme i punti di qualificazione necessari per Parigi ha dovuto girare per il mondo, e i soldi li ha trovati mettendo in affitto il suo appartamento a Città del Capo.
Chiaramente è arrivato ultimo ma lo sapeva - «Non mi importa niente». I tifosi sono impazziti a vederlo provare le cose che fa da tutta la vita. Voleva solo esserci. Sugli spalti c’erano sua madre e sua sorella, le persone per cui voleva skateare. Prima di arrivare a Parigi è stato in Perù, dove guidato da uno sciamano ha viaggiato con lo spirito attraverso l’ayahuasca: «Ho visto i draghi. Ho volato con loro, sono stato con loro sott’acqua e ho attraversato l’arcobaleno sul loro dorso». L’esperienza è stata trasformativa, ne è uscito carico per Parigi e pronto a smettere con la marijuana, che non gli avrebbe permesso di superare il test anti-doping olimpico.
Perché siamo andati in fissa con le foto di Kim Ye-ji e Yusuf Dikec
Per giorni siamo rimasti ipnotizzati di fronte alle fotografie di due pistoleri.
Nella prima una ragazza asiatica ha il braccio destro disteso, mentre stringe una pistola che sembra troppo grande per lei. Indossa una tuta nera come fosse un abito da sera, la mano sinistra solleva leggermente la giacca e, pinzato ai pantaloni, spunta la testa di peluche di un elefante. Il Punctum direbbe Barthes, la fuga di senso che cambia i contorni dell’intera fotografia.
Kim Ye-ji - è questo il nome della donna in foto - ha 31 anni, è sudcoreana e nella gara in cui è stata fotografata ha vinto l’argento nella pistola 10 metri ad aria compressa. Nell’immagine ha un’aria algida e spietata, l’apparecchiatura sulla sua faccia la ammanta di un’aura post-umana, da racconto fantascientifico. Forse uno dei cowboy della consolle di Neuromante di William Gibson, tra lo sprawl urbano di Tokyo e il cyberspazio. Oppure è un’eroina della mala di Honk Kong di qualche film fumoso di Won Kar Wai.
Le lenti ottiche rimandano a Dragon Ball, o a una scafata esperta di diamanti con un’esistenza al limite in qualche scantinato di Singapore. Il peluche invece è un classico dettaglio da manga: un peluche portafortuna di sua figlia di cinque anni. Nel manga sua figlia è morta dopo l’esplosione nucleare che ha cancellato la vita per come la conoscevamo; il peluche è l’ultima reliquia di un mondo umano e ancora capace di amare. Ora vive in una tundra post-apocalittica in cui sicari dal cuore pietrificato si aggirano tra i detriti dell’umanità alla ricerca di taglie.
Oltre alla foto, ci sono le immagini in movimento. Kim Ye-ji col cappellino all’indietro carica la pistola e poi guarda di fronte a sé pronta a sparare. Circolano su internet con caption come “Main Character Energy” o “Aura”, termini dello slang di internet per indicare il tipo di energia emanata da Kim Ye-ji. Un linguaggio e un immaginario impastati di manga e di estetica sci-fi e che ha trovato nell'atleta coreana un’icona. La vediamo aggiustarsi le lenti con aria scocciata, tendere il braccio armato come se non volesse, come se non potesse proprio opporsi al destino. Le labbra carnose, il rossetto, la pelle diafana. È impressionante che nelle immagini successive alla gara, quando mostra sorridente la bandiera coreana insieme alla connazionale Oh Ye-jin, non sembra più lei. Tutta la sua durezza sembra essersi disciolta, come se ci fossero due personaggi di Kim Ye-ji: con la pistola o senza pistola.
L’assoluta mancanza di sforzo con cui riesce a essere cool, di chi è a metà tra umano e androide, è ciò che l’accomuna all’altra grande icona della pistola in questi Giochi Olimpici, Yusuf Dikec.
Se Kim Ye-ji trasmette una sfumatura di dolcezza col peluche alla cintura, Dikec è brutale. Ciò che colpisce in lui è l’assoluta assenza di significanti. Dikec è privo di dettagli tecnologici: ha una maglietta, un paio d’occhiali e una pistola; laddove i suoi colleghi indossano caschi, lenti ottiche, cuffie insonorizzanti, paraocchi, iridi meccaniche. Dikec ha una montatura basic, di quelle che si prendono al supermercato cercando l’etichetta con la gradazione. Tiene la mano nella tasca di una tuta; è vestito come un uomo di mezza età uscito per andare a lavare la macchina la domenica mattina.
Dikec ha 51 anni ed è stato nell’esercito turco: un dettaglio che dona al suo personaggio un’autenticità priva della finzione degli altri. In altre parole, Dikec è uno che ha imparato a sparare nel mondo reale, non al poligono. Uno addestrato per uccidere, non per sparare al bersaglio, e che, messo davanti alla competizione sportiva, finisce per sparare meglio degli altri. In realtà ha preso solo un argento, visto che i suoi avversari serbi iper-accessoriati hanno vinto l’oro, ma sono stati cancellati dall’immaginario comune, e lo stesso può dirsi della sua compagna di doppio misto, Sevval Ilayda Tarhan, con cui ha vinto la medaglia.
Il fatto che non si sforzi a somigliare a un soldato d’élite è precisamente ciò che lo rende più temibile. Camuffato dietro le sembianze ordinarie, si nasconde un vero assassino. È la nostra esperienza di consumatori di fumetti, film e serie tv che ce lo dice: i personaggi più spietati e pericolosi sono quelli che conducono esistenze modeste e solitarie, mangiano pasti poveri, hanno routine misere e senza piaceri, e convivono un passato doloroso. Vivono ai margini. In TV Tropes l’archetipo incarnato da Dikec è definito “It gets easier”: un uomo medio che diventa improvvisamente un killer a sangue freddo. Dikec sembra un uomo forgiato dal dolore, e che per questo infligge dolore agli altri senza sforzo, assecondando una seconda natura e una filosofia di vita cinica. Un uomo ormai al di là del bene e del male. Il riferimento più immediato per lui è Walter White di Breaking Bad.
Accanto ai suoi rivali iper-accessoriati Dikec è il controcanto meme perfetto, nello schema tipo Doge vs Cheems oppure Crying Soyjack vs Chad. Meme quindi che tematizzano il conflitto tra il “nu male” e il Chad. Da una parte un uomo beta indebolito dall’ideologia woke, ormai privo di mascolinità, e dall’altra un uomo alpha mascolino che affronta il mondo come si dovrebbe: con forza, decisione e dominando. I rivali di Dikec sono finiti per essere dei suoi antagonisti cringe, con tutti quegli inutili accessori da rammolliti rispetto alla sua durezza Chad.
L’immagine di Dikec ha avuto una diffusione incredibile; è diventata la rappresentazione di un uomo a cui le cose riescono facilmente. Un uomo che con pochi strumenti ma skills infinite ottiene più risultati di rivali più accreditati - almeno secondo un’establishment rincoglionita, pensano.
Per trovare un corrispettivo efficace del Twitter calcio, si possono citare tutti i meme che contrappongono Pep Guardiola che si agita attorno a una lavagnetta e Carlo Ancelotti che vince trofei ballando con i suoi giocatori. Da una parte il Soyjack Guardiola che si agita complicando inutilmente le cose, dall’altra il Chad Ancelotti destinato naturalmente a essere un vincente.
Se l’immagine ha avuto questo successo è anche perché in una certa sottocultura internet maschile l’icona del pistolero solitario, del deviato sociale, è tristemente affermata. Può essere un’immagine metaforica, di un personaggio caotico in grado di piegare l’ordine sociale diffondendo cultura estrema dalla scrivania di casa; o persino una rappresentazione reale, considerando i legami tra alcune board e gli sparatori. Si sono diffuse anche tutta una serie di fake news (a questo punto al limite della fan fiction). In una si rimproverava chi scherzava su Dikec, sostenendo che fosse stato coinvolto nel massacro dei curdi negli anni ’90 (falso). In un'altra notizia inventata si diceva che Dikec fosse un meccanico di Istanbul che ha iniziato a sparare dopo il divorzio dalla moglie. Abbiamo sovrapposto alla sua figura le storie che ci suggeriva la nostra immaginazione, diffidenti come sempre della versione più semplice. Cioè che Dikec è una persona ordinaria con una grande mira.
Nei giorni successivi alla gara gli atleti olimpici hanno iniziato a esultare mimando la posa di Dikec; lui si è aperto un profilo su twitter e si sta provando a costruire un piccolo ruolo da ambasciatore turco. Ha invitato Elon Musk a Istanbul.
Un quarto posto che ci ha fatto interrogare
Benedetta Pilato ha 19 anni ed è una delle migliori nuotatrici in stile rana al mondo sulla distanza dei 100 metri. In questa Olimpiade ambiva a una medaglia, che le è sfuggita per un solo centesimo di secondo. La giornalista RAI Elisabetta Caporale si è avvicinata alla vasca dopo la gara e si aspettava di trovarsi davanti un’atleta distrutta, che dopo aver lavorato quattro anni per un singolo obiettivo se lo vede sfumare per un margine quasi invisibile. Pilato piange ma vuole rassicurare: «Sono lacrime di gioia ve lo giuro!». Come di gioia? Pilato è allegra e quasi su di giri, «è stato il giorno più bello della mia vita» dice. Caporale non sa spiegarselo: si può essere contenti per una sconfitta? Il quarto posto può essere considerato una sconfitta?
All’intervista di Caporale ha fatto seguito il commento sprezzante di Elisa Di Francisca, ex schermitrice che non si spiegava la felicità di Pilato.
L’intervista ha fatto discutere, talvolta con toni inaccettabili, altre volte in modo sano e interessante. Siamo abituati ad atleti e atlete distrutti dopo le sconfitte, specie quelle dolorose come queste. Soffrire nella sconfitta dovrebbe indurirci, farci desiderare più ardentemente la vittoria la prossima volta. Il modo in cui il più delle volte è celebrata la sconfitta nella nostra società è per il modo in cui ci fa permette di migliorare, e quindi sempre in vista di una futura vittoria. Eppure la sconfitta è una dimensione in cui la maggior parte degli sportivi deve convivere anche per tutta la carriera; anche sportivi eccezionali come Benedetta Pilato. Federica Pellegrini è l'unica nuotatrice italiana ad aver vinto l'oro olimpico. Le medagliate olimpiche della storia del nuoto italiano sono in totale sei.
Negli anni ’90 si è affermata una visione dello sport turbo-capitalista che ha eletto la competizione a valore supremo dello sport. Un noto brand col nome della dea della vittoria ha come motto “fallo e basta” - l’anticamera del “se lo vuoi puoi”. Se non si è delusi nella sconfitta allora vuol dire che non ci si tiene abbastanza, che si è troppo molli per lo sport che storicamente premia i duri. La competizione è un tratto fondamentale dello sport, ma non certo l'unico, e ognuno può viverla secondo coscienza. Dovremmo darlo per scontato. È forse un fatto generazionale, che una ragazza nata nel 2005 sia cresciuta con un rapporto più rilassato con la sconfitta, o che comunque abbia uno sguardo più relativo di cosa essa sia - forse non un quarto posto ai Giochi Olimpici a 19 anni e con tutta la carriera davanti a sé.
Provare a vincere è il senso teleologico dello sport, ma accettare la sconfitta è uno dei suoi significati morali più duri. Significa soprattutto riconoscere il valore dell’avversario, riconoscere che è stato migliore di noi. È un discorso tangenzialmente legato a quello della "fragilità", ma che in questo caso ha soprattutto a che fare con come viviamo i risultati. Evidentemente non è solo una questione generazionale, visto che in termini diversi il discorso è stato fatto anche da Julio Velasco, CT del volley femminile che ci ha invitato a liberarci di questa “ossessione dell’oro”. La differenza spesso passa tra chi è una persona di sport e chi non lo è; una riflessione su questo lo leggete nell’articolo di Dario Saltari “Gli atleti italiani sanno accettare la sconfitta meglio di noi”.
Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha convocato gli atleti medagliati al Quirinale per ringraziarli. Ha deciso di invitare anche tutti coloro che si sono fermati al quarto posto, sulla soglia del podio e della gloria olimpica. Tra di loro anche la diciannovenne Benedetta Pilato.
Un sesto posto dedicato alla nonna
Si è appunto parlato molto di come gli atleti dovrebbero vivere i quarti posti. Dopo l’intervista di Benedetta Pilato qualcuno alla Rai si era risentito della sua felicità: cosa c’era da essere allegri ad arrivare quarti a pochi centesimi dalla medaglia? In queste settimane la giornalista RAI Elisabetta Caporale ha incarnato la figura della severa castigatrice della felicità altrui, e quando ha visto Simona Quadarella affranta dopo il quarto posto nei 1500 metri ha esordito felice: «Sei il volto della delusione».
Cosa deve aver pensato Caporale quando davanti le si è presentata una felice e commossa Gabrielleschi, che nella gara in acque libere è arrivata SESTA?! Gabrielleschi davanti a Caporale ha messo le mani avanti: «Volevo dedicare questo mio sesto posto che per tanti non sarà granché», e già a quel punto abbiamo iniziato a capire che ci stava per arrivare una tranvata. Con la voce tremante Gabrielleschi ha dedicato il sesto posto a sua nonna, morta mentre lei era partita per Parigi e che «è stata con me per tutta la gara». Persino Elisabetta Caporale si è commossa e l’ha consolata.
L’uomo che dorme
Stephen Nedoroscik è uno specialista del cavallo con maniglie; era l’ultimo atleta a doversi esibire per la squadra di ginnastica americana. Quando è arrivato si è seduto sulla panchina, mancavano tre ore al suo esercizio. Così ha girato leggermente la sua testa all’indietro, appoggiandola sulla balaustra, poi ha chiuso gli occhi.
Tra un esercizio e l’altro le telecamere lo inquadravano, e lui era lì assorto, forse addormentato, o forse intento a raccogliere la concentrazione più intensa possibile. Dopo tre ore il suo momento è arrivato. Si è avvicinato al cavallo con le maniglie e si è tolto gli occhiali. Lo abbiamo visto strizzare gli occhi strabici confuso come solo chi è praticamente cieco. Poi è salito sul cavallo e ha iniziato a roteare; il suo punteggio è stato decisivo per permettere agli Stati Uniti di vincere il bronzo: la prima medaglia americana nella ginnasta artistica a squadre maschile da 16 anni. «Quando faccio ginnastica in realtà non vedo nulla. È tutto nelle mani. Riesco a sentire tutto».
Negli Stati Uniti Nedoroscik è diventato un’icona; è stato paragonato a Clark Kent, per la somiglianza fisica, la calma e la doppia personalità (con occhiali o senza occhiali) e si è iniziato a diffondere un piccolo culto. Nedoroscik è laureato in ingegneria elettronica e sa risolvere il cubo di Rubik in 10 secondi.
La tenerezza di Zhou Yaqin
Tra le tante cose che amiamo dei Giochi, la migliore: il fatto che ci siano esseri umani estremamente diversi tra loro che si incontrano per fare le stesse cose. Lo sport unisce i popoli, ci si contamina, si dialoga, si capiscono cose l’uno dell’altro.
L’abbiamo vista tutti la ragazzina cinese di 18 anni, Zhou Yaqin, sul podio con la medaglia per il suo esercizio alla trave. Non aveva preparato nulla, non pensava di fare niente di particolare, poi si è girata e ha visto Alice D’Amato e Manila Esposito mordere la medaglia. Un piccolo rito ereditato da un’epoca in cui era meglio testare la purezza del metallo e che oggi resta come un omaggio ai fotografi. Zhou Yaqin non ci aveva pensato e quando lo nota spunta sulla sua faccia un’espressione di pura meraviglia, allora si porta la medaglia alla bocca un po’ impacciata, come fosse un biscotto, diffondendo una sensazione di tenerezza globale.
Zhou Yaqin ha 18 anni ma francamente sembra più piccola. Nella sua viralità c’entra forse il feticismo verso i bambini asiatici che fanno cose tenere, dimostrato dal successo del format tv giapponese Old Enough, in cui piccolissimi e tenerissimi bambini giapponesi vengono fatti uscire di casa soli per la prima volta, per svolgere delle commissioni (comprare il pesce, ritirare i panni in lavanderia, eccetera). Un programma concepibile solo in un Paese che ha partorito lo stile Kawaai, e che ha modellato una sofisticata estetica della tenerezza. Old Enough dal 2022 è distribuito in occidente da Netflix, dunque se volete intenerirvi davanti a bambini asiatici, eccovi un consiglio.
Il selfie tra atleti sud-coreani e nord-coreani
Il tennis tavolo da mezzo secolo ha il potere di mettere pace tra popoli in guerra; o almeno, grazie ad alcune coincidenze, il tennis tavolo sembra il miglior strumento diplomatico tra Paesi con rapporti tesi. Come saprete, esiste il termine “ping pong diplomacy”, per indicare la serie di incontri politici avvenuti attorno al tavolo da ping pong durante la Guerra Fredda. Se volete un approfondimento sul valore politico del tennis tavolo, soprattutto per la Cina, c’è qui una puntata di Trame per voi.
Durante la cerimonia di premiazione per il doppio misto gli atleti sud-coreani Lim Jong-hoon e Shin Yu-bin, arrivati terzi, hanno chiesto un selfie agli atleti nord-coreani Ri Jong Sik e Kim Kum Yong, argento nella gara - se vi steste chiedendo chi ha vinto la risposta è semplice, la Cina. Un gesto di pace e distensione olimpica, in un periodo particolarmente complesso tra le due Coree. Per quanto siamo distanti dagli anni della Guerra Fredda, i due Paesi sono tecnicamente ancora in guerra e negli ultimi tempi la tensione è cresciuta soprattutto con gli episodi di lancio di palloni pieni di spazzatura dalla Corea del Nord verso quella del Sud; e poi i i vari test missilistici. Ai Giochi non stava andando bene. Il comitato organizzatore ha presentato gli atleti sud-coreani come nord-coreani nella cerimonia d’apertura, e il selfie ha ristabilito un clima di pace attraverso lo sport a dire il vero non raro tra i due Paesi. Il regime nord coreano ha sempre usato lo sport come uno strumento per umanizzare sé stesso, e non sono a dire il vero così remoti i momenti in cui atleti delle due nazioni hanno mostrato rispetto reciproco. Un selfie tra le due coree era stato virale anche a Rio 2016.
In effetti gli atleti coinvolti nel selfie, interrogati, non hanno fornito significati supplementari: «Volevamo complimentarci con loro per l’argento» mentre ai nord coreani hanno chiesto se esistesse una rivalità sportiva tra loro, e loro hanno risposto di no. Fine.
Angela Carini piange al centro del ring
Sport e politica sono dimensioni inscindibili, anche se alcuni sostengono che i due discorsi non dovrebbero intrecciarsi - come se poi fosse possibile scegliere. Spesso le stesse persone che ci dicono che nello sport non dovrebbe entrare la politica, sono quelle che politicizzano in modo estremo e tossico il discorso intorno allo sport.
La notizia falsa secondo cui Imane Khelif fosse una pugile trans è stata messa in giro dal presidente dell’IBA Umar Kremlev, che pur senza dati sicuri a disposizione ha suggerito che la pugile algerina fosse in realtà un uomo. L’incontro con Angela Carini è stato visto come un’occasione irripetibile per una parte della politica italiana per strumentalizzare la faccenda in chiave anti-woke.
Tutto questo sul corpo di Imane Khelif, che secondo il CIO rispettava i requisiti per poter partecipare alla competizione.
Tutto questo probabilmente anche sul corpo di Angela Carini, che secondo il presidente del Coni Giovanni Malagò avrebbe ricevuto pressioni da parte dell’IBA per ritirarsi in maniera teatrale durante l’incontro.
Carini lo ha fatto dopo meno di un minuto, e dopo aver ricevuto un singolo pugno che l’ha spaventata. Dopo essersi ritirata Carini crolla a piangere al centro del ring, poi non stringe la mano a Khelif e rilascia una serie di interviste ambigue. Non possiamo sapere nulla, se non che ha preparato una gara fondamentale per la sua carriera nelle peggiori condizioni possibili.
È stato il primo e unico incontro che Khelif ha vinto per ritiro dell’avversaria. Dopo l’oro ha dichiarato di voler denunciare chi ha diffuso delle notizie false in merito al suo genere.
Se dovessimo indicare il momento in assoluto peggiore di questi Giochi Olimpici non sarebbe molto difficile scegliere.
Le unghie di Sha’carry Richardson
L’ingresso in pista degli atleti sta diventando uno spettacolo a parte, e la ricercatezza dello stile sembra inversamente proporzionale alla distanza corsa. Se i maratoneti somigliano a esili fasci di muscoli in tutto e per tutto neutri, i centometristi sono invece sfavillanti e curatissimi, con gesti di presentazione codificati e i dettagli dello stile estrosi e creativi. È come se dovessero prolungare la propria presenza in qualche modo oltre la decina di secondi della gara. Secondo il New York Times per questi atleti “The Bling is the thing”.
Con le uniformi della squadra nazionale e le scarpette dello sponsor, non rimane però da molto da personalizzare. Il tutto si può limitare ai capelli, alla barba e a poco altro. Sha’Carry Richardson, cento e duecentometrista americana, è diventata celebre per unghie così spinte da sembrare manufatti artistici. Un trend lanciato da Florence Griffith - “Flojo" - negli anni ’80, e che Richardson ha estremizzato, arrivando a ghirigori estremi e lunghezze impensabili. L’atletica è l’unico sport, forse, in cui ci si può permettere di dare una forma così pleateamente anti-funzionale alle proprie mani. Il suo ingresso in pista anche a questi Giochi è stato scenico: con la parrucca, lo sguardo truce, la muscolatura nervosa, coperta di tatuaggi, è la versione Superman del Clark Kent che è nella vita di tutti i giorni - in cui indossa occhiali, sorriso e dei capelli molto più ordinari.
Sulla linea d’arrivo quando è sicura di vincere Sha’Carry agita la sua lunga mano per scrollarsi di dosso le sue avversarie. Una dea superba, gelida, inavvicinabile.
Stavolta non ha potuto replicare: la sua gara nei 100 metri non è andata come sperava, visto che le è valsa “solo” l’argento dietro Julien Alfred. Tuttavia Richardson si è rifatta nella 4x100, tirando fuori lo sprint decisivo per l’oro degli Stati Uniti sul rettilineo finale. La sua attenzione per la cultura delle unghie e delle parrucche ha mostrato due dimensioni dello stile molto importanti oggi nella cultura afro-americana, che è ultra-rappresentata mediaticamente a livello maschile nell’hip hop e nel basket NBA, ma che è poco rappresentata dal lato femminile.
Le unghie finte e dipinte sono diventate un accessorio di stile delle donne afro-americane già negli anni ’50, trainate nel mainstream per la prima volta forse da Donyale Luna, modella afro-americana per prima sulla copertina di Vogue nel 1966. Luna si copriva la faccia con le lunghe dita sfoggiando una posa enigmatica. Miliann Kang, autrice di un libro sul rapporto tra corpi, generi e stili di vita (citato qui), scrive: "Indipendentemente dalle intenzioni, la manicure francese con unghie dai colori pastello indicano donne bianche, della classe media e un’idea di bellezza etero-normativa. Unghie lunghe, scolpite, dipinte, d’altra parte, sono dei marcatori di donne afro-discendenti, sessualmente non conformi e rappresentanti di una femminilità marginalizzata".
Oltre alle unghie di Sha’Carry Richardson, altri dettagli di stile: la capra di Simone Biles, la catena al collo di Noah Lyles, il grill d’oro di Jordan Chiles e il delizioso fiocco di Melissa Jefferson, bronzo nei cento metri.
Su un altro livello semiotico lo stile della pesista Raven Saunders, che si è presentata alla gara con un balaklava nero, gli occhiali da sole tecnici e specchiati d’arancione, e i capelli tinti di verde e di blu. Saunders è una militante della comunità LGBTQ+ che sul podio di Tokyo aveva incrociato le braccia in segno di solidarietà alla sua gente. A Parigi ha ottenuto di non essere chiamata né con l’”he” né col “she” ma col “them”. Saunders non si riconosce nel binarismo di genere. La maschera è un accessorio scaramantico, visto che a Tokyo - l’olimpiade pandemica - era riuscita a vincere una medaglia, ma anche un modo per attirare l’attenzione per le cause sociali che supporta. È stato ovviamente un trigger potentissimo per tutti quelli che vorrebbero un mondo più semplice, ovvero uniformato a come la pensano loro.