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I Wrestlemania che hanno scritto la storia
07 apr 2021
Racconto degli eventi più epici nella grande epica del Wrestling.
(articolo)
29 min
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Samuel Beckett diceva: «A forza di chiamare questa cosa la mia vita finirò per crederci». È il principio che muove il wrestling, in cui i personaggi più improbabili, le mosse più assurde, le storie più inverosimili si intrecciano fra loro per esaltare o far arrabbiare una folla rumorosa. Il teatro non è tale se non c’è nessuno a guardare lo spettacolo. Da un anno a questa parte la disciplina ha dovuto fare a meno della sua componente fondamentale: il pubblico. Eppure non si è fermata, naturalmente per questioni legate al business e non per missione ideologica. La WWE ha continuato a tenere i suoi show, fra i quali Wrestlemania, nel Performance Center di Orlando, prima di spostarsi nel ThunderDome, uno studio attrezzato di pannelli led in cui sono proiettati i volti degli spettatori collegati in streaming, sul modello già adottato dall’NBA. Dopo un anno di show, per cause di forza maggiore, in tono minore sembra che, seppur con capienza ridotta, il pubblico tornerà sugli spalti del Raymond James Stadium di Tampa per assistere alla trentasettesima edizione di Wrestlemania. Non c’è dubbio che sia il palcoscenico migliore per tornare a sentire le urla dei tifosi, poiché la storia di Wrestlemania è indissolubilmente legata alla mitografia e alla platea che ha permesso di crearla. Non ci sono solo gli atleti sul quadrato, ma c’è quel corpo composto da decine di migliaia di persone capace di sottolineare ogni pugno – come nella scansione giambica di un poema epico –, di urlare per ogni conteggio, di fischiare l’antieroe sul ring, di acclamare un nuovo beniamino. Generalmente l’apice di Wrestlemania è il main event, l’ultimo match della card, il più importante, per la quale l’attesa dura anche un anno. È in questo contesto che il sogno di un’epica moderna assume, mai come prima, la concretezza dei contendenti che si sfidano per la gloria. Abbiamo dunque deciso di ripercorrere i main event più significativi della quasi quarantennale storia di Wrestlemania, per provare a registrare le evoluzioni della disciplina.

Wrestlemania III (1987) - Hulk Hogan vs Andrè The Giant

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Partiamo con l’edizione che dichiarava fin dalla sua tagline (“Bigger, Better, Badder”) l’iniziativa di dominio di Vince McMahon: portare la federazione ad un livello superiore di epicità rispetto al passato. Dai palazzetti dell’NBA al Pontiac Silverdrome: 93mila spettatori. E poi Aretha Franklin che apre con America The Beautiful, Alice Cooper che sale sul ring col pitone di Jake Roberts. Ci sono piccoli ring mobili che portano i lottatori al centro dello stadio. E poi la Hart Foundation (con un giovanissimo Bret Hart) contro i British Bulldogs, Randy Savage contro Ricky Steamboat. Ma Wrestlemania III è soprattutto il main event, Hulk Hogan contro André The Giant.

Siamo agli albori di Hulkmania, periodo storico che trasforma Hogan in qualcosa di più di un semplice corpo di muscoli, baffi e capelli imbarazzanti. È l’incarnazione della WWF e del Wrestling in generale. Hulkmania sarà un fenomeno dilatato nel tempo ma che invase tutte i Paesi che prima o poi si aprirono alla trasmissione televisiva della disciplina.

André the Giant era e sarà per sempre il gigante e l’heel per definizione di tutta la storia della federazione. Wrestler indimenticabile, personaggio raccontato in numerosi documentari (si consiglia quello della HBO, che porta il suo nome). Nell'83 si presenta all’evento con un’aria di immortalità, che si somma ai suoi 224 centimetri di altezza. Hulk prova fare una body slam nei primi secondi, ma i 245 chili dell’avversario sono insostenibili. The Giant tenta lo schienamento, poi due slam su Hulk – impressionanti da vedere, quando fatte da un uomo così grande. L’incontro cambia ritmo quando The Giant prova una testata dalla quale Hulk riesce a liberarsi.

Lunga fase in cui The Giant stringe l’avversario tramite mossa di sottomissione, una bear-hug sui fianchi. Hulk pare ormai abbattuto ma risana e parte di pugni diretti al volto. L’incontro finisce dopo un paio di minuti giocati fuori dal ring: Hulk riesce a fare una bodyslam che nessuno si aspetta, poi legdrop e quindi schienamento. Vittoria. La bodyslam di Hulk Hogan, quel supremo atto di forza, diventerà l’icona del wrestling anni Ottanta, un po’ come la rovesciata di Parola per le figurine Panini.

Non è stato l’incontro più bello della storia, ma forse quello con il pubblico più ipnotizzato, partecipativo, così presente che sembra influenzi sulle capacità stesse dell’Hulkster. A fine serata avreste detto che il wrestling sarebbe stato per sempre lo sport preferito degli americani.


Wrestlemania VI (1990) - Hulk Hogan vs The Ultimate Warrior

Nel 1990 l’Hulkmania non è ancora finita, Hogan è uno dei volti più riconoscibili della cultura popolare americana e una delle incarnazioni dell’immaginario degli anni ‘80. I negozi di giocattoli di tutto il mondo sono invasi delle sue action figure, i ragazzini imparano a imitare quel suo modo di parlare ed atteggiarsi cartoonesco. C’è un altro “face” in grado di far impazzire le folle: è James Hellwig, universalmente conosciuto come The Ultimate Warrior. Come Hulk anche Warrior è iconografico: la maschera sul volto, i segni colorati sul corpo hanno un che di selvaggio, sembra una versione ipertrofica di uno dei personaggi di Keith Haring. Il suo stile è unico e nel 1990 a The Ultimate Warrior è il face per eccellenza quanto può esserlo Hogan.

Non si arriva al main event dal nulla, nella Royal Rumble 1990 le strade dei due campioni si incrociano, quando rimangono gli unici sul ring (dopo aver eliminato un giovanissimo Shawn Michaels, prima dell’entrata di The Barbarian). Una spettacolare clothesline fatta da entrambi, lo stesso istante, è l’antipasto dell’inevitabile collisione che sarebbe avvenuta tre mesi dopo a Toronto. In palio ci sono la cintura Intercontinentale e la WWF Championship. Il main event di Wrestlemania VI è assistere a un incontro avulso ai canoni moderni, fatto di lunghe dimostrazioni di forza, lock di sottomissione, coreografie muscolari.

Bodyslam da una parte e dall’altra, Hulk finisce fuori dopo una clothesline. E poi sottomissioni per strangolamento. Hogan vorrebbe chiudere il match con un chin-lock (presa sul mento), ma l’avversario quel giorno è incredibile. Non ha senso scrivere di ogni singola azione del match, che si gioca nel tentativo di sferrare il pugno più forte, di alzare l’avversario più in alto, suscitare la reazione più rumorosa del pubblico. Una partita a scacchi di bicipiti e deltoidi che si conclude con un leg drop mancato di Hogan e lo schienamento di Warrior subito dopo.

Di quella sera vale la pena riguardarsi i video disponibili per godersi l’estetica del wrestler di quel periodo a cavallo tra due decenni: le luci dello SkyDome si riflettono sulle cinture d’oro con la stessa intensità con la quale lo fanno sui corpi dei due lottatori. Corpi inverosimili, iper-muscoli che suggerivano aiuti chimici, abbronzature artificiali, il trucco facciale scrostato dal sudore di Ultimate, i capelli fradici di Hogan. Dove l’ideale di bellezza classica ed esagerazione del trash si scambiano le idee creando la versione americana di un pantheon suggerito da Michelangelo e Jack Kirby.

L’abbraccio finale suggerisce quello che sarebbe successo dopo: nonostante la sconfitta Hulk avrebbe ancora segnato anni di attività, ma per Ultimate la strada si fece, fra beghe legali con la compagnia e problemi personali, adombrata da un lento ma inesorabile declino.


Wrestlemania XII (1996) - Shawn Michaels vs Bret Hart

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La particolarità di questa edizione furono i pochi match, di breve durata, per lasciare spazio ad un main event che avrebbe occupato poco più di sessanta minuti: Bret Hart contro Shawn Michaels, conseguenza di una rivalità divenuta leggendaria.

Lezione di storia: Bret Hart fu per anni considerato il wrestler tecnico per eccellenza, un figlio d’arte. Gli appassionati dello sport conosceranno il dungeon di Calgary, luogo mitico della formazione di Bret e di altri lottatori della sua generazione. Per chi non lo sapesse il dungeon era la palestra fondata dal padre, Stu Hart, negli anni ‘50. Stu Hart è universalmente riconosciuto come una leggenda, uno dei padri fondatori della disciplina in America. Nell’Hart Dungeon si sono allenati decine di atleti destinati ad ottenere il massimo dalla disciplina. Qualche nome: Chris Benoit, Edge, Chris Jericho. Stu Hart ha tra i suoi figli due predestinati, Owen e Bret. Sono due storie incredibili le loro, ma quella di Owen purtroppo verrà segnata da un finale tragico che non possiamo raccontare ora. Bret è campione intercontinentale e mondiale nel 1992 (sconfisse Ric Flair), veniva una faida col fratello Owen e un passaggio da heel a face.

Dopo undici anni in WWF Bret Hart è considerato il maestro dell’esecuzione, il migliore della scena, l’iron man. Ma nel 1996 Bret Hart non è più il preferito del pubblico. Su Shawn Michaels si era creata l’epica del ragazzino che sognava di fare wrestling fin da quando aveva dodici anni e abitava a Sant’Antonio, Texas. Jose Lothario fu il suo mentore, l’equivalente messicano in ambito wrestling del Maestro Miayagi di Karate Kid. Lothario divenne noto tra i cultori per una una striscia di imbattibilità di 50 incontri. Michaels è in WWE dal 1987, ma solo nel 1992 diventa un atleta di successo: forte della sua capacità al microfono e la gimmick dell’Heartbreak Kid Shawn (HBK) Michaels conquista il pubblico.

Su entrambi si era creata questa narrazione legata alla figura paterna, un filo che lega i due wrestler: da una parte il padre di sangue, Stu, dall’altra quello adottivo, Lothario. In entrambi i casi, poco importa, padri e maestri di disciplina. Sotto molti aspetti il main event di Wrestlemania XII è il momento che sancisce l’apice della carriera di Michaels, a partire da come viene presentato sul ring. È Lothario a entrare in scena per primo. Sale sul ring, saluta il pubblico. Poi indica un angolo verso il tetto: Shawn Michaels scende dal tetto tenuto da una fune, una discesa spettacolare che si conclude in mezzo a una folla in estasi.

L’Iron Match è un tipo di stipulazione in cui vince chi riesce a schienare o sottomettere più volte l’avversario. Nello specifico di quella serata l'incontro sarebbe durato 60 minuti, sessanta minuti del main event che si risolvono in un roccioso 0-0. Bret Hart che non aveva nessuna intenzione di cedere a Michaels una vittoria ordinaria, dall’altra parte la dirigenza voleva consacrare una volta per tutte Michaels. I primi trenta minuti sono molto ragionati, gli scambi tra i due si risolvono in sostanziale parità. Nella seconda mezz’ora i due cominciano ad alzare il ritmo: suplex, sharpshooter. Un tuffo suicida di Michaels su Hart lascia tutti basiti. I cinque minuti finali sono meravigliosamente frenetici, con moonsault e altri voli spettacolari.

Quando il tempo scade, durante una sharpshooter di Hart, interviene Gorilla Monsoon (presidente di federazione, storico wrestler di origini italiane, in tempi lontani conosciuto come come Gino Marella). Hart ha già la cintura in mano, ma l’incontro dovrà andare avanti in una sorta di supplementari della morte: il primo che fa un punto vince l’incontro. È la scusa che utilizza la federazione per far vincere a Shawn Michaels il titolo con la sua final move, la Sweet Chin Music. Un superkick che abbatte Hart.

Il pubblico di Anaheim (California) è in estasi e McMahon ha consacrato il nuovo volto della compagnia. Negli ultimi secondi prima della chiusura del ppv Michaels stringe la mani al pubblico in prima fila, lo fa anche con Stu Hart: due generazioni a confronto, due modi di intendere il wrestling. L’evento fu uno spartiacque nella carriera di entrambi: Michaels sarebbe diventato così potente all’interno della federazione da formare la famigerata Kliq insieme a Triple H, un gruppo di potere nel backstage in grado di influenzare le carriere dei colleghi. Per Hart c’era il tramonto, più o meno tragico, fatto di infortuni, un titolo rubato (lo Screwjob Montreal del ‘97, ma qui servirebbe un capitolo a parte) e la morte del fratello Owen.


Wrestlemania XIV (1998) - Stone Cold Steve Austin vs Shawn Michaels

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L’edizione tenuta al Fleet Center di Boston (la casa dei Celtic) viene ricordata per due o tre cose: è il primo evento della federazione a segnare un elemento di superiorità in ascolti e fan sulla WCW (lega avversaria che era ancora dominante), la presenza come ospite di Mike Tyson e l’inizio del lungo regno di gloria di Stone Cold Steve Austin.

Ma è anche l’edizione dedicata alla presenza di numerosi tag team: dai Legion Of Doom, Marc Mero e Sable contro Goldust e Luna, Cactus Jack e Terry Funk contro i ribelli New Age of Outlaw di Billy Gunn e Road Dogg. “Iron” Mike Tyson nel 1998 è nella fase post-scarcerazione e in attacco diretto al suo vecchio manager, Don King. Nel 1998 Tyson è l’uomo più cattivo del mondo, un poco di buono perfetto per una federazione che stava mutando pelle per piacere sempre di più agli adolescenti, che incarnasse uno spirito individualista, specchio di un'America altrettanto individualista. Una scelta azzardata per la federazione, che veniva da un anno di difficoltà finanziarie e la perdita di Bret Hart (passato proprio ai rivali della WCW). In quel caso Tyson avrebbe vestito gli abiti di arbitro speciale nel main event.

Michaels, del quale abbiamo già parlato , arriva a Wrestlemania come leader della stable DX Generation (gruppo di destabilizzatori poco avvezzi alle regole, formato da Triple H, Chyna, X-Pac e successivamente i New Age Of Outlaw). Ci arriva però con la schiena mezza rotta, causa un infortunio subito mentre lottava contro Undertaker alla Royal Rumble. Non solo, si scoprirà che al di là di ciò, il carattere di Michaels in quei giorni è incancrenito, dal timore e la sensazione di essersi di colpo ritrovato alla fine della carriera. Cedere il titolo, infortunio, la scomoda presenza sul ring di una star mondiale come Tyson.

Austin (un passato in WCW e ECW) ci mette circa un anno per diventare un idolo del pubblico. Gli basta vincere il King of The Ring e inscenare il monologo leggendario, Stone Cold 3:16 (descritto in questa storia). Incarna il redneck texano, amante della birra e dei pick up. Non rispetta le gerarchie, odia le piramidi manageriali. La sua stunner rappresenta la velocità e l’immediatezza con la quale ha voglia di chiudere le discussioni.

C’è una prima fase dell’incontro durante la quale Austin attacca prepotentemente, Shawn tenta la fuga ma viene abbattuto da una clothesline. Body Drop verso l’esterno del ring con il corpo di Shawn che finisce addosso a quello dell’amico Triple H (che in quel periodo veniva ancora chiamato col nome di Helmsley). Durante l’incontro si finisce addosso al tavolo dei commentatori, per poi risalire sul ring. Durante tutto il match Michaels ha il volto contrito dal dolore, si tiene una mano sulla schiena.

Il finale ricorda la resa dei conti di un film western: Shawn carica la sua Sweet Chin Music, Austin la scansa e carica la Stunner, ma stavolta è Michaels ad evitare. Poi HBK prova di nuovo la sua final move ma è Austin che prevale con la sua Stunner. In preda ai brividi Tyson conta frettolosamente i tre secondi che regalano il titolo di campione al serpente a sonagli del Texas. Sul ring Tyson indossa la maglietta del salmo Austin 3:16, poi sferra un gancio al povero Michaels. Arroganza gratuita ed estetica grunge: la WWE entrava una volta per tutte nell’Attitude Era.


Wrestlemania X-Seven (2001) : Stone Cold Steve Austin vs The Rock

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L’edizione più citata, quella più amata. WrestleMania X-Seven è la summa dell’Attitude Era, periodo storico durante il quale il wrestling decise di entrare nella sua fase di irrequieta adolescenza: dall’Austin 3:16 alla D-Generation X furono anni in cui costumi e linguaggio degli atleti presero le forme di una generazione che aveva subito le pesanti influenze del punkrock, del grunge e del rap (My Way dei Limp Bizkit come inno ufficiale dell’evento, un live dei Motorhead a introdurre “The Game” Triple H ).

WM X-7 è la libidine dell'entertainment, ogni singolo match sul cartellone ha saputo regalare soddisfazioni. Menzione speciale per un tecnicissimo incontro Kurt Angle vs Chris Benoit e il Table, Ladders and Chairs matchper eccellenza, disputato tra Edge&Christian, i Dudley Boyz e gli Hardy Boyz.

Individualismo e nichilismo sono stati i due pilastri di una generazione di lottatori dai nomi pesantissimi: su di tutti Stone Cold Steve Austin e The Rock, che si sfidano in un main event perfetto, all’ultimo annunciato come No Disqualification Match, che significava teste insanguinate e sedie, monitor e oggettistica varia che si schiantano sul corpo. Parte tutto velocissimamente.

The Rock viene attaccato subito dopo aver fatto la sua solita corner ring pose, centinaia di flash illuminano l’Astrodome di Houston, il “bionic redneck” è una furia di velocità e prepotenza. Un incontro incredibile per gli amanti del wrestling: Stone Cold omaggia il passato, tirando fuori vecchie mosse di sottomissione, sharpshooter e citazione all’incontro con Bret Hart (Wrestlemania 13 ma anche Survivor Series 1996, guardate il movimento di The Rock quando con le gambe si fa forza ad uno dei paletti del ring). I due lottatori si rubano le mosse sul finale, con The Rock che fa una stunner e Austin la Rock Bottom.

L’incontro dura qualcosa come 28 minuti. Poi sale sul ring Vince McMahon, che interviene per mettere in scena ciò che il commentatore Jim Ross definisce «il giorno in cui Stone Cold ha venduto l’anima al diavolo». Austin è Vince si alleano in un colpo di scena degno di un cliffhanger televisivo. The Rock viene abbattuto, colpito una ventina di volte con una sedia, in stile Roma su Cartagine. Il pubblico è in delirio ma non sa più per chi tifare, che turn heel inaspettato. Volano birre in lattina tra le mani magnetiche del serpente a sonagli texano, che se le finisce in una sorsata e brinda con McMahon, mentre all’orizzonte si staglia la storyline dell’Invasion, periodo storico in cui gli atleti della deceduta WCW entrarono in federazione.

«This is Wrestlemania, you can’t understand. Hearts can be broke, legends are gonna be bad, egos will be shattered and ass are gonna be kicked. We’ve to a match, let’s go!», esclama Bradshaw al suo compagno di Tag Team, Farooq, durante i primi minuti di quella sera. Era tutto vero.


Wrestlemania X-8 (2002) – The Rock vs Hulk Hogan

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Il main event di Wrestlemania X-8, un pur solido Jericho vs Triple H, fu disputato di fronte a una platea meno coinvolta del solito. Poco prima si era disputato il match “Icon vs Icon”, uno degli incontri più coinvolgenti della storia di Wrestlemania, nonché quello che da tutti è riconosciuto come il vero segmento principale di quell’edizione. Per la prima volta si sfidavano The Rock e Hulk Hogan, i beniamini del pubblico di due generazioni differenti, icone – per l’appunto – del wrestling e dell’era Attitude. Non è sbagliato individuare in Hogan uno degli attori principali di quel periodo: seppur nella seconda fase della sua carriera e ormai lontano dal consenso univoco degli anni Ottanta, era stato lo stesso Hulkster a mettere in moto quella serie di cambiamenti che portarono il wrestling dei Novanta a proporre contenuti più adulti. In WCW Hogan, che si faceva chiamare Hollywood, aveva effettuato il più inaspettato turn heel della storia, divenendo leader del New World Order, stable in grado di dominare per anni nella federazione di Ted Turner. L’efferatezza e l’estetica “dark” aveva generato tanto interesse attorno alla NWO da permettere alla WCW di vincere la guerra degli ascolti con la WWE. La risposta della WWE fu, allo stesso modo, di rinnovare il target delle sue trasmissioni, e lasciare spazio ai beniamini del periodo Steve Austin e The Rock: match più duri, trame dal sapore grunge. Se il match fra Austin e Rock di Wrestlemania X-7 rappresenta l’apice dell’Attitude Era, il match con Hogan dell’anno successivo ne rappresenta il commiato. Hogan, Hall e Nash – il nucleo originale della NWO – arrivano in WWE da heel, per supportare Vince Mcmahon nella faida contro Ric Flair. Le schermaglie fra la stable e Austin e Rock hanno però esiti diversi: se Hall e Nash si comportano da heel puri contro Austin, Hogan viene acclamato dal pubblico quasi più di The Rock, necessitando dunque di un turn face. Per questo il leader della NWO chiede ai suoi accoliti di non interferire nel match contro Rock.

Il match si disputa in una bolgia, ogni pugno o esultanza è sottolineata da un boato mai visto, un coinvolgimento che oggi ci pare irreplicabile. Ad affrontarsi c’è la storia del wrestling e il suo presente, due combattenti in grado di scandire il ritmo pur sostenuto con le loro mosse iconiche: People’s Elbow, Rock Bottom, Atomic Leg Drop. Nell’ultimo minuto Hogan connette nuovamente con la sua mossa finale, e sembra davvero essere sul punto di vincere, al conto di 'due' la folla esplode in un urlo di riprovazione, Hogan, ormai completamente face, non se ne capacita, carica nuovamente il Leg Drop, ma stavolta va a vuoto. Nei fischi assordanti della folla, forse per la prima volta nella sua carriera, The Rock mette a segno il People’s Elbow, poi si trascina sul corpo dell’avversario, il conto è di 3. Ma non c’è tempo di festeggiare, sul ring sopraggiungono Hall e Nash, che attaccano l’ex leader, reo di aver perso. Rock e Hogan allora si coalizzano e respingono al mittente gli attacchi degli avversari. Fatta piazza pulita sul ring i due si guardano negli occhi, c’è una luce diversa negli occhi di Hollywood, tende la mano a Rock, i due se la stringono, riconoscono entrambi il valore dell’avversario. Nel tifo riconciliatorio dell’arena, sorreggendosi l’uno sulla spalla dell’altro, escono dall’arena, Hogan festeggia con le mosse che l’hanno reso famoso negli anni Ottanta, sancisce l’ascesa nel pantheon delle leggende. La guerra fra WCW e WWE si chiude con un abbraccio, l’elegia dell’Attitude Era.


Wrestlemania XX (2004) – Chris Benoit vs Shawn Michaels vs Triple H

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Prima di Wrestlemania XX non era mai stato disputato un main event con più di due uomini sul quadrato, se si eccettua il match di coppia di Wrestlemania I (Hulk Hogan e Mr T. vs Roddy Piper e Paul Orndorff, costruito sullo star power dell’attore di A-Team) e il fatal 4-way di Wrestlemania XVI (Triple H vs Mick Foley vs Big Show vs The Rock, in cui però il focus era la faida fra i vari membri della famiglia McMahon, ognuno all’angolo di un contendente). Il motivo è semplice: Wrestlemania è il palcoscenico che più si presta alla narrazione epica e l’epica, dai tempi di Ettore e Achille, è sempre stata una faccenda a due. Eppure non si può dire che la costruzione di questo match manchi di titanismo, complice il background di Chris Benoit.

Quel Chris Benoit capace di mettere in piedi incontri dall’alto tasso tecnico non solo in WWE ma anche in ECW, federazione ingiustamente ricordata solo per la componente hardcore. Dopo gli inizi nella promotion di Paul Heyman – la mente dietro il suo storico soprannome “The Canadian crippler”– Benoit aveva militato per gran parte degli anni Novanta nella WCW, arrivando a vincere il titolo dei pesi massimi in una compagine già al collasso. Un titolo reso vacante dopo pochi giorni poiché Benoit, da tempo in rotta di collisione con il booking team, aveva deciso di passare alla WWE. Dal 2000 al 2003 le cose per Benoit non vanno troppo bene, pur disputando match spettacolari e vincendo qualche titolo minore non si discosta dal midcarding, il canadese non sembra avere il fisico dei big man che tanto piacciono ai vertici della federazione né l’abilità al microfono per competere con i Triple H o The Rock di turno. Eppure la reputazione da underdog sarà proprio il punto di forza della strada di avvicinamento a Wrestlemania XX: Benoit entra con il numero 1 nella Royal Rumble del 2004 vincendola dopo un’ora di permanenza sul ring, prima di lui solo Michaels era riuscito nell’impresa di trionfare con il numero più basso. Da quel momento in poi l’ascesa è inarrestabile, il canadese si infila nella rivalità fra Michaels e Triple H passando continuamente per il terzo incomodo che mai ce l’avrebbe fatta a strappare il titolo ai veterani della federazione. Ma anche Benoit a suo modo è un veterano, combatte da più di un decennio senza aver ancora raccolto quanto seminato.

Il match di Wrestlemania è un capolavoro di storytelling, i tre contendenti mettono in luce le proprie doti: la forza di Triple H, la versatilità di Michaels, la tecnica di Benoit. La contesa si svolge senza esclusione di colpi, Michaels e HHH finiscono il match in una maschera di sangue, Benoit deve incassare un doppio suplex sul tavolo dei commentatori che sembra metterlo definitivamente ko. Ma, da copione, è Davide a spuntarla contro Golia: nelle battute finali Benoit omaggia il connazionale Bret Hart chiudendo Triple H nella sharpshooter, mette fuori dai giochi un redivivo Michaels, infine applica la clipper crossface, la sua mossa finale, al campione HHH, riuscendo a farlo cedere. La folla è in visibilio, Benoit è finalmente campione dopo anni di sacrifici, lo raggiunge sul ring Eddie Guerrero che poco prima aveva conquistato il titolo mondiale di Smackdown battendo Kurt Angle. I due, compagni di mille battaglie, si abbracciano, i coriandoli celebrano la rivincita degli underdog nel ventennale di Wrestlemania. Un instant classic.

Ma, come spesso accade nel wrestling e nella vita, il sublime si accompagna alla tragedia: l’immagine di Guerrero e Benoit trionfanti viene ben presto accantonata dalla WWE. Solo un anno dopo Guerrero muore di arresto cardiaco, nel 2007 Benoit, in un gesto di inspiegata follia, ammazza la moglie Nancy e il figlio Daniel prima di togliersi la vita. La violenza efferata colpisce l’intero mondo del wrestling, spingendo tifosi e addetti ai lavori a riconsiderare la parabola di Benoit. La damnatio memoriae della WWE è draconiana, niente più immagini, video o menzioni del canadese negli show della compagnia, un goffo tentativo di cancellare la storia piuttosto che provare ad affrontare la figura di Benoit in tutta la sua drammatica complessità.


Wrestlemania XXVI (2010) – Shawn Michaels vs The Undertaker

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Michaels e Taker sono stati nomi di punta della WWE negli anni Novanta, capaci di traghettare la compagnia prima, durante e dopo la Monday Night War, la guerra degli ascolti con la rivale WCW. Alcuni dei loro match sono iconici, basti pensare al primo Hell in a cell della storia. Durante un Casket match contro il becchino, a Royal Rumble ’98, Michaels si procura l’infortunio alla schiena che lo terrà fuori quattro anni. Nel 2002, quando torna a lottare, è nel roster di Raw, mentre il Phenom milita in quello di Smackdown. Le loro strade tornano a incrociarsi alla Rumble del 2007: i due si trovano a essere gli ultimi sul quadrato nell’incontro a eliminazione, disputando di fatto un match nel match, in uno dei più incerti finali di rumble che si ricordi. A vincere è il becchino, ma gli applausi sono per entrambi. Tuttavia prima che la faida si accenda occorre aspettare il 2009 quando Michaels ottiene la possibilità di sfidare Taker a Wrestlemania XXV. Per lo status che hanno acquisito nel corso degli anni il match si configura come uno scontro fra leggenda, ma ciò che i due fanno vedere sul quadrato supera le aspettative, risultando lo show stealer della serata. HBK perde ma non ci sta, dopo un match tanto epico è chiaro che vuole la rivincita. La faida si costruisce attorno all’ossessione di Michaels: vendicarsi della sconfitta subita. Taker gliela concede solo dopo che il rivale interviene in match titolato contro Chris Jericho, facendogli perdere l’alloro. Ma stavolta la posta si alza: Michaels è costretto a mettere in palio la sua carriera. Michaels ha 45 anni, è nella fase conclusiva della sua carriera e vuole concludere la sua straordinaria parabola ancora in pieno possesso delle sue forze, non c’è palcoscenico migliore di Wrestlemania, né avversario più adatto. Nonostante il match dell’anno precedente sia da annali della disciplina, la rivincita di Wrestlemania 25 è se possibile ancora più ricca di pathos. La possibilità di veder finire la carriera di HBK trasforma ogni conto dell’arbitro in un picco di tensione. Le leggende sfoderano il meglio del proprio repertorio: voli fuori dal ring, moonsault sul tavolo dei commentatori, l’uso di oggetti (il match è senza squalifiche), momenti di wrestling a terra, rapidi capovolgimenti di fronte. Nonostante gli sforzi di Michaels è Taker a mettere a segno la Tombstone Piledriver de KO, eppure il Phenom è titubante, come se non se la sentisse di scrivere la parola fine nella storia di Michaels. Michaels si aggrappa alle sue ginocchia, con le ultime forze lo irride, incitandolo a terminare ciò che ha iniziato, proprio come aveva fatto Ric Flair con lui solo due anni prima, spingendolo a mettere a segno la Sweet Chin Music che sancisce la fine di un’altra straordinaria carriera. Taker chiude gli occhi per un secondo, si carica nuovamente Michaels sulle spalle, connette con l’ennesima Tombstone. E l’arbitro conta fino a tre. La carriera dell’HBK è terminata, Taker lascia il quadrato, Michaels si rialza, viene acclamato dal pubblico, la folla urla il suo nome per l’ultima volta, mentre percorre la passerella HBK si ferma malinconicamente a toccare le mani tese dei fan. Saluta ancora la folla, abbandona l’arena. Un degno commiato per uno dei più grandi di questo business.


Wrestlemania XXVIII (2012) – The Rock vs John Cena

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La rivalità fra Cena e The Rock non è stata solo una faccenda di wrestling. LA WWE ha messo in piedi questo incontro soprattutto per sfruttare l’enorme popolarità del People’s Champ nel mainstream americano. Non si era mai vista una rivalità così influenzata da scelte di business. Le schermaglie fra Cena e The Rock iniziano a Wrestlemania XXVII quando Rock interviene nel match per il titolo fra The Miz e Cena, attaccando entrambi ma di fatto permettendo a Mizanin di vincere l’incontro. Il giorno dopo a Raw Johnson e Cena si confrontano, Rock accetta la sfida del bostoniano, la cornice sarà Wrestlemania dell’anno successivo. In modo quasi pugilistico viene dunque fissato un incontro con dodici mesi d’anticipo. L’obiettivo della federazione è creare aspettativa per un evento mediatico senza precedenti. Una strategia che sui grandi numeri paga: i biglietti di Wrestlemania vanno a ruba a molti mesi dall’evento. Nel corso dell’anno Rock si fa vedere sui palcoscenici più importanti della WWE per ricordare la sfida a Cena, la rivalità con fra i due si gioca sulla falsariga della lealtà: due face per eccellenza, due grandi sportivi, che si confrontano per dimostrare di essere i migliori. Cena e Rock combattono insieme a Survivor Series, sconfiggendo The Miz e R–Truth, con l’avvicinarsi di Wrestlemania le apparizioni di The Rock si intensificano così come le schermaglie con Cena.

Lo Showcase of the Immortals si tiene a Miami, la città di elezione di The Rock, nel main event ottantamila persone scandiscono i colpi dei contendenti che, dal canto loro, non deludono le aspettative. Il ritmo della contesa è alto, a dimostrazione di come nonostante gli anni passati fuori dal ring The Rock non abbia perso l’intesa con il quadrato, i due sfoderano i colpi migliori, arrischiandosi anche in territori inconsueti, come le manovre dalla terza corda. Allo stesso modo ciascuno cerca di rubare le mosse dell’altro, come a citare lo storico main event di Wrestlemania X-7 fra Rock e Austin. Proprio un tentativo di connettere con il People’s Elbow sarà fatale per Cena: con un ultimo colpo di reni Johnson si rimette in piedi e mette a segno la Rock Bottom. L’arbitro conta fino a tre, dopo mezz’ora di contesa The Rock può alzare le braccia al cielo, si scatena una bolgia infernale.

L’indotto di questo match è talmente positivo che la federazione decide di riproporlo l’anno dopo, stavolta con in palio il titolo WWE, nella rivincita – altrettanto epica ma viziata dalla mancanza del fattore novità – a spuntarla è Cena. Sarà l’ultimo match di The Rock (se si eccettua uno squash di sei secondi ai danni di Eric Rowan a Wrestlemania 32); la faida con Cena segna un cambiamento per la WWE che, nell’ultima decade, ha adottato spesso la strategia di mettere in piedi “dream match” con superstar trattate come leggende – si vedano le ultime apparizioni di Batista, Lesnar, Goldberg. Dopo la generazione d’oro dell’Attitude Era, la federazione non ha saputo costruire superstar dallo status così duraturo.


Wrestlemania XXX (2014) – The Undertaker vs Brock Lesnar

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Undertaker non partecipa a Wrestlemania, Undertaker è Wrestlemania. Le sue 25 vittorie, delle quali 21 consecutive, sono lì a dimostrarlo. Uno score perfetto che nessuno si sognava di scalfire, almeno fino alla trentesima edizione dello Showcase of the Immortals. Non è un main event, ma è sicuramente l’evento più scioccante dell’intera storia di Wrestlemania: 6 aprile 2014, il giorno in cui Undertaker perse l’imbattibilità.

Negli anni Duemila la Streak inizia a guadagnare contorni leggendari, edizione dopo edizione cadono tutti i nomi più importanti della federazione: da Ric Flair a Batista, passando per Edge e Randy Orton in versione “Legend Killer”, a cavallo degli anni Dieci Taker infila una serie di prestazioni memorabili: due vittorie con Michaels, due con Triple H (in quelli che verranno definiti “End of Era matches”, il commiato dei più forti della disciplina), una vittoria contro CM Punk reduce da un regno da campione di 434 giorni. Davvero Lesnar può mettere in discussione il suo dominio?

Certo The Beast non è uno come gli altri: a 25 anni è già campione dei pesi massimi (il più giovane, un record superato poi da Randy Orton), si distingue per la potenza indiscussa, per l’insospettabile tecnica e per l’agilità fuori dal comune per un mostro di quella stazza. 190 cm per 130 kg e la capacità di eseguire una Shooting Star Press: questo è Brock Lesnar. Lesnar riesce a lasciare il segno nella WWE nonostante una militanza di soli due anni. Poi, attratto da altre sfide, si butta in UFC e lì, nonostante lo stigma che vede i wrestler “darsi colpi finti”, collezione uno score di 5 vittorie e 3 sconfitte, vincendo il titolo dei pesi massimi. Quando ritorna in WWE ha uno status sensibilmente superiore agli altri wrestler del roster, viene usato con il contagocce, come l’attrazione principale che brutalizza gli avversari, e che nessuno riesce a fermare. È normale che la sua traiettoria dovesse andare a collidere con quella dell’uomo che davvero nessuno riesce a battere.

La costruzione del match di Wrestlemania XXX è canonica, Paul Heyman lancia la sfida al Deadman, Taker accetta, si prospetta il “solito” scontro fra superuomini. Ma il match è tutt’altra cosa: due torri di carne e muscoli che si fronteggiano, pugni e calci scagliati sul corpo dell’avversario come una sentenza definitiva. Il quadrato si trasforma nel festival delle mosse stiff, quelle portate senza trattenere il colpo, una rissa molto simile ai match di Lesnar in UFC. I suplex fanno tremare il ring, le powerslam scuotono i paletti e il pubblico che guarda allucinato. Una F-5 non basta per fermare Taker, allo stesso modo una Tombstone non mette fine alla rincorsa di Lesnar. E poi semplicemente accade: ennesima F-5 di Lesnar, il corpo di Taker compie una torsione nel vuoto e si schianta a terra, Lesnar è sopra di lui, 1-2-3. Tre! Non c’è giubilo nella reazione dell’arena, solo un silenzio assordante, gli occhi sgranati si impongono sul volto di ciascun spettatore. Undertaker ha perso a Wrestlemania. Si è speculato tanto sulla sconfitta di Taker, si è avanzata l’ipotesi che al momento del conteggio avesse una commozione cerebrale, quale che sia la verità la sostanza non cambia. Heyman sale sul ring sussurra a Lesnar che sì, ce l’ha fatta, The Beast si apre in uno dei suoi rari sorrisi. Abbandona il ring e lascia spazio a Taker che si alza ancora incredulo, chiede quasi scusa ai fan, e i fan sono con lui, non possono biasimarlo: hanno assistito al farsi della storia di questa bizzarra disciplina.

Taker torna di nuovo a Wrestlemania, raggranella qualche vittoria, concede un altro prestigioso schienamento a Roman Reigns, il volto odierno della federazione, conclude la carriera l’anno scorso nel match “cinematografico” con AJ Styles. Nel finale si allontana in sella alla sua moto, perdendosi nell’oscurità, le tenebre dove lui brillerà per sempre come un attore fondamentale dello sports entertainment.




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