Mike Powell ci era rimasto male, in quel luglio del 1991. Non che quella gara fosse niente di speciale: era una delle tante competizioni di preparazione ai Mondiali di fine agosto. Né lo preoccupava il risultato. Aveva vinto, di nuovo, come sempre quell’anno, tranne una volta sola. Ci era rimasto male perché quando aveva notato Bob Beamon sugli spalti, aveva pensato: «Ora gli faccio vedere quanto so saltare lontano». Non esisteva pubblico migliore a cui dimostrarlo: Bob Beamon, il detentore del primato del mondo alla fantastica misura di 8.90 m stabilito a Città del Messico, nel ’68.
Ma Beamon, a un certo punto, era uscito dagli spalti. Powell l’aveva visto, proprio mentre preparava il suo salto: non lo riteneva forse degno di considerazione? («Non l’avevo riconosciuto», si sarebbe scusato più avanti). Sapeva di meritarla, la considerazione. Nel power ranking dei migliori saltatori in lungo d’America, Powell sedeva comodamente al secondo posto. Come si diceva, in quei primi sette mesi del 1991 aveva partecipato a quattordici competizioni. Le aveva vinte tutte, tranne una sola, i campionati statunitensi. L’unica in cui aveva affrontato Carl Lewis, che di quella stessa classifica era il padrone indiscusso.
La presenza di Lewis ai campionati nazionali, nel giugno 1991, è un’epifania: ha vinto 64 gare consecutive negli ultimi 10 anni, ma è alla sua prima competizione stagionale. Ha quasi trent’anni e da dieci domina velocità e lungo, ma deve iniziare a contrattare gli impegni col suo fisico. I campionati nazionali rientrano nell’accordo: Powell conduce dopo essere atterrato a 8.63 dalla pedana, ma all’ultimo salto Lewis stampa 8.64. Sessantacinquesima vittoria di fila, prossima fermata: Tokyo, 30 agosto, campionati mondiali.
In Giappone Lewis ci arriva da bicampione olimpico della disciplina, ma soprattutto da uomo incaricato dalla storia a battere il record di Beamon. Lasciando il ritratto di quel salto a Giuseppe Pastore, permettetemi di riassumere le caratteristiche tecniche del balzo del secolo. 8.90 m di lunghezza, 2.292 metri sul livello del mare, +2.0 m/s di vento alle spalle – il massimo consentito, prima che la sua spinta venga considerata troppo influente, e un eventuale record non registrato: una prestazione prodigiosa e notevolmente aiutata dalle condizioni climatiche. Per 14 anni, nessuno riuscirà ad avvicinarsi a meno di 20 centimetri da quella misura. Il primo a farlo è ovviamente Lewis, 8.76 nel 1982. Tra il ’68 e il ’91 solo tre atleti riescono a volare oltre gli 8.70, per un totale di nove volte. Una il sovietico Robert Emmijan (strabiliante 8.86), due lo statunitense Larry Myricks (l’ultimo uomo capace di battere Lewis). E Carl Lewis stesso ovviamente, sei (sei!) volte. Se c’è qualcuno che può andare oltre Beamon, be’, è lui.
Il cliché è dei più abusati, ma questa volta è letterale: nella capitale giapponese l’aria è elettrica, a causa di un tifone che si sta avvicinando alla città e pare promettere fulmini e saette. L’umidità è soffocante, un forte vento spira nella direzione di rincorsa sulla pedana del salto in lungo. È un contesto sportivamente rischioso: la spinta del vento può far perdere i riferimenti della rincorsa, calibrata nei tanti allenamenti per raggiungere con precisione la linea di stacco alla massima velocità. Qualche metro alle spalle di troppo, e c’è il rischio di farsi trascinare oltre la plastilina. Ma come spesso accade con i fenomeni della natura, il vento è anche un’opportunità: se riesci a evitare il pericolo del nullo, allora rischi di finire molto, molto lontano. Le qualificazioni hanno regalato una prima notizia: il sovietico Emmijan rimane fuori dalla finale a 13 per un centimetro. L’atleta formidabile capace di saltare 8.86 del 1987 è svanito. Se n’è andato con il terrificante terremoto in Armenia dell’anno successivo, che ha portato via gran parte della sua città natale di Leninakan, suo padre, e quella leggerezza necessaria, se vuoi saltare molto lontano.
Lewis entra in finale con la miglior misura, 8.56. 35 centimetri meglio del secondo, un’immensità. Powell si nasconde dietro a un 8.19 saltato al primo salto di qualificazione. Lewis, tra l’altro, non si accontenta certo del lungo. Cinque giorni prima della finale ferma il cronometro nei 100 metri a 9”86, prendendosi campionati e record del mondo, dominando una finale stellare con sei uomini sotto i dieci secondi e un podio tutto statunitense. All’alba dei trent’anni, con sei medaglie d’oro olimpiche e altrettante mondiali in bacheca (più l’ultima ancora al collo), Carl Lewis è ancora il miglior atleta che l’Alabama, gli Stati Uniti e il mondo intero possano offrire.
Powell lo sa, ma sa anche che ha in canna un grande salto. Uno solo magari, ma magnifico. Sta bene, non farà il record del mondo, ma sono un paio di giorni che si sente molto veloce in pista, chiaramente una delle caratteristiche più importanti per balzare il più lontano possibile. Chissà se ci pensa, e quanto ci pensa, a questo potenziale grande salto, quando parte con il primo tentativo della sua finale. Una schifezza, 7.85. Ok, troppa pressione, troppa voglia. Bisogna alleggerire la tensione, entrare in finale un salto alla volta, si deve ripetere tra sé e sé. C’è tempo.
È falso, non c’è tempo. Lewis è una maschera, mentre osserva l’orizzonte come se fosse il suo traguardo, come se volesse staccare dalla pedana e volare direttamente in pista, oltre la sabbia, oltre gli spalti. Parte, accelera, stacca, atterra: 8.68, vento assente. Record dei campionati del mondo e miglior prestazione mondiale dell’anno, al primo salto della finale. Powell capisce che bisogna darsi da fare, mentre torna in pedana per il secondo tentativo.
La sua rincorsa è energica, quasi scomposta. È un fondamentale che gli ha sempre giocato qualche scherzo: in allenamento ha superato anche gli 8.90, ma troppo spesso si disunisce e finisce in fallo. Deve regolarsi: quattro passi di camminata, 22 di corsa piena, quattro anche in aria, mulinando nell’etere. Dalla tribuna è difficile capire subito com’è andata, nascosto com’è il fossato d’arrivo dagli uomini schierati in attesa di partire per le batterie dei 5000m. Lui lo sente buono. Ok, pensa dopo l’atterraggio, sarà almeno 8.20, 8.30 forse. Quando il tabellone si illumina e mostra 8.54, Powell guadagna certezze: si può andare ancora più lontano, anche se non ci riesce nel terzo, 8.29. Lewis, nel frattempo, si concede una sbavatura: nullo con tutte le dita del piede, ma è andato di nuovo molto lontano. Sorride, compiaciuto di una gamba che sembra quella delle grandi occasioni.
Lo dimostra di nuovo, pochi minuti dopo. La sua concentrazione è totale, il suo animo tanto calmo e piatto che ci si potrebbe specchiare. Si avvicina lentamente, la testa bassa, al segno che gli indica dove iniziare la rincorsa. Si sussurra qualcosa. La banderuola posta in prossimità dell’atterraggio suggerisce vento. Lewis parte, nella sua rincorsa apollinea, solido ma elastico come un bambù, ovviamente velocissimo: atterra, guarda velocemente il segno, poi la tribuna. Attenzione: è un grande salto.
In momenti come questo, un saltatore comune pensa alla misura. Ma Lewis, nella sua sfida con la storia, deve rispettare anche un’altra tappa: c’è da attendere il misuratore del vento, per capire se il salto sarà registrabile negli albo dei record. Se quel numero è sotto i 2 m/s, l’attesa per la misura della lunghezza può soffocare. Lewis si prepara al primo responso, ma tradisce soddisfazione. Stringe i pugni, mostrando il primo vero sorriso della gara, poi una smorfia tende le labbra con un’espressione commossa. Sul display compare +2.3 m/s, Lewis dimostra disappunto battendosi le mani. Non potrà essere record, e non lo sarebbe stato, ma è comunque uno strepitoso 8.83. Torna a rivolgersi alla tribuna con i pugni in aria, poi rotea il destro sorridente. Ventoso o no, non ha mai saltato così lontano in vita sua. Beamon è ancora distante, ma mai come questa sera sembra in bilico. Dopo tre salti, il titolo di campione del mondo sembra a un passo. Nel frattempo, da tredici finalisti si passa a otto, che avranno a disposizione altri tre tentativi.
A Powell ne può bastare uno. Lo sa che Lewis ha le capacità per saltare mediamente più lungo di lui, ma sa anche di avere un picco comparabile, forse superiore. Se la rincorsa dell’avversario ha la grazia di Apollo, la sua è dionisiaca, piena di vita e di volontà: il volo è alto, ma soprattutto lungo, lunghissimo. Si rialza già esultando, dai valori approssimati che si possono distinguere sul tabellone che corre lungo la fossa d’atterraggio sembra sopra gli 8.80. Powell però si guarda dietro, e gela: bandierina rossa, il salto è nullo. Chissà se pensa di avere sprecato il salto della vita, mentre si avventa sui giudici e sulla pedana, alla ricerca del segno che provi il suo peccato. Non lo vede, forse non vuole vederlo, ma il segno c’è, un alito della punta del suo piede. A quella scena – anche un po’ patetica – Lewis forse assiste, certo non ci dà grande peso. La sua pura concentrazione riesce a proteggerlo da tutto il marasma circostante, mentre al suo quarto tentativo stampa la distanza più lunga mai saltata da un uomo: 8 metri e 91. Non può però proteggerlo dal vento che soffia alle sue spalle: +2.9 m/s, non è record del mondo.
Sembra importare poco, il disappunto dura l’attimo di un battito di mani stizzito. Quando appare la misura, Lewis alza il pungo e rotea il destro. L’esultanza è gioia, ma anche orgoglio: in volto si dipinge l’espressione del cacciatore. Batte le mani e continua a correre con il pungo alzato, mentre i replay mostrano la pedana restituire l’alito della scarpa di Powell a quella di Lewis, perfetta al millimetro. Finalmente un centimetro oltre Beamon. Formalmente il record non è caduto, ma in questo istante sembra non importare a nessuno, tantomeno a lui.
Sono tutti felici allo Stadio Olimpico di Tokyo, tutti tranne uno. E la furia di Mike Powell, da sola, potrebbe pareggiare su una bilancia ipotetica tutto l’entusiasmo che trascina la pista e le tribune. La pancia gli dice che è ora di alzarsi e andare a fare a cazzotti con quel semidio a un passo dall’essere ammesso al monte Olimpo – troppo bello, troppo forte per perpetrare ancora quella ridicola pretesa di fingersi umano.
Più che il salto, a non piacergli è l’esultanza: l’ha presa sul personale, neanche sa perché. Se la porta in pedana quella rabbia, quel desiderio di vedere tutto bruciare al prezzo di un solo, grandioso salto. Già dai giorni prima sapeva di dover battere il record del mondo per vincere quella finale, adesso è ufficiale. Sbraccia nella fase di camminata, come a pescare energia nell’aria pesante che promette temporale. Si riconnette agli elementi: il tifone in arrivo, l’elettricità. Accelera, stacca. I soliti quattro calci al cielo, poi giù nella sabbia. Si rialza chiamando l’entusiasmo della folla, ma il volto è governato dalla rabbia.
Il primo responso: bandiera bianca, il salto è buono.
Il secondo responso: +0.3 m/s di vento. Il vento di Tokyo si è concesso una pausa.
La rabbia trasfigura lentamente in tensione. Powell saltella e batte le mani impaziente, gli occhi fissi sul tabellone. Non c’è altro nel mondo: il suo corpo teso come un arco, i suoi occhi, il tabellone a cui sono rivolti. Per un attimo cerca qualcosa alla sua sinistra, ma sembra non trovarlo.
Il terzo responso: otto metri e novantacinque.
A che velocità viaggia un’emozione? Powell abbassa la testa per un attimo, ma quando la rialza – come in uno spettacolo trasformista – dove prima c’era furia primordiale ora ci sono solo gioia e sorpresa. Le gambe si muovono da sole sotto la tribuna, mentre le braccia si perdono nel vento lo sguardo sul pubblico in delirio, senza meta se non la felicità perfetta. 8.95! È primo, dopo una gara a rincorrere, è finalmente in testa, a un passo dall’oro.
Poi, lo speaker pronuncia due parole fatali: «world record». Solo in quel momento Powell capisce che Bob Beamon è caduto. Il pioniere che aveva portato l’umanità in un’altra dimensione con parecchi anni di anticipo è stato finalmente ripreso e superato. Per 23 anni, nessuno sembrava poter raggiungere quegli irraggiungibili 8.90. Nel giro di cinque minuti, ci sono riusciti in due. Powell è frastornato, torna nella zona di inizio rincorsa. Dave Culbert, lunghista e amico australiano, gli si avvicina e gli batte entrambe le mani, ma sente di dover dare anche una cattiva notizia. Con un accenno di preoccupazione sussurra: “Ne ha ancora due”, sussurra. Dopo la rabbia e la gioia, Powell ora ha paura. Pensa: “Farà 9 metri. A quel punto dovrò fare 9.10, e sperare che lui non faccia 9.15”.
Non è mai finita quando salta Carl Lewis. Neanche due mesi prima, l’ultimo salto ai campionati nazionali gli diede il centimetro decisivo per vincerli. Chi mette la mano sul fuoco che non lo farà anche questa volta? In quello stadio, nessuno. Powell meno di tutti. Il quinto tentativo del Figlio del Vento è un altro capolavoro. Lewis guarda il segno, alza ancora il pugno sinistro, stavolta senza troppa convinzione. Il vento è ok, -0.2 m/s. Rientra a testa bassa verso la zona di rincorsa, quando si illumina il display: 8.87, il suo miglior salto con vento legale della carriera, il terzo miglior balzo della storia. Ha saltato 8.91 e 8.87 in sequenza – prima ancora 8.83. Eppure è secondo.
Powell è disteso a terra, gli occhi al cielo, un tic alle labbra: sa che il destino della migliore gara della sua vita è scivolato dalle sue mani. Prova a recuperare la concentrazione per l’ultimo salto, ma è nullo. Il saluto al pubblico sono due mani congiunte, un po’ ringraziamento e un po’ preghiera. L’unica cosa che resta da fare.
Funziona. L’ultimo salto di Lewis è ancora superbo, ma ancora non basta: 8.84, di nuovo sopra il suo precedente primato, ma sempre meno del nuovo solco posto dall’umanità, a 8.95. Chissà per quanto potrebbe continuare a saltare sopra gli 8.80 quella sera, ma la gara è finita. Lewis ha completato quella che, a conti fatti, è la più grande serie di salti in lungo nella storia dell’atletica. Prima di quel giorno, l’essere umano aveva raggiunto gli 8.80 solo due volte nella propria storia, Beamon ed Emmijan: Lewis l’ha fatto quattro volte, una di fila all’altra, nella stessa notte. Una consistenza nell’eccellenza che non ha paragoni. Ha superato Beamon di un centimetro – con l’aiuto del vento, ma senza quello dell’altitudine. Eppure, dopo dieci anni, ha perso contro la tempesta perfetta: un solo, imbattibile salto, nella notte giusta, dell’unico altro uomo capace di sfidarlo e che nel batterlo ha trovato la più grande soddisfazione della propria carriera. Più del titolo di campione del mondo, forse anche più del record, l’ossessione di Powell era battere Carl Lewis. Se per farlo c’era superare anche Bob Beamon, tanto meglio.
Powell finalmente esulta, corre ad abbracciare il giudice della pedana. Lo solleva, lo agita e quello sta lì, sballottato insieme alle sue bandierine. Abbraccia anche Lewis, forse si vergogna per quei pochi secondi di odio, forse lo ringrazia. Senza Lewis, quel salto a 8.95 forse non sarebbe mai esistito. È stata la voglia matta di batterlo, covata negli anni, a spingerlo così lontano, più di ogni allenamento, più di qualche decimale di vento a favore. Ancora oggi, Powell non ha dubbi del definire Lewis il migliore saltatore in lungo della storia.
A fine gara, Powell si interroga ai microfoni: «Non so se Carl saprà batterlo, ma stanotte sono io il detentore del record del mondo». Difficilmente poteva immaginare che il personale di Lewis si sarebbe fermato a quegli 8.87 e le notti si sarebbero accumulate una sopra l’altra per più di trent’anni 30 anni, e chissà per quante ancora a venire. Quando gli chiedevano cosa mancasse ai saltatori di oggi per raggiungere quelle misure (e prima che talenti spropositati come Juan Miguel Echevarria e Miltiadis Tentoglu rendessero possibile immaginare un nuovo record), Powell rispondeva sul tecnico: «Non corrono abbastanza veloci e non riescono a convertire la velocità in elevazione al momento dello stacco». Ma prima di tutto, ricordava: «Aiuta avere qualcun altro che salta molto lontano».