Nel primo dei tre episodi con cui Netflix ha anticipato l’incontro tra Jake Paul e Mike Tyson vediamo i loro due mondi a confronto. Vediamo il leggendario pugile sessantenne girare per Brooklyn e ricordare i posti della sua infanzia: il posto dove gli ha sparato la polizia e quasi lo ha preso, quello dove un bullo ha strappato la testa di uno dei suoi amati piccioni (la sua origin story già raccontata e riraccontata, una versione più cruenta della bicicletta di Muhammad Ali), la stanza dove dormiva quando viveva con la madre, col pavimento pieno di merda di animali.
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A un certo punto, mentre Tyson cammina sotto un’impalcatura di metallo, gli si avvicina un tizio che gli dice: «Quando avevo otto anni mi hai rapinato». Non c’è nessun rimprovero nella voce del tizio rapinato, sembra semplicemente contento. «Vicino al Woolworths… ricordi il Woolvorths?». «Sì, mi ricordo. Ehi, mi dispiace», dice Tyson. «Ma no, fa niente», risponde quello.
Subito dopo vediamo Jake Paul meditare in un giardino losangelino bordato di siepi fiorite e palme. Paul racconta di quando è andato in Costa Rica per la sua prima cerimonia con l'ayahuasca. È stato lì che ha avuto la visione del suo combattimento con Mike Tyson. Anche Jake Paul ha una sua origin story che ripete in ogni documentario ormai: il padre gli regala una telecamera per riprendersi mentre gioca a football col fratello, loro si mettono a fare video scemi e diventano incredibilmente ricchi e famosi.
Jake Paul prova a dare una sfumatura profonda alla sua storia: «Droghe, alcool, soldi, vestiti… mi ero perso lì in mezzo come qualsiasi altro ventunenne con decine di milioni di dollari e fama». Ma quanti altri ventunenni con decine di milioni di dollari e fama esistono al mondo? Chi può davvero identificarsi con la sua storia? La boxe arriva nella sua storia come una salvezza, altrimenti chissà, sarebbe morto di overdose o provando a tuffarsi in un bicchiere da cocktail da sei piani di altezza. Messa come la mette lui, sembra quasi che Jake Paul non si consideri poi così diverso da Mike Tyson. Ma non convince nessuno.
Chissà se è merito dei movimenti di macchina, se il suono è amplificato, o se Mike Tyson è davvero ancora in grado di buttare giù un 28enne grande e grosso come sembra dai video dei suoi allenamenti.
Non c’è niente di Jake Paul che non lo faccia sembrare solamente un buffone con il potere di trasformare i propri deliri in realtà. Un imprenditore che tratta se stesso come un prodotto, un contenuto. E non c’è niente di Mike Tyson che non sembri lontano migliaia di anni luce dal mondo di Paul. Persino adesso che vive in una villa con il campo da tennis privato dove si allena la figlia Milan, Tyson sembra lo stesso essere umano problematico di venti o quaranta anni fa. È passato dall’essere un ventenne problematico negli anni ottanta, adottato dal proprio allenatore Cus D’Amato e poi diventato il più giovane campione dei pesi massimi di sempre, a essere, oggi, un sessantenne benestante ma ancora alla ricerca di sé.
Jake Paul è l’eccesso di finzione, di superficialità, quando parla non sai mai se credergli, se sta provando ad essere sincero o se sta solamente promuovendo qualcosa. Mike Tyson è l’eccesso di autenticità, di una verità che non esiste o che non vogliamo veramente conoscere. Jake Paul rigurgita frasi fatte, tiene la propria verità aggrappata a motti motivazionali come fossero una parete liscia e oliata che dà sull’abisso, roba tipo: «Puoi raggiungere ogni obiettivo che ti sei prefissato con fiducia in te stesso, duro lavoro e un po’ di ottimismo delirante». Mike Tyson sorride nervosamente, è a disagio con le parole, dice che nella vita la cosa più importante è saper perdonare i propri errori. Ma lo dice come qualcuno che sta per compierne un altro, di errore.
Domani notte, più o meno intorno alle due, Jake Paul e Mike Tyson combatteranno in diretta su Netflix. Con regole speciali: i guanti sono più grandi del solito (14 once anziché 10, i pugni faranno un po’ meno male), i round non saranno 12 ma 8 e saranno più corti (due minuti invece di tre, ci si stancherà un po’ di meno). Ma non è un’esibizione: l’incontro varrà per il record professionale di entrambi e sono ammessi i KO (a differenza, ad esempio, dell’ultima volta che Tyson è salito su un ring, quattro anni fa, per affrontare Roy Jones Jr., un’altra leggenda della boxe cinquantenne). L’ultimo match ufficiale di Tyson è del 2005, quasi vent’anni fa. Per gli appassionati è scandaloso, ovviamente, che il suo record venga macchiato da una possibile sconfitta contro uno youtuber. Che la carriera iniziata con 28 vittorie in un anno e mezzo finisca con una cosa a metà tra un vero incontro e uno spettacolo circense in diretta streaming.
Certo è difficile resistere alla tentazione di guardarli combattere. Almeno quanto è difficile capire quali siano le reali motivazioni di Jake Paul. Lui stesso ripete che anche nel caso in cui battesse Tyson non convincerebbe nessuno di quelli che lo ritengono un pugile finto, un giullare con un discreto gancio destro. Durante l’ultima conferenza, al momento del face off, Jake Paul ha spinto Mike Tyson, per creare un po’ di hype o forse per sentire se fosse fatto davvero di ferro. E dopo averlo spinto lo insulta: «Non sei forte», gli dice. Tyson ride come doveva ridere quando aveva tredici anni e i bulli gli dicevano che era grasso. «I am, I am», dice con quella voce che in effetti sembra ancora oggi quella di un bambino. Proviamo pietà per lui, per l’ex uomo più cattivo del pianeta.
I bei tempi in cui Mike Tyson si poteva permettere di imbruttire ai giornalisti in tv.
Jake Paul invece sembra solo un prepotente che merita una ripassata. È persino difficile capire dove troverà le vere motivazioni per colpire con cattiveria un uomo così più grande e rispettato. E nel caso in cui perdesse, beh avrebbe perso contro un uomo con più del doppio dei suoi anni che pochi mesi fa è finito all’ospedale con un’ulcera di sei centimetri, vomitando sangue e defecando catrame. Mai come stavolta quella di Jake Paul sembra una religione, una cerimonia, forse un sacrificio, al dio della viralità. Una cosa assurda che Jake Paul ha fatto solo perché poteva farla.
Il brand di Jake Paul è interamente costruito sulla retorica “la gente ha scelto di odiarmi”, “il mondo è pieno di hater”. Partecipa al coro “Fuck Jake Paul! Fuck Jake Paul!”, sa che senza di questo non avrebbe niente da raccontare, sarebbe senza una storia, senza conflitti. Sarebbe semplicemente un influencer ricco, il suo distacco dalla realtà sarebbe definitivo. Questa specie di odio, che è un odio nei confronti del suo personaggio, di quello che rappresenta al massimo, almeno è qualcosa, gli permette di esistere, gli fa sentire quell’attenzione senza cui probabilmente non potrebbe vivere - un coro veramente offensivo allora potrebbe sarebbe: “Chissene frega di Jake Paul! Chissene frega di Jake Paul!”.
Questa forse è la sola cosa che ha in comune con Mike Tyson. In uno dei tanti momenti in cui ricorda il passato, Tyson racconta di quando si lamentava con la moglie del fatto che la gente per strada non lo lasciasse in pace. «Ma che dici, se uscissi di casa e non ci fosse qualcuno a dirti Ehi Mike Tyson!, ti verrebbe un infarto». Anche la figlia, mentre vanno a fare shopping e vengono accerchiati da gente che chiede foto o vuole toccare Mike Tyson per sentire se è fatto veramente di ferro, gli dice: «Era questo che volevi eh?».
In un certo senso, il fatto che le persone li guarderanno - e sarà interessante capire quanti, esattamente, li guarderanno, ammesso che Netflix si degnerà di comunicarcelo - è l’unica ragione per cui combatteranno. Se non ci fosse il pubblico, se non ci fosse il nostro interesse, tra Jake Paul e Mike Tyson non volerebbe neanche uno schiaffo.
Un altro modo di vedere la cosa è dal punto di vista generazionale. Jake Paul, come tutti i Gen Z, sembra ossessionato dal passato. Tyson è presentato come “uno dei più grandi pugili di tutti i tempi”, ma è scontato chiedersi di quali tempi stanno parlando? Non di questi tempi, di sicuro. Di altri tempi, semmai. Di tempi in cui le cose erano migliori, in cui i giovani criminali allevavano piccioni, in cui per “scioccare il mondo” bisognava passare tre anni in galera e poi strappare un orecchio al proprio avversario.
Certo il filtro di Jake Paul, il filtro dei nostri tempi, semplifica e appiattisce, la questione razziale, l’uomo nero di cui la società bianca aveva paura - e sotto sotto desiderava uccidere o far sparire in qualche cella buia, lontano dagli occhi, lontano dal cuore - non esiste più. C’è solo Mike Tyson come figura popolare e amata nonostante tutto, un vecchietto con una vita di eccessi alle spalle. Un burattino di legno che la fatina Jake Paul vuole riportare in vita. Un mostro che Jake Paul, un Victor Frankenstein digitale, vuole resuscitare con le scosse elettriche di uno spettacolo iper-mediatizzato. Un meme dentro cui Jake Paul vuole scavarsi una grotta e andarci a vivere, in un letargo che lo protegga, forse, dai tempi che verranno.
Tempi in cui toccherà a lui fare i conti con la vecchiaia. Toccherà a lui ripensare ai propri errori. Toccherà a lui provare a perdonarsi. Jake Paul ripete di voler diventare campione del mondo, ma non fa nulla per far somigliare la sua carriera a quella di un possibile contender di gente come Beterbiev e Bivol. Una carriera che lasci segni veri, una carriera che gli deformi i lineamenti, che lo rintroni più di quanto non lo sia già per conto suo. In verità, se lui rappresenta l’ultimo ballo per Mike Tyson (almeno si spera), Mike Tyson sembra l’ultima spiaggia per Jake Paul. Non c’è niente per lui dopo questo incontro.
Questo incontro sembra segnare la fine di un’era. Non è ancora chiaro se si tratti della fine dell’era di Tyson o di quella di Paul.