Chissà cosa avrà pensato Mike Tyson, chiuso insieme ad un altro detenuto in una cella grande tre metri per due e mezzo, nel carcere giovanile dell’Indiana, durante quei tre anni di reclusione, dall’aprile del 1992 al marzo del 1995. Quante volte avrà ripensato al crimine commesso, a quella notte con la reginetta di bellezza Desiree Washington che gli è costata quella condanna a sei anni di prigione per stupro (poi ridotta per buona condotta) e quattro di libertà vigilata. Oppure chissà se la sua mente sarà tornata agli anni dell’infanzia randagia trascorsa per le strade di Brownsville, senza affetti né punti di riferimento; all’adolescenza passata con Cus D’Amato, a studiare maniacalmente la boxe, allenandosi ogni santo giorno, inseguendo un sogno, come si dice, diventato realtà nel 1986 con la vittoria della prima cintura mondiale a soli 20 anni - un record tuttora imbattuto nei pesi massimi, categoria dove di solito i pugili raggiungono quel traguardo da uomini maturi.
Chissà se là dentro, in una stanza senza sbarre ma con la porta rinforzata, e solo una piccola finestra a mantenere un labile contatto con l’esterno, Mike Tyson si sia sentito ancora il campione del mondo, The Baddest Man on the Planet, o semplicemente un ragazzo di 26 anni con le sue colpe e contraddizioni, per di più con la pelle nera, in un penitenziario composto al 95% da bianchi. Michael Gerald Tyson, nato a Fort Green, Brooklyn, New York, il 30 giugno del 1966. Cresciuto con la madre Lorna, che lavora come guardia carceraria e studia per diventare insegnante, con il fratello Rodney e la sorella Denise. Lorna che perde il lavoro quando Mike ha sette anni, ed è costretta a trasferirsi a Brownsville, quartiere degradato in mano alla criminalità; Lorna che non riesce a trovare una nuova occupazione e cade nell’alcolismo.
Quando è fortunata, qualche amico ospita lei e la sua famiglia, spesso però si ritrovano a vivere in case abbandonate, senza luce né riscaldamento, anche in pieno inverno, mangiando alle mense dei poveri. Lorna inizia ad accompagnarsi a tanti uomini, cercando una sistemazione e, da adulto, forse anche in quegli anni in cella, Tyson ricorderà di una volta in cui sua madre si infilò nel suo stesso letto con un uomo, pensando che il piccolo Mike dormisse. Mike che - lo rivelerà solo nel 2014 - verrà violentato da uno sconosciuto per strada, sempre da bambino.
Da violenza nasce violenza, deve essere per forza di cose così? Come se ne esce? Chissà se era questo che questo che si chiedeva Tyson in quegli anni in cui di tempo per pensare e farsi domande senza risposta ne aveva a disposizione a volontà.
Sopravvivere, sopraffare
Le relazioni di Lorna erano conflittuali, tra sbronze, violenza e addii tormentati, e secondo Mike i suoi rapporti problematici con le donne vengono proprio da lì. In True. La mia storia, l’autobiografia pubblicata in Italia nel 2015, scrive: «La mia infanzia è stata così. Gente che diceva di amarsi e si spaccava la faccia a vicenda, pestandosi a sangue. Si volevano bene e si accoltellavano. […] Sono cresciuto insieme a donne tostissime, perfettamente in grado di prendere a pugni gli uomini. Non consideravo un tabù alzare le mani su una donna, perché quelle che conoscevo erano capacissime di ammazzarti».
Nella scuola che frequenta è vittima di bullismo: è un ragazzino in sovrappeso, molto timido, con un difetto di pronuncia, e per questo lo soprannominano Little Fairy Boy (fatina). Viene insultato, malmenato, rapinato. Addosso gli rimane una sensazione che confesserà di non aver mai dimenticato. La svolta arriva quando un gruppo ragazzi di strada lo incarica di accudire i colombi di una piccionaia costruita su un tetto: Mike si innamora follemente di questi animali, tanto da fare a botte per difenderli: è la sua iniziazione alla violenza. Accolto nella gang, si inserisce in un sistema criminale che gli frutta soldi, gioielli e abiti firmati.
Viene arrestato per la prima volta a 10 anni per il furto di una carta di credito, e diventa un frequentatore abituale dei riformatori di Stato, tanto da collezionare 38 arresti prima di compiere 13 anni. Proprio all’interno di una di quelle strutture detentive incontra il pugilato grazie a Bobby Stewart, un ex pugile irlandese che insegna la boxe ai giovani detenuti. Dopo alcuni mesi è proprio Stewart, impressionato dalle capacità di Tyson sul ring, a presentarlo al coach italoamericano Cus D’Amato.
È difficile immaginare il detentore del titolo dei pesi massimi, la categoria che ha suscitato da sempre maggior fascino tra gli appassionati, costretto in uno spazio di neanche 8 metri quadrati. All’ingresso in carcere Tyson pesa più di 123 chili, distribuiti in un metro e settantotto. Come per il protagonista del film Il miglio verde (del 1999), il gigantesco ma mite John Coffey, anche in Mike vive il contrasto tra una corporatura impressionante e un animo quieto. La scrittrice Joyce Carol Oates, nel libro Sulla boxe, lo descrive così: «Di persona Mike Tyson emana un’aria di intensa fisicità; è guardingo, cauto nel parlare, diffidente con gli estranei, sempre e comunque cortese. La sua intelligenza si esprime in modo lapidario».
Oates lo giudica intellettualmente un «prodigio […] dotato di una sensibilità fuori dal comune». E ancora: «Tyson è un ragazzo […] dalle qualità paradossali: più complesso e autoanalitico di quanto sembri disposto ad ammettere in pubblico […] con quel sorriso infantile con lo spazio tra i denti e la sua voce giudiziosa».
Da detenuto, attraversa diverse fasi. All’inizio è incazzato: si è sempre dichiarato innocente di fronte all’accusa di stupro, e anche quando ha avuto l’occasione di scusarsi in aula con la sua vittima, per ottenere uno sconto di pena ha preferito farsi fino all’ultimo giorno. Ma è anche paranoico, convinto che qualcuno voglia incastrarlo con qualche stratagemma per peggiorarne la situazione. Nel primo anno di reclusione si ribella alle regole e finisce spesso in isolamento, in una stanza chiamata “il buco”, con solo un materasso sul pavimento, una latrina e la luce accesa per 23 ore al giorno.
Ed è proprio in una condizione così estrema che impara a convivere con sé stesso, tanto che spesso è lui a chiedere di essere trasferito nel buco. Lì dentro, sdraiato sul cemento (perché a volte il materasso viene sequestrato dai secondini per rendere ancora più duro l’isolamento) durante ore che gli saranno sembrate interminabili, Tyson ha cercato conforto nel ricordo di chi lo ha raccolto dalla strada e lo ha portato sul tetto del mondo.
Mike incontra D’Amato in un fine settimana del marzo del 1980, facendo tappa a Catskill, una tranquilla cittadina di circa 6mila abitanti dello Stato di New York, dove D’Amato vive in una casa bianca in stile vittoriano in cui ospita i giovani pugili che allena, e ha una palestra di pugilato, piuttosto spartana, sopra a una stazione di polizia. Tyson lo descrive così: «Era la personificazione esatta di un allenatore di boxe vecchio stampo: basso, tarchiato, completamente calvo e con il fisico massiccio. Parlava da duro ed era sempre serissimo, come se gli mancassero i muscoli per sorridere». Dopo un solo allenamento, D’Amato non ha dubbi: «Questo è il futuro campione mondiale dei pesi massimi».
Mike inizia a frequentare Cus con costanza, mentre divora libri sul pugilato, guarda i match storici e si allena a ritmi forsennati. D’Amato non è solo un semplice coach: impartisce a Tyson lezioni di vita, spiegandogli come affrontare la paura sul ring, il modo in cui dominare le proprie emozioni e gestire il rapporto con gli avversari. Ancora prima di parlare di pugilato, privilegia l’aspetto psicologico: «Credi di conoscere la differenza tra un eroe e un codardo Mike? Non riguarda i loro sentimenti, sono le loro azioni a distinguerli. Eroi e codardi provano esattamente le stesse emozioni: bisogna imporsi una disciplina solida per agire come i primi».
Finita di scontare la pena nel carcere minorile Tyson si trasferisce da Cus e dalla sua compagna, Camille Ewald, che in seguito lo adotteranno. D’Amato lavora sulla scarsa autostima del ragazzo, ripetendogli che, se seguirà i suoi insegnamenti, presto tutto il mondo parlerà di lui: «Le famiglie reali si inchineranno al tuo passaggio», gli dice.
Ma il coach sa anche essere duro con il giovane pugile, a volte anche senza nessun motivo, per forgiarne il carattere. In una puntata di un podcast registrata nel 2020, Tyson racconta: «Ero un megalomane, mi sentivo Dio perché Cus mi faceva sentire così. Lui per me è stato uno psicologo, una madre, un padre, un allenatore, un dottore, un mentore e tante altre cose. Ha costruito il mio ego». In un’intervista televisiva in cui gli chiedono se lo abbia più amato oppure temuto, risponde: «Entrambe le cose».
Mike pranza con Cus e Camille nella loro casa di Catskill.
Diventare se stesso, diventare un eroe
Ma chi è Costantino D’Amato, soprannominato Cus? Lo scrittore Gay Talese lo descrive così: «Era un guerriero romano nato due millenni troppo tardi. […] Cus si sentiva vivo nella confusione, nell’intrigo, nell’imminenza della battaglia. Solo nei momenti concitati era pienamente presente a sé stesso, al massimo della reattività fisica e mentale, realizzato. Se la situazione era calma, doveva suscitare o acuire la tensione. Se qualcosa bolliva in pentola, lui doveva alzare la fiamma per sentirsi davvero vivo. Per lui era una droga. Era un uomo d’azione, ne aveva bisogno».
Dal punto di vista pugilistico, D’Amato è considerato il creatore dello stile Peek-A-Boo (che significa Bubù-Settete e per questo è stato definito anche “lo stile a nascondino”), in cui il pugile si mette in guardia con i guantoni vicini alle guance e stringe le braccia contro il proprio busto. Una tecnica pensata per offrire una maggiore protezione al viso dell’atleta, che grazie all’adozione di una postura frontale rispetto all’avversario sembra offrirsi come un bersaglio facile, invitandolo a prendere l’iniziativa. In realtà il pugile è pronto a evitare i colpi con movimenti elusivi e con un footwork laterale grazie al quale si “nasconde” al rivale, lanciandosi immediatamente al contrattacco.
La posizione così alta delle mani permette all’atleta di sferrare facilmente i jab, ma anche ganci e montanti, i fondamentali più pericolosi di Tyson. In tanti nell’ambiente del pugilato americano, prima che si affermasse, lo avevano giudicato un peso massimo troppo basso per avere successo. Un pronostico sovvertito dall’impostazione pugilistica pensata da D’Amato, che ha reso i punti deboli del suo pupillo delle armi in più nell’arsenale del futuro campione del mondo.
Nei suoi esordi, quando cioè ha calcato il ring da dilettante, Tyson ha collezionato 46 vittorie e sole 6 sconfitte, ma prima di passare a professionista ha dovuto dire addio a sua madre Lorna, morta di cancro. «Dopo tanti arresti, scuole speciali e farmaci, mia madre si era ormai convinta che fossi un caso disperato […] distruggendo tutte le aspettative che aveva sul mio conto e privando me dell’amore e della sicurezza di cui avrei potuto godere. Lei non si dimostrò mai contenta di me, o orgogliosa per qualcosa che avevo fatto. Non mi diede mai l’opportunità di parlarle, di conoscerla meglio. Il suo atteggiamento non ha compromesso la mia carriera, ma mi ha distrutto dal punto di vista emotivo e psicologico. Le madri dei miei amici li baciavano. Lei non l’ha mai fatto».
Tyson diventa professionista nel 1985, a 18 anni. Disputa 15 incontri in un anno vincendoli tutti per KO o KO tecnico. A novembre deve dire addio anche a Cus D’Amato, che lo lascia per sempre a 77 anni, affetto da tempo da una polmonite grave che il testardo coach italoamericano aveva cercato di curare con la medicina alternativa perché non si fidava dei medici. Secondo lui, senza aver incontrato il giovane prodigio si sarebbe arreso molto prima: «Mi dicevo: ecco, è arrivato il momento di prepararsi a morire. E poi è arrivato Mike […], una ragione per rimanere vivo».
Anche da adulto Tyson ha più volte ammesso di non essere mai riuscito a superare il trauma della morte di D’Amato. Dopo un periodo di crisi diventa ancora più ossessionato dal desiderio di diventare campione del mondo: è convinto di doverlo a Cus. Nel 1986, un anno dopo la morte del suo mentore, combatte 11 volte, con altrettanti successi che gli permettono di ottenere la chance mondiale contro Trevor Berbick, detentore della cintura WBC.
Tyson demolisce Berbick in due round, surclassandolo, e diventa il più giovane campione dei pesi massimi nella storia del pugilato.
Non reggere il successo, imparare dalle sconfitte
Quando la luce dei riflettori si spegne, il boato del pubblico cessa, le domande dei giornalisti finiscono, Mike torna a fare i conti con sé stesso. Nella sua autobiografia scrive: «All’improvviso ero il campione del mondo, quindi tutti si aspettavano che fossi un uomo fatto e finito solo per via del mio titolo e di ciò che rappresentava. Invece ero soltanto un ragazzino che voleva divertirsi. Ed ero smarrito. Al momento del titolo non avevo nessuno a farmi da guida, mi sentivo un naufrago della vita».
E infatti comincia a condurre un’esistenza dissoluta. Finanzia i giri di spaccio dei suoi amici di Brownsville, continuando a bazzicare il quartiere e portando con sé, a ogni visita, 25 mila dollari in contanti da regalare a chi incontra. Allo stesso tempo frequenta le celebrità nei locali più esclusivi d’America, popolati da bianchi ricchi. Mike è sospeso tra due dimensioni che non gli appartengono, si sente perso, spaesato, alla continua e vana ricerca di una sua identità, di quella consapevolezza di sé che possa donargli un posto nel mondo.
Diventa dipendente dal sesso, compulsivo, dall’alcol, più tardi anche dalla cocaina. Conosce Robin Givens, un’attrice di cui si innamora e che sposa nel febbraio 1988, divorziando un anno dopo a causa del rapporto conflittuale, in gran parte consumato tramite i media per volontà di Givens, affamata di riflettori. Tyson ne esce emotivamente devastato. Nonostante tutto, in quel periodo gli interessava comunque allenarsi e riusciva a tenere in mano le redini della sua carriera.
Nel 1987 Tyson unifica i titoli mondiali messi in palio nel torneo organizzato da Don King. In quel momento il suo record è di 32 vittorie e nessuna sconfitta, ma inizia a sentire il peso della pressione su di sé, e confida al suo entourage di volersi ritirare a 21 anni. È solo uno sfogo, che spiega però come Tyson stesse cominciando a stufarsi della boxe. Nelle vittorie non era soddisfatto della sua performance, ma non c’era più il perfezionista D’Amato a sgridarlo per far sì che migliorasse continuamente, bensì solo persone che volevano che vincesse per strappare nuovi contratti milionari con brand ed emittenti televisive di ogni genere.
Agli incontri spesso si presenta fuori forma, dopo essersi allenato appena due o tre settimane, ma il suo talento e la straordinaria fisicità che lo caratterizza riescono per il momento a rimediare. Difende con successo le sue cinture, finché nel 1990 vola in Giappone per affrontare lo sfavorito Buster Douglas, 30 anni, americano, scelto dall’entourage di Mike proprio per la sua abbordabilità.
Un avversario sottovalutato da Tyson, che si “allena” portandosi a letto le donne delle pulizie della sua abitazione a Tokyo e viene messo KO da Douglas al decimo round, in quello che viene ancora considerato come uno degli upset più clamorosi nella storia della boxe. Tyson perde, va knockdown e poi knockout per la prima volta in carriera e lascia quindi i suoi titoli, che non unificherà mai più.
Colpevole, contraddittorio
La sconfitta riaccende in lui una motivazione feroce, e dopo tanto tempo l’ex campione mondiale torna ad allenarsi ad un ritmo serrato, ottenendo quattro vittorie in altrettanti incontri. Quando scende dal ring dopo l’ultima di queste, Mike ha 24 anni e 363 giorni. Ritornerà sul quadrato a 29 anni e mezzo, nel 1995, quando verrà rilasciato dal carcere giovanile dell’Indiana.
A luglio del 1991 viene arrestato con l’accusa di aver stuprato la 18enne Washington nella camera di un hotel di Indianapolis dove alloggiava. Durante il processo alcune testimonianze, tra cui quella dell’autista di Iron Mike, che riferisce di aver visto la reginetta di bellezza in stato di shock una volta lasciato l’hotel, e soprattutto quella (da alcuni considerata la decisiva) del medico del pronto soccorso che aveva visitato Washington dopo la notte passata con l’ex campione del mondo, avvallano la versione della ragazza. Tyson replica che tra di loro c’era stato solo sesso sfrenato, magari persino violento, ma consensuale.
Dopo 10 ore di deliberazione, la giuria non gli crede e per il pugile si spalancano le porte del carcere. Inizialmente i media condannano aspramente Tyson, per poi rivalutarne in parte la posizione quando la Corte d’Appello dell’Indiana rigetta il ricorso presentato dai suoi avvocati (in un processo sociale di vittimizzazione e “de-vittimizzazione” del pugile, studiato anche dall’università dell’Indiana). Insomma, una vicenda controversa che resta ancora oggi un caso dibattuto e divisivo.
Nel 2003, nel corso della sua intervista nel programma televisivo The Pulse, un Tyson di nuovo campione, ma ancora pieno di rancore, dichiara: «Mi sarebbe piaciuto averle fatto ciò di cui sono stato accusato, oggi la violenterei davvero».
Tyson ha dato definizioni contrastanti del periodo trascorso in prigione. Da una parte ha definito la galera come una fortuna, un momento in cui ha potuto prendersi una pausa dalla sua vita folle, che ormai gli era sfuggita di mano, per fermarsi, riflettere e ritrovare sé stesso. Recentemente ha addirittura dichiarato che se fosse dipeso da lui, ci sarebbe rimasto più a lungo. Si allenava duramente, si è convertito all’Islam e leggeva tantissimo. Da Mao (di cui si tatuerà il volto), Che Guevara, Machiavelli a Tolstoj, Dostoevskij, Marx e Shakespeare, incuriosito e ispirato da opere che affrontano temi come ribellione e rivoluzione. Il suo romanzo preferito era Il conte di Montecristo perché si riconosce nel protagonista Dantés, arrestato da innocente dopo essere stato incastrato, e che una volta libero consuma la sua vendetta.
Quando torna libero Tyson dice che la prigione che in teoria avrebbe dovuto riabilitarlo in realtà lo aveva rovinato, rendendolo ulteriormente insicuro, paranoico, diffidente. Dalla dimensione di recluso passa subito a una vita caotica, frenetica, all’insegna degli eccessi e costantemente al centro dell’attenzione: a pochi giorni dal suo rilascio aveva già firmato accordi con Showtime e MGM Grand per milioni di dollari.
Cosa costringeva a Tyson a passare da un estremo all’altro, come un perseguitato, un condannato ben oltre il tempo che aveva deciso il giudice? In un’intervista concessa a The Ring nel 1994, durante la detenzione, aveva detto: «All’inizio pensavo che la galera mi avrebbe ucciso. Mi mancava la famiglia. Poi mi sono detto: ma dove vado, ma da chi vado? Non ho nessuno, tutti mi hanno sempre fregato». Nel febbraio 1990 Gianni Minà rivela una confidenza che gli aveva fatto Bill Cayton, uno dei manager che hanno curato la prima parte della carriera di Tyson: «Attorno all’enorme corpo muscoloso di Mike stanno girando molti alligatori».
Andrea Bacci, nel suo libro Essere Mike Tyson, fa notare come D’Amato si fosse concentrato nell’insegnargli come si diventa una “micidiale macchina da pugni”, senza preoccuparsi di intervenire sul fatto che il ragazzo non sapesse stare al mondo. In fin dei conti, neanche D’Amato era suo padre ma solo un allenatore, e prima o poi anche lui avrebbe dovuto fare i conti con la sua ribellione e l’autodisitruttività. Kevin Rooney, che lo assisterà all’angolo per gran parte della sua carriera, avrebbe potuto essere un suo fratello maggiore, come il pugile lo ha più volte definito, ma in realtà anche lui era solo un allenatore. Jim Jacobs, figura che ha preso il posto di D’Amato negli affetti di Mike prima che morisse, era il suo manager.
Questi sono personaggi che hanno voluto bene a Tyson, e sono stati ricambiati, ma ce ne sono stati anche altri, con meno affetto, per così dire. Tra questi Don King, che Mike saluta quando entra in carcere affidandogli il suo patrimonio da 100 milioni di dollari, ritrovandone appena 4 al momento della sua scarcerazione.
Il resto della vita di Tyson, che non è raccontato in questo articolo, è storia ed è la parte probabilmente più nota: Il match contro Holyfield, il famoso morso - di cui ha dato un punto di vista alternativo la scrittrice Katherine Dunn - di nuovo il carcere, la bancarotta e poi il triste finale di carriera, chiusa nel 2005 con tre sconfitte negli ultimi quattro match.
Ma soprattutto i numerosi tentativi di disintossicarsi e un faticoso cammino verso la redenzione. La sua figura, per quello che ha significato come atleta, ma anche come fenomeno culturale e sociale, è complessa, controversa, difficile da decifrare senza parteggiare per una ferma condanna o una bonaria assoluzione.
Dopo il match perso incredibilmente contro Douglas, Tyson dichiara: «Penso che molta gente voglia vedermi finito, rovinato con le mie stesse mani. Sperano di vedermi un giorno con le manette ai polsi […]. Molte persone non aspettano altro per poter dire: Vedi, te l’avevo detto che Tyson avrebbe fatto quella fine. […] La gente non vuole vedere uno come me avere successo. Mi hanno amato finché mi potevano guardare dall’alto in basso. […] Ma quando sono arrivato al punto che non li guardavo più dal basso, ho smesso di essere un divertimento e la società non ha più accettato il mio successo. Quando sono arrivato a competere con loro sono diventato una minaccia».
Ma allora perché sembra aver fatto di tutto per dare ragione proprio a quelle persone?
Tyson al tappeto nell’ultimo match in carriera.
Mike Tyson è un mistero
Fino allo sfogo finale, quando la sua immagine è ormai totalmente compromessa e Mike sta vivendo un’ingloriosa chiusura di carriera. Ai giornalisti presenti alla conferenza stampa prima del match contro Andrew Golota, nel 2000, dice: «Sono molte cose. […] Sono uno stupratore, […] sono un essere infernale. Ma sono anche un buon padre e un marito […]. Voi non mi conoscete. […] Voi mi criticate perché il mio mestiere è fare del male. Ma non ne avete il diritto […]. Io prendo il farmaco Zoloft (un antidepressivo, nda). Me lo fanno prendere per impedirmi di uccidervi tutti. Sanno che sono un violento, quasi un animale. E vogliono che io sia un animale solo sul ring, di fronte a nove milioni di spettatori».
Secondo Emanuela Audisio, firma de la Repubblica negli anni Novanta: «Il vero cannibale non è lui […] ma quest’America dalla pelle bianca e dagli occhi azzurri contenta di poter salire alla ribalta quando in nome della legge ammanetta, confina, perseguita. E fa scendere gli eroi dai piedistalli. […] [Tyson] ormai è diventato la grande e facile preda con cui i cacciatori si vantano della loro grandezza».
Una riflessione che pone anche una questione razziale, ripresa da altri autori con diverse sfumature: sempre Dunn ha definito Tyson “L’Uomo Nero D’America”, mentre Vittorio Zucconi «un tuorlo nero dentro un uovo bianco». Secondo Andrea Bacci: «È stato la bestia sanguinaria cui dare le colpe per tutto il male di una società, quella americana, che cerca tali icone per non doversi mettere personalmente in discussione, demonizzando i comportamenti negativi di certi soggetti per non vederli in sé stessa». Da qualunque parte si guardi il fenomeno Mike Tyson ciò che resta è la lotta impari di un ragazzo, e poi di un uomo, con il contesto che gli sta intorno e con i pensieri che lo agitano da dentro.
Recentemente Tyson è tornato alla ribalta delle cronache per il match di esibizione disputato il 28 novembre 2020 contro Roy Jones Junior, pluricampione mondiale in quattro diverse categorie di peso ritiratosi nel 2018. Una sfida terminata in pareggio (più precisamente in split draw, ovvero un giudice aveva dato vincitore Tyson, un altro aveva premiato Jones Junior, mentre il terzo ha scelto la parità) dopo otto riprese.
Non calcava un ring da 14 anni e a giudicare dal 1.600.000 PPV venduti, per un incasso totale di 80 milioni di dollari, mancava parecchio al pubblico. È tornato nel suo habitat naturale da 54enne, sfoggiando una forma fisica statuaria, che è sembrata addirittura migliore di quella con cui aveva disputato gli ultimi match ufficiali. Si è preparato per l’esibizione sotto la supervisione di Rafael Cordeiro, Head Coach della King’s MMA (palestra in cui si allena anche di Marvin Vettori) e l’incontro con Jones Junior non sembra destinato a restare un unico precedente.
Anzi, si parla già di un nuovo match contro la star del web e dei social media Logan Paul, reduce dalla sfida contro Floyd Mayweather in quel filone di eventi sempre più frequenti in cui il fighting si mischia all’intrattenimento. Intanto anche Evander Holyfield si è più volte proposto per organizzare un incontro a 24 anni dal rematch in cui andò in scena il famigerato morso (ma che, in un’altra esibizione, è apparso in una condizione opposta, probabilmente non all’altezza di un incontro neanche solo per lo spettacolo).
Insomma, gli ultimi anni sembrano essere stati finalmente positivi per uno dei pugili più discussi di tutti i tempi. L’autobiografia di Tyson, pubblicata quando aveva ancora 49 anni, si concludeva drammaticamente, parlando delle sue dipendenze: «Voglio disperatamente guarire. Soffro molto, ma voglio uscirne. E farò del mio meglio per riuscirci. Un giorno alla volta». Chissà che Mike Tyson non stia iniziando a vincere l’incontro più importante di tutti, quello con se stesso, quello con in palio una vita serena.