Il cronista attacca il racconto con fermezza, accompagnando le immagini senza sovrastarle con inutile enfasi. Ha un timbro particolare, un po’ nasale. Gianpaolo Ormezzano, per usare un eufemismo, dirà che quella del giornalista «non è una voce flautata». Sul video scorre il film di un derby. Il pubblico assiepato sugli spalti, la stretta di mano tra Mazzola e Rivera. «Andiamo a vedere se Inter e Milan si ricordano che per noi, il derby, è ancora una cosa seria», racconta Beppe Viola al pubblico della Rai.
Quella stracittadina, giocata il 27 marzo 1977, non l’ha convinto. Per uno come lui, la cui «romantica incontinenza era di una patetica follia», era stata una delusione. «Quando Paolo Casarin, mestrino di nascita ma milanese secondo legge calcistica, ha guidato l’entrata in campo, San Siro era bell’e pronto come ai bei tempi. Una festa soprattutto in onore di due beniamini, Rivera e Mazzola, forse alla loro ultima stretta di mano pubblica. Poi 90 minuti bruttissimi, un autentico derbycidio», prosegue a raccontare con un evidente filo di mestizia nella voce. Non era un derby da scudetto, con Juve e Torino a darsi battaglia in vetta: Inter terza, Milan impelagato in zona salvezza.
Quello 0-0 non gli era andato giù. «Quando un appassionato di musica ritorna a casa deluso da un concerto che tanto prometteva, per rifarsi le orecchie sistema sul giradischi un pezzo classico: un espediente, insomma, che provveda a un immediato riavvicinamento alla cosa amata. Noi, per rispetto dei 70 mila tifosi milanesi, abbiamo avuto più o meno la stessa idea, riaprendo l’album dei ricordi. Proponiamo un pezzo di cineteca, roba buona. È il 24 febbraio 1963; e per rimanere almeno in parte nell’attualità ricordiamo che era il primo derby di Sandro Mazzola. Lui debuttò così, con un gol dopo 13 secondi». In quel pomeriggio di marzo del 1977, Beppe Viola prende le regole del racconto calcistico e ne fa carta straccia, trasmettendo alla Domenica Sportiva le immagini di un derby giocato 14 anni prima.
Dopo stagioni ai margini, nel weekend che sta per arrivare, Milan e Inter torneranno a giocare una stracittadina dal discreto peso specifico. Ce ne sono stati altri, in passato, decisamente più importanti, ma per i due club l’accesso alla prossima Champions League può rivelarsi decisivo non solo per ragioni sportive, bensì soprattutto per meri motivi economici. Per esorcizzare la possibilità che la pressione finisca per schiacciare entrambe le contendenti, e per la pura volontà di rivivere alcuni derby elettrizzanti, proviamo a imitare il maestro con questa piccola raccolta: quattro derby di campionatoe uno di Champions League pescati negli ultimi trent’anni di calcio, seguendo il criterio dell’importanza, della posta in palio, delle emozioni. Che parta il giradischi.
1992-93, Gullit risponde a Berti
Da non perdere: la comica simulazione di Lentini a 1:54, il volto efebico di Demetrio Albertini a 2:35.
«C’è un oltre in tutto, voi non volete o non sapete vederlo», scriveva Pirandello nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore. Osvaldo Bagnoli, tecnico dell’Inter, forse è convinto di aver intravisto quell’oltre, ma non può darlo a vedere, altrimenti verrebbe preso per pazzo. Il Milan degli “Invincibili” si sta riscoprendo improvvisamente fragile. Faustino Asprilla l’ha riportato a scoprire il sapore polveroso della sconfitta dopo 58 (sì, cinquantotto) partite utili consecutive con una punizione dipinta davanti a un San Siro sgomento; i pareggi in rimonta contro Torino e Napoli hanno dato adito a qualche dubbio. Nel giro di tre giornate, il Milan è passato da +11 a +7 sull’Inter, e alle porte c’è il derby, alla ventisettesima. Con una vittoria, e altri sette turni per provare a sferrare l’assalto, i nerazzurri ci credono, anche perché il “Diavolo” vede all’orizzonte la finale di Champions League e avrebbe buoni motivi per distrarsi.
L’Inter, dal canto suo, è nel miglior momento della stagione. Ha espugnato il Delle Alpi bianconero con Shalimov e Sosa, il bomber tascabile proveniente dall’Uruguay ha poi rifilato due gol anche al Pescara, in casa della Sampdoria si è rivisto finanche Totò Schillaci, con una doppietta nell’1-3 finale. L’eroe delle Notti magiche è il più ricercato dai giornalisti nella settimana che porta alla stracittadina: «A noi basta e avanza un punto, mica è l’Inter la squadra più forte del mondo, è il Milan. Il nostro scudetto è il secondo posto: il loro è quello di dare sempre lezioni, devono vincere a tutti i costi». Nel percorso di avvicinamento al derby, il Milan deve superare l’ultimo ostacolo per blindare la finale di Monaco di Baviera: i rossoneri stendono l’IFK a domicilio (0-1, gol di Provvidenza Massaro) senza sudare più di tanto.
«Non saranno neppure stanchi», commenta amareggiato Bagnoli. «Hanno tenuto a riposo almeno sei elementi importanti e gli altri non hanno sprecato troppe energie». Da qualche giornata, causa problemi a una gamba, non si accomoda neanche più in panchina. Ha osservato i suoi vincere a Genova in tv, dal pullman presente all’esterno del Ferraris. Doveva essere, nei disegni di Ernesto Pellegrini, l’Inter di Sammer e Pancev. La svolta l’ha invece impressa Antonio Manicone, arrivato a stagione in corso dal Foggia di Zeman e finito silenziosamente per diventare padrone della mediana interista, al punto di finire in una canzone di Paolo Rossi («sono grezzo ma sono un campione / mezzo Baggio mezzo Manicone»). «Su Pancev non ci siamo capiti, su Sammer non fu una rinuncia a cuor leggero: lo avremmo tenuto ma non ci parlava che della Germania e della sua voglia di tornare. Con Manicone, che non conoscevo, abbiamo copiato il Foggia, privilegiando la sostanza e le esigenze alla vetrina», prosegue Bagnoli. Il tecnico si schermisce, un po’ per convinzione, un po’ per scaramanzia: «Fa piacere arrivare al derby in allegria, ma come posso pensare che il Milan passi da 58 partite utili consecutive a 58 sconfitte consecutive?».
L’entusiasmo del tifo nerazzurro è alle stelle, si respira l’aria dell’impresa, del ribaltone scudetto, anche se l’organico del Milan è di dimensioni pantagrueliche. I giornali si divertono a disegnare un undici di rincalzi in vista dell’ultima sfida del girone di Champions League che precederà la finale: per non far correre rischi ai diffidati Baresi, Nava, Tassotti, Eranio, Lentini, Albertini, Boban e Papin, senza contare l’infortunato van Basten, Fabio Capello potrebbe schierare comunque una formazione in grado di piazzarsi serenamente in zona UEFA in Italia. Il più in forma sembra Lentini, autore di una doppietta contro il Napoli.
Sta bene anche Gullit, che però è ai ferri corti con Capello dalla vigilia di Juventus-Milan: il tecnico aveva deciso di tenerlo fuori per la regola dei tre stranieri, ma a comunicarlo al tulipano era stato Ramaccioni. «Non vi inventate la storia che non sto bene, dite chiaramente che è una scelta tecnica». La discussione era diventata in fretta una colluttazione con Capello, preso per il bavero e sballottato in aria dal Ruud furioso come una cravatta dopo quattro ore di bagordi post matrimonio.
L’Inter, in sostanza, arriva meglio al derby della Madonnina numero 223 della storia: nel match d’andata, la storia del campionato – e di Sebastiano Rossi – era cambiata su un tiraccio di Gigi De Agostini. L’imbarazzante papera di un giovanissimo Francesco Antonioli, per l’1-1 finale, aveva virtualmente restituito la maglia da titolare al gigante di Cesena. Se quell’Inter, rabberciata e intristita, era riuscita a fermare il “Diavolo”, la versione lanciatissima dei nerazzurri può davvero riaprire il campionato. Bagnoli, che aveva promesso catenaccio e contropiede, mette invece in campo un’Inter propositiva, che trova il vantaggio con un colpo di testa di Nicola Berti su cross di Ruben Sosa. Adesso sì che i nerazzurri possono chiudersi, lasciando idealmente il pallino del gioco in mano agli avversari.
Il vice di Bagnoli, Maddè, butta in campo il difensore Taccola per Angelo Orlando, alzando il muro a protezione di Zenga. Minuto 83. Lancio lungo dalle retrovie, Massaro devia di testa, Gullit ha la classe e la freddezza necessarie per lasciar sfilare il pallone con un gioco d’anca da consumato ballerino. Il diagonale è perfetto, lo scudetto è in cassaforte, marchiato a fuoco dall’olandese: «Bisogna anche saper fare confusione, giocare con l’avversario, stordirlo. In settimana parlerò con Berlusconi del contratto, speriamo di avere un buon dialogo. Non so se finirà bene, sarei felice di restare ma siamo in due, non dipende solo da me». Andrà alla Samp per un anno, bastonerà il Milan davanti a un Ferraris impazzito di gioia con un’arroganza fisica e tecnica a tratti straripante, tornerà in rossonero per una manciata di settimane, litigherà nuovamente con Capello, tornerà alla Sampdoria per sentirsi libero ancora una volta. Come cervo che esce di foresta.
2009-10, lo show di Mourinho
Da non perdere: la giocata assurda di Sneijder a 0:13, la comparsata di Amantino Mancini durante l’esultanza di Mourinho a 2:53. Il brasiliano ora è testimonial di un professionista turco che si occupa di trapianto di capelli.
«Questo gol è mio! Ho segnato io!». Il ghigno di José Mourinho, almeno per una volta, non ha contorni mefistofelici. Non è nemmeno un ghigno. José Mourinho sta ridendo. Ride e si batte il petto nel bel mezzo di un tesissimo derby di fine gennaio, anche se la sua Inter è coinvolta in una fase di cambiamento radicale. Il tecnico portoghese, dopo 17 partite di campionato praticamente perfette – 12 vittorie, 3 pareggi, 2 sconfitte – e un bel +8 sulla prima inseguitrice, il Milan di Leonardo (allenatore, non dirigente), ha deciso di stravolgere tutto. L’ispirazione deve avergliela fornita Goran Pandev, arrivato a parametro zero nel mercato di gennaio dopo aver vinto la causa per mobbing con la Lazio, che langue in fondo alla classifica e ciononostante ha deciso di non utilizzarlo.
I nerazzurri, fino a quel momento disposti con il 4-3-1-2, dal primo match del nuovo anno passano al 4-2-3-1, anche se Pandev non ha mai fatto l’esterno d’attacco nel suo periodo laziale. Mourinho lo ha messo in campo subito, a Verona, contro il Chievo. «È un attaccante moderno, multifunzionale, che sa giocare con due uomini davanti, con tre, che gioca sul destro e sul sinistro, da centravanti se si hanno due punte. Goran non giocava da mesi, ha esordito avendo svolto appena un allenamento con noi. Eppure ci ha aiutato molto finché ha avuto fiato e ha capito al volo lo spirito che anima questa squadra».
Il cambio tattico era sembrato a tutti un azzardo, voci alimentate dalla fatica bestiale fatta dall’Inter per venire a capo del Siena di Malesani: 3-3 all’88’ con Sneijder, gol vittoria realizzato da Samuel, centravanti aggiunto, al 94’. Dopo il pareggio di Bari in rimonta (Pandev-Milito a cancellare il doppio Barreto), il Milan accorcia a -6 con uno scatenato Ronaldinho e si mette in scia alla vigilia del derby. È un -6 virtuale, perché i rossoneri devono ancora recuperare un match con la Fiorentina. Non a caso, Mou parla sempre di un “Diavolo” a -3: «Non mi dà fastidio sentir dire che il Milan gioca meglio: noi segniamo di più, vinciamo di più, abbiamo più punti. Gol, vittorie, punti: questo è lo spettacolo per me. Superiore è chi sta davanti, veramente superiore è chi finisce primo a maggio: se siamo a +3 sul Milan vuol dire che oggi siamo superiori. Non ho sentito il rumore dei nemici, loro hanno giocato nel silenzio, senza fare rumore e, lo dico ammirato, hanno giocato molto bene».
Decisamente zen l’approccio di Leonardo, che nella sfida d’andata ha ricevuto una delle più incredibili lezioni di calcio della storia del derby meneghino: 4-0 e Inter straripante. «Rispetto all’andata non vedo grandi differenze, la verità è che noi siamo figli di quella sconfitta. Probabilmente se non ci fosse stato il nostro avvio di stagione piuttosto complicato adesso non staremmo attraversando un buon periodo. Il passato si trasferisce sempre nel presente. Non ci penso nemmeno a firmare per un pareggio».
L’Inter inizia la partita dominando, Sneijder sfiora un gol assurdo, poi è Milito a portare avanti i suoi. Filtrante di Pandev, l’argentino lascia scorrere e segna la sua classica rete da derby, scappando via alle spalle di Abate – che aveva sbagliato la chiusura aerea, perfezionando l’assist - per battere Dida con un implacabile diagonale mancino. Il Milan fa fatica a respirare per almeno venti minuti, poi la partita cambia all’improvviso. Rocchi sanziona Lucio per simulazione nella trequarti avversaria, Sneijder perde la testa e applaude l’arbitro: rosso per l’olandese, Inter costretta in dieci per oltre un’ora di gioco.
Mourinho prende da parte i suoi negli spogliatoi: «Questo derby lo vinciamo anche in nove». Il Milan attacca a testa bassa nella ripresa, provando a mettere alle corde Julio Cesar e compagni, ma Pandev e Milito sembrano giocare insieme da una vita e riescono a mandare costantemente in tilt la difesa avversaria. Al quarto d’ora è Pandev a ricevere l’assist del “Principe”, tocco sotto sull’uscita di Dida, palo pieno. Il macedone sembra non averne più, Mourinho è pronto a sostituirlo quando viene assegnata all’Inter una punizione dal limite. Per qualche assurdo motivo, il portoghese blocca la sostituzione. Pandev non è un tiratore abituale di punizioni, e da quel giorno in poi, almeno in Italia, segnerà soltanto un’altra volta su piazzato, in un Napoli-Cesena di Coppa Italia. Una mano invisibile sta guidando Mourinho, e il macedone non solo calcia la punizione, ma segna. E lo “Special One” non ha il ghigno, ride, ride di gusto.
Mancano 25’ più recupero, il Milan sbuffa ma non riesce a riaprire il discorso. Il derby si riaccende nei minuti conclusivi, dopo che un arpione volante di Huntelaar ha impegnato severamente Julio Cesar. Il tabellone luminoso ha mostrato il numero 5, Lucio si getta a corpo morto su una conclusione a botta sicura, per Rocchi è fallo di mano: secondo giallo, Inter in 9, rigore apparecchiato per il destro di Ronaldinho. Inizia il secondo show di Mourinho, che non ride più. Chiede al pubblico interista di urlare, la gente risponde con un coro per lui e il lusitano indica la squadra in campo. Dinho va sul dischetto ma è la notte dell’Inter e Julio Cesar lo mura, lasciando il risultato sul 2-0 ed estromettendo il Milan dalla lotta scudetto.
«Torno a casa con un sapore strano, ho sentito un odore strano stasera. Il Paese è vostro, il campionato pure. Io me andrò prima o poi, e il problema resterà solo vostro. Ho già capito che il campionato non ce lo lasceranno chiudere in fretta. Oggi è stato fatto di tutto per non farci vincere. Ma credo che in qualche modo riusciremo a vincere questo scudetto. Se Ronaldinho avesse fatto gol, i minuti di recupero sarebbero diventati 8. L'unico modo per farci perdere era lasciarci in 6». Sul fatto che il campionato andrà alla lunga, ha ragione. Sarà la Roma di Ranieri a strapparglielo virtualmente per qualche settimana, prima del controsorpasso grazie a una doppietta di Pazzini quando ormai tutto sembrava perduto. In mezzo, le tante fatiche di una squadra in trasformazione e, talvolta, in crisi isterica: dalle manette di Mourinho contro la Sampdoria alla follia di Muntari a Catania, fuori in 60 secondi dal suo ingresso in campo. In fin dei conti, per un triplete, valeva la pena anche digerire un po’ di pazzia.
2010-11, l’ultimo volo di Pato
Da non perdere: l’insensata parata di Abbiati a 1:49, l’incredibile errore di Eto’o a 2:13, Pato che vola verso la porta come se fosse a bordo di uno scooter a 2:23.
Alexandre Rodrigues da Silva aveva a che fare con la leggerezza. Lo vedevi correre in perfetta armonia con il pallone, sempre piegato alla sua volontà anche nel momento di massima velocità, e pensavi alla bellezza, alla gioia di volare su un prato senza altri pensieri assillanti, alla libertà, alla possibilità di giocare per il gusto di farlo. Lo aveva portato in Italia, con un guizzo da dirigente di razza, un suo connazionale, che da calciatore era stato sia ferro, nei suoi anni da terzino, che piuma, nella ben più elegante e calzante veste di trequartista. Tra Leonardo e Pato era stato amore a prima vista. Il DS aveva convinto Berlusconi e Galliani a sborsare 22 milioni di euro per un ragazzo diciassettenne, che ancora non poteva sbarcare in Italia per questioni regolamentari.
Come si fa a dare un prezzo alla leggerezza? Dopo diciotto mesi folgoranti, la struttura fisica del “Papero” aveva iniziato a lanciare segnali di inquietudine, complice una crescita inattesa in altezza (si vocifera di almeno 8 centimetri) e una più programmata di peso. Ma nella primavera del 2011, con il Milan in testa a difendersi dall’assalto del Napoli e dell’Inter, Pato deve passare sopra a quei bicipiti femorali che non vogliono dargli tregua e alla marcatura a uomo dei paparazzi, impazziti per la sua liaison con Barbara Berlusconi. La concorrenza partenopea sembrava dimenticata dopo il 3-0 di fine febbraio, seguito dal successo in casa della Juventus: un sinistro non irresistibile di Gattuso aveva fatto pensare all’ipoteca sul tricolore.
Le due gare successive, prima della sosta, avevano però ridato fiato alle inseguitrici, complici due carneadi o quasi: il disastrato Bari di Bortolo Mutti era stato in grado di portare via un punto da San Siro (1-1) aprendo le marcature con un tale Gergely Rudolf, il Palermo di Serse Cosmi aveva fatto ancora meglio, vincendo al Barbera con la firma di Dorin Goian. Una sconfitta inattesa che aveva fatto piovere addosso a Massimiliano Allegri una valanga di critiche: la meno prevedibile e più lucida era a firma Federico Buffa, ai tempi in forza (anche) a Milan Channel. Un’invettiva a base tattica di dodici minuti ancora oggi consultabile su Youtube.
La classifica è cortissima: rossoneri in testa a quota 62, Inter a due lunghezze, Napoli terzo a 59, teoricamente in corsa scudetto anche l’Udinese, quarta a 56. Eliminato dalla Champions, il Milan ha il fiatone e ha perso Zlatan Ibrahimovic, espulso contro il Bari per una manata a Marco Rossi e squalificato per tre turni (due dopo il ricorso). Allegri non ha avuto a disposizione nemmeno le scosse elettriche garantite da Kevin-Prince Boateng, che però può farcela per il derby.
Dall’altra parte, l’Inter vola. È stata rigenerata dall’arrivo di Pazzini nel mercato di gennaio e da quello del nuovo tecnico, approdato in nerazzurro dopo la rottura con Rafa Benitez in seguito alla vittoria del Mondiale per club. La sera del 24 dicembre, a mo’ di Babbo Natale, Massimo Moratti aveva piazzato sotto l’albero degli interisti il nome più impensabile: quello di Leonardo. Non più dirigente o allenatore del Milan ma tecnico dell’Inter: seguono quattordici vittorie, un pareggio e due sconfitte, la squadra trascinata dal pantano della zona Europa League alla prospettiva di vincere ancora una volta lo scudetto. Sono tutti convinti che il sorpasso sia imminente. Anche Cavani, il bomber del Napoli, tifa per l’Inter: «Vorrei che l’Inter vincesse il derby, la squadra di Leonardo passerebbe al comando ma non scapperebbe via, e noi potremmo scavalcarla nello scontro diretto al San Paolo, con l’aiuto di ottantamila amici».
In casa Milan, a suonare la carica è Boateng: «Non farei mai quello che ha fatto Leonardo, non da una stagione all’altra. Voglio farlo tornare a casa col pensiero della sconfitta in testa». Il tecnico interista risponde piccato: «I legami non si cancellano nelle tre ore di un derby, le persone devono essere libere di mandarsi a quel paese, non siamo in un convento. Se me la sentirò, gioirò. Io lavoro per arrivare alla vittoria. Non dimentico nulla di quello che ho vissuto ma mi sono sentito da subito legato alle persone dell’Inter». Allegri sdrammatizza: «Non è decisiva, con sette da partite ancora da giocare ci sono molte possibilità che le sorti si rimescolino ancora. Guardate loro: a -7 sembravano morti, adesso sono di nuovo qui». Anche stavolta, come nel 1993, chi era pronto per la rivoluzione rimane scottato.
Dopo neanche 50 secondi, la difesa dell’Inter si fa infilare in maniera sconcertante, permettendo a Pato di insaccare un rigore a porta vuota. Leonardo ha scelto un assetto offensivo, con Pandev-Sneijder-Eto’o a ridosso di Pazzini, e il centrocampo composto da Cambiasso e Motta va in apnea davanti al dinamismo di Gattuso, all’intelligenza tattica di van Bommel e alla versione deluxe di Seedorf, storicamente tirato a lucido nelle notti che contano. Pazzini ha la chance per l’1-1 ma spara addosso ad Abbiati, monumentale su un colpo di testa tonante di Thiago Motta. Eto’o si divora il gol del pari e allora il Milan può rifiatare durante l’intervallo.
La ripresa si apre con Boateng che vede Pato volare. Lo lancia in campo aperto, il brasiliano con due tocchi copre 25 metri di campo e si fa stendere da Chivu, che prosegue la sua corsa sotto la doccia. C’è ancora il “Papero” quando Abate partorisce un qualcosa che non è né un tiro, né un cross, rendendo terribile un’azione fin lì splendida sull’asse Seedorf-Flamini-Robinho. Pato ci mette la testa, la porta è vuota, 2-0. Robinho inizia a sbagliare gol in maniera compulsiva, a mettere le ganasce alla rincorsa scudetto dell’Inter ci pensa Cassano, che si procura il rigore del 3-0, lo trasforma, si toglie la maglia, poi si fa buttare fuori per un fallo su Cordoba, in pieno stile Cassano.
«Purtroppo ha questo vizio di togliersi la maglia, poteva risparmiarsi anche l’entrata successiva», lo striglia Allegri, che sa di avere lo scudetto in pugno. «Abbiamo giocato con serenità, ed è quello che avevo chiesto. Diciamo che abbiamo dato un bel colpo alla classifica». Dopo quel 2011, Pato non sarà più leggero come prima. Niente più corse spensierate, solo qualche illusione in luoghi lontani dal calcio che conta davvero, e ogni giorno un altro giorno da contare. Com’è che non riesci più a volare?
2011-12, Milito consegna il tricolore alla Juve
Da non perdere: Maicon che a 1:32 inizia a urlare con le mani spalancate come se stesse per finire il mondo, il passo di danza di Ibra a 1:52, l’idea meravigliosa di Sneijder a 2:13, il missile di Maicon a 3:29.
Per tutti quelli che lo avevano seguito durante la sua carriera giovanile, Andrea Stramaccioni aveva il marchio del predestinato. Bruno Conti lo aveva voluto alla Roma nel 2005, dieci anni e mezzo dopo quel contrasto in un Bologna-Empoli di Coppa Italia di Serie C che gli aveva sbriciolato un ginocchio e le possibilità di carriera. Aveva fatto la trafila da tecnico degli Esordienti fino agli Allievi, ben sapendo che sarebbe stato l’ultimo passaggio possibile in giallorosso: Alberto De Rossi è il monumento della Primavera romanista. Ernesto Paolillo aveva quindi deciso di consegnargli i ragazzi dell’Inter, rimasti senza allenatore dopo la partenza di Fulvio Pea. Arriva nel luglio del 2011, senza avere la minima idea di poter diventare, da lì a nove mesi, il tecnico della prima squadra.
L’Inter ha vissuto una stagione sull’ottovolante, scartando in fretta il progetto Gasperini per ripiegare sull’usato sicuro rappresentato da Claudio Ranieri, a sua volta libero dopo aver concluso la sua esperienza romanista per un traumatico Genoa-Roma 4-3. E così, il primo aprile, per Inter-Genoa in panchina c’è proprio Stramaccioni: finisce 5-4, ma sono pur sempre tre punti all’esordio. I nerazzurri sono ormai fuori dalla corsa Champions, all’ex mister della Primavera si chiede di finire bene.
Lo scudetto se lo stanno giocando Juventus e Milan, in un clima reso velenosissimo dal celeberrimo gol di Muntari, episodio pesante tanto quanto l’infortunio che tiene ai box Thiago Silva dai primi minuti della sfida con la Roma del 24 marzo. Dopo quel 2-1 ai giallorossi, il Milan aveva ancora 4 punti di vantaggio sulla prima Juve di Antonio Conte: erano però seguiti l’1-1 di Catania e l’imprevedibile 1-2 interno con una Fiorentina in piena lotta salvezza. Un ko firmato da Amauri, al suo unico gol in viola, opaca controfigura dell’attaccante che aveva stregato Palermo. La Juventus aveva quindi preso la vetta, allungando dopo Milan-Bologna 1-1 per poi frenare di colpo dopo l’1-1 con il Lecce, complice un pasticcio di Buffon sulla pressione di Bertolacci.
Siamo quindi alla trentasettesima giornata di campionato: la Juve, avanti di una lunghezza, è di scena a Cagliari. Il Milan di Allegri deve invece vedersela con l’Inter di Stramaccioni, in un derby che può regalare lo scudetto ai bianconeri. L’allenatore nerazzurro viene provocato alla vigilia: ci si aspettava un’Inter più giovane, ha invece attinto a piene mani dai veterani. «Per gestire nove partite alla morte serviva l’Inter migliore, che per me è frutto di un giusto mix: non Obi e Poli insieme, ma Obi o Poli con Cambiasso. Poi, a fine stagione, si potrà riprogrammare ex novo, e l'Inter ha una batteria di under 25 molto interessante. Se Dio e Moratti vorranno, ne riparleremo. Sarà la nostra partita, voglio coraggio e cuore. Sarà banale, ma è la parola che riassume tutto ciò che non si allena: è la vera arma in più che hai dentro».
Vincere il derby vorrebbe dire restare in sella, sullo sfondo si stagliano le figure di Prandelli e Bielsa, ma “Strama” piace a Moratti. Allegri sembra più tranquillo: per settimane ha pronosticato un passo falso della Juventus che è finalmente arrivato, ma per vincere lo scudetto ne serve un altro. «A cinque minuti dalla fine lo scudetto sembrava chiuso, invece ora non è più così. È ancora tutto nelle mani della Juventus, però noi continueremo a crederci fino alla fine. Il derby sarà bello e io, che ho la fortuna di stare sulla panchina del Milan, me lo voglio gustare tutto».
La prima chance è per Ibrahimovic, poi l’Inter alza i giri. Vantaggio griffato Milito, poi un altro gol-non gol, stavolta di Cambiasso: grande riflesso di Abbiati, anche se forse fuori tempo massimo. Il portiere mura anche Sneijder e poi alza bandiera bianca (dentro Amelia), il Milan rimane in partita per miracolo e si ritrova sull’1-1 per una decisione inspiegabile di Rizzoli, che assegna un penalty inesistente in seguito a un’uscita bassa di Julio Cesar sul tentativo di dribbling di Boateng. Ibrahimovic, polemico ex, trasforma. Lo svedese adesso è carico a pallettoni, in avvio di ripresa passa tra Maicon e Lucio partendo spalle alla porta con un movimento sublime, il tocco sotto su Julio Cesar è delicatissimo.
I nerazzurri non si perdono d’animo nemmeno quando Sneijder va vicino al gol dell’anno con una giocata alla Quagliarella. Rizzoli continua a infilare disastri: nega un rigore solare per un sandwich su Samuel, poi indica il dischetto quando Abate – sempre lui – accenna una trattenuta su Milito – sempre lui – in area. L’argentino incrocia il destro per il 2-2 e va a riprendere il pallone per portarlo a centrocampo, vuole vincere. Muntari si divora il tris, poi di nuovo tutti a tirare il fiato per un rigore: braccio di Nesta, ancora Milito con la sassata sotto la traversa. Lo scudetto è già virtualmente juventino, la ciliegina ce la mette Maicon, con una di quelle sue discese da cavallo pazzo sulla destra, terminata con una conclusione altrettanto pazza: una rasoiata di esterno destro che fa scoppiare il pallone sotto l’incrocio dei pali.
Moratti applaude convinto, Stramaccioni è l’allenatore del futuro dell’Inter, Antonio Conte festeggia lo scudetto. I giornali italiani partoriscono ogni tipo di gioco di parole con la radice Stra. Diventa un esercizio stordente e sfiancante (per chi legge): «Straconfermato? Di certo Straripante. E di sicuro Straordinariamente vicino alla stretta di mano con Moratti», è l’attacco di un pezzo apparso sulla Gazzetta del giorno successivo all’impresa. E via di seguito con i vari Strarimonte, Stramadunina (ma perché?), Stracura, Stracandidata al terzo posto. Si arriverà fino a Stramouccioni. A distanza di sette anni, le strade di Allegri e Stramaccioni non potrebbero essere più distanti.
Il derby dei derby: la semifinale di Champions del 2003
Da non perdere: Pirlo che prova il gol dell’anno a 1:59, Sheva che raccoglie il corpo da maestro a 3:21, Materazzi che cerca di togliergli la gioia di riprodursi a 4:57 (terminerà l’incontro senza essere ammonito), Diego Della Valle che esulta in basso a sinistra a 5:20 dopo il gol di Martins.
Arrivati a questo punto, possiamo dire la verità fuori dai denti: i derby fanno stare male molta gente. La fanno stare male prima, durante (l’intervallo è una tortura terribile), chi perde sta male anche dopo. Al fischio finale soltanto i più lucidi riescono a realizzare di essere alle prese con il momento, per quanto triste, più lontano dalla successiva agonia. I tifosi di Inter e Milan non hanno mai dovuto vivere lo strazio di una stracittadina in finale di Champions League, toccato in sorte per due volte nel giro di tre anni ad Atlético e Real Madrid, ma ci sono andati molto, molto vicini.
Siamo nel maggio del 2003 e Milano ribolle all’idea che le formazioni di Hector Cuper e Carlo Ancelotti debbano scontrarsi per un posto nella finale di Manchester. Il sangue prende fuoco all’idea che l’ultimo atto possa essere contro un altro nemico storico come la Juventus, a sua volta impegnata con il Real Madrid. Le due partite d’andata dicono che i bianconeri dovranno ribaltare un 2-1 e che il Milan, per ragioni di sorteggio, avrà a disposizione due risultati su tre nella gara di ritorno: lo 0-0, invero bruttino, del primo round proietta i rossoneri a una resa dei conti giocata in trasferta, potendo contare sul peso doppio degli eventuali gol segnati il 13 maggio. Sui taccuini rimane poca roba dopo lo scontro del 7 maggio: un paio di occasioni sciupate da Recoba nel primo tempo, un timido assalto rossonero nella ripresa.
Due squadre così spaventate all'idea di rischiare qualcosa di più rispetto al normale da chiudere un derby di tale importanza senza cartellini gialli, quasi fosse un Trofeo Birra Moretti. «L’importante è non aver preso gol», commenta Gattuso. Lo 0-0, per il Milan, è il più bello tra i risultati brutti. Discorso diverso per l’Inter, che avrà qualche tifoso in più sugli spalti ma dovrà necessariamente vincere, a meno di voler tirare la sfida fino ai rigori sullo 0-0. Berlusconi, sempre alla ricerca del bel giuoco, lascia lo stadio senza parlare, scuro in volto. Ancelotti non la pensa come il padrone del vapore: «Lo zero a zero è un buon risultato in vista del ritorno. C'è un piccolissimo vantaggio, che cercheremo di sfruttare».
Alla Pinetina, in settimana, si lavora tanto anche sui rigori. «Parare un rigore è come fare un gran gol: non c'è una legge, perché non può esserci quando chi comanda è soprattutto l'istinto», racconta Toldo sulle pagine della Gazzetta. Il suo rivale è in dubbio: Nelson Dida ha un fastidio alla mano, un problema non da poco per un portiere. «Preferirei che i miei compagni risolvessero prima la pratica, ma se c'è bisogno di me non mi tiro indietro. Sono abituato a prendermi le responsabilità». Il derby non fa stare male soltanto i tifosi, Rino Gattuso è allo stremo delle forze psicologiche: «Divertirsi in campo? Non scherziamo, io non mi diverto per nulla e non vedo l'ora che questa semifinale finisca. Ho il mal di stomaco da tre giorni. Qui c'è poco da stare allegri, c'è da soffrire e combattere. Qualcosa di bello c'è: superato questo turno, giocare a Old Trafford sarebbe più leggero».
La verità è che sulla graticola ci sono i due allenatori. Cuper non ha ancora smaltito la botta del 5 maggio 2002, Ancelotti non ha convinto Berlusconi. E così, nel giorno della semifinale, la “Rosea” dedica ai tecnici una pagina dal titolo «Chi non vince licenziato è». Nei tre derby stagionali, l’Inter non ha mai segnato: doppio 1-0 milanista in campionato prima dello 0-0 dell’andata europea, un ruolino che non turba i sonni di Cuper. «Sei giorni fa ero convinto di passare il turno, adesso lo sono ancora di più. Nei novanta minuti dell'andata ho visto una buona Inter, e spero di incidere anche io: probabilmente dirò ai giocatori una frase che non mi sono preparato, ma che ho letto tanti anni fa».
L’argentino conferma la difesa a 3 vista nel match d’andata, Coco è l’unico assente rispetto a sei giorni prima: al suo posto Cristiano Zanetti, davanti ancora Crespo-Recoba. Ancelotti punta sul suo undici migliore, con Rui Costa alle spalle di Inzaghi e Shevchenko. Quanto alle occasioni da rete, non succede nulla. Il primo tempo sta andando silenziosamente in archivio come i 90’ dell’andata, fino alla fiammata del “Re dell’Est”. Seedorf per Shevchenko, il primo tocco dell'ucraino non è pulitissimo ma il rimpallo gli sorride, e Sheva ha l’energia per distendersi e anticipare l’uscita bassa di Toldo. Il pallone schizza sotto la traversa, il Milan ha segnato in trasferta e quello che sentono i tifosi interisti è il boato sordo in lontananza: non lieve come per un settore ospiti in una partita “normale”, ma sempre il peggior rumore che un appassionato possa ascoltare.
I rossoneri tornano negli spogliatoi in vantaggio e si preparano psicologicamente a un secondo tempo in trincea, tutti a protezione di Abbiati, chiamato a difendere i pali visto il forfait prepartita di Dida. Il Milan sembra in controllo, a 10’ dalla fine Ancelotti richiama Inzaghi per Serginho, mentre Cuper aveva cercato gambe e idee inserendo il duo Dalmat-Martins all’intervallo (fuori Di Biagio e Recoba) e quindi Kallon per Crespo. A differenza dell’andata, stavolta ci si picchia abbastanza. Shevchenko vive un match sull’orlo dell’evirazione, con Materazzi che assesta qualche colpo da codice penale, e c’è spazio anche per il doppio senso sulla parola penale. Mancano sei minuti alla fine e un pallone si impenna a circa 20 metri dalla porta di Abbiati. Maldini va al duello aereo con Martins, diciottenne ruggente ma di certo sfavorito in una lotta del genere. Eppure, non si sa come, la sfera cade sul collo di “Oba Oba”, che è spalle alla porta ma capisce meglio di tutti come e dove andrà a finire. Parte come una scheggia e si ritrova davanti ad Abbiati, fulminato con una conclusione rasoterra.
L’Inter ritrova forze e convinzione in un battito di ciglia. I tifosi milanisti, tutti, indistintamente, che siano a casa, sugli spalti, in un pub o davanti a qualsiasi schermo in grado di riprodurre la partita, devono sentirsi come Bridget Von Hammersmark mentre Hans Landa la punta sospettoso nello stanzino del cinema Le Gamaar in Bastardi senza gloria. Sperano di salvarsi, non sanno ancora se ci riusciranno, e tutto sembra andare nella direzione peggiore. Ma Diane Kruger non aveva Christian Abbiati dalla sua, e l’Inter non sa sfoggiare l’inquietante sorriso di Christoph Waltz. Portiere da sempre abituato a momenti di grande difficoltà alternati a improvvise esaltazioni, l’estremo rossonero è monumentale in uscita bassa su Kallon, pronto a colpire al cuore il nemico. Mentre il pallone rotola lento verso il fondo, i tifosi milanisti non possono che trattenere il fiato e sperare: esce, di poco, ma esce, ancora 1-1.
Abbiati è decisamente meno elegante sugli sviluppi di un corner che porta Cordoba a staccare sul palo lontano: si accuccia goffamente contro il legno, usandolo come ancora di salvezza, e blinda la porta. Prova a salire anche Toldo, ma non serve a niente. Il Milan è in finale di Champions League, dove troverà la Juventus per un ultimo atto tutto italiano: partita sporca, risolta ai rigori, poco importa a chi ha potuto alzare la coppa dalle grandi orecchie al cielo di Manchester.
La chiosa spetta a Rino Gattuso, quello che sentiva il derby più di tutti e ora, da tecnico del “Diavolo”, proverà a rivivere, anche se in piccolo, una notte di ansie e pathos. Non c’è niente di così grande in palio, e l’Inter di Luciano Spalletti è lì, pronta a giocarsela alla pari. «Questa non è una finale, è storia. E quando saremo vecchi ci ricorderemo di quello che abbiamo fatto in queste due partite».