Ci sono orari e momenti più propizi di altri per parlare in sincerità. Per esempio, il tramonto: di una giornata, di una vita, di una stagione sportiva. «Sai che ogni volta che vedo un tramonto mi girano i coglioni?», confessava il sergente Nicola Lorusso (Diego Abatantuono) sul lettino dei massaggi in Mediterraneo, «perché penso che è passato un altro giorno».
E invece Stefano Pioli ha atteso il tramonto del campionato, ovvero la penultima risposta dell'ultima conferenza stampa stagionale, per consegnare ai taccuini la battuta più breve e più sincera dell'anno. «Si è mai sentito così amato nella sua carriera, come qui al Milan?» «No».
È la verità: Stefano Pioli non è mai stato troppo amato e nemmeno troppo considerato. Solo due anni fa sarebbe apparso lunare che una curva gli dedicasse un coro da discoteca rivolto semmai a generosi attaccanti di bassa lega come quel Will Grigg che nel 2016, grazie ai tifosi del Wigan e dell'Irlanda del Nord, era diventato una celebrità europea grazie al sound anni '90 di “Freed From Desire”. Prima di arrivare al Milan Pioli aveva trascorso una sola giornata in testa da solo alla Serie A, nel settembre 2010 a guida del Chievo a punteggio pieno dopo due giornate: in quel week-end il Milan aveva perso 2-0 a Cesena nella sera del disastroso esordio in rossonero di Zlatan Ibrahimovic con tanto di rigore tirato sul palo. Per dare un'idea del tempo che è passato: il giorno dopo, seduto accanto a Giorgia Meloni sul palco di una festa giovanile del Popolo della Libertà, il presidente Berlusconi se l'era presa con il direttore di gara Russo (nel senso del cognome) - “Il problema è che spesso il Milan si imbatte in arbitri di sinistra”.
Molti tratti distintivi del Milan piolista erano già visibili nelle precedenti esperienze, specialmente le più felici. E nulla di più felice dello splendido terzo posto conquistato con la Lazio nel 2014/15, quando i biancocelesti avevano arpionato il play-off di Champions (poi perso contro il Bayer Leverkusen) chiudendo al primo posto per contrasti (21,1 in media a partita), anticipi (19,8) e falli commessi (17,8), tutti aspetti del gioco volti all'aggressività e al recupero veloce del pallone. Anche quella Lazio non aveva un Immobile o Vlahovic a cui aggrapparsi in fase offensiva: Klose si era limitato a 13 gol in 34 partite, appena tre in più di Parolo, Candreva e Felipe Anderson, tutti in doppia cifra. Ma nella stagione successiva le cose si erano deteriorate in fretta, con uno spogliatoio sfasciato già in estate e Pioli subito degradato al ruolo di capro espiatorio, costituzionalmente ideale per un uomo così mite, dal profilo così basso, poco incline all'istrionismo.
Allo stesso modo era andata l'esperienza all'Inter, iniziata nel novembre 2016 da un derby pareggiato in extremis grazie a Perisic e festeggiato come se avesse vinto lo scudetto, come ebbe a ironizzare all'epoca il rivale cittadino Vincenzo Montella. Con un clamoroso filotto invernale si era riavvicinato alla zona Champions, con risultati anche roboanti (come il 7-1 alla prima Atalanta di Gasperini) prima di un crollo improvviso e verticale che si sublimò nel derby di ritorno, “il derby di Zapata” nelle memorie milaniste, con l'Inter raggiunta sul pareggio al 97' anche per colpa di qualche sostituzione tremebonda dell'allenatore. Un tracollo di cui Pioli non aveva avuto il minimo sentore, tanto che ancora a inizio primavera sui giornali si leggevano titoli incredibili come questo, simbolico della caducità del calcio: “Pioli in netto rialzo nei progetti dei cinesi” in un pezzo della Stampa firmato da Laura Bandinelli, che oggi fa parte della comunicazione del Milan ed è fedele compagna di banco di Pioli in tante conferenze stampa, anche lei in lacrime a Reggio Emilia al fischio finale.
Pioli fu capro espiatorio anche allora, esonerato maldestramente dalla proprietà cinese alle 22:30 di un martedì sera di maggio, mentre contemporaneamente la Juventus si qualificava in finale di Champions battendo 2-1 il Monaco e oscurava qualunque altra notizia di calcio: tempistica curiosa, irrituale, che denotava un certo desiderio di passare inosservati. Quindi i due anni a Firenze, esaltanti e terribili, interrotti in modo ancora più traumatico con le dimissioni dopo un comunicato della società viola (ancora rappresentata dai Della Valle, pochi mesi prima che vendessero a Rocco Commisso) che addirittura metteva velatamente in dubbio le qualità professionali e umane di Pioli. Insomma: esonero Palermo, esonero Bologna, esonero Lazio, esonero Inter, dimissioni Fiorentina. Questa la mappa delle cicatrici quando, il 7 ottobre 2019, il normale-troppo-normale Pioli reggeva amleticamente lo smartphone bollente di chiamate: Genoa o Sampdoria? Preziosi o Ferrero? L'ultima o la penultima? A tirarlo fuori da quest'abbraccio mortale, che ricordava il paradosso di “War Games” (“Strano gioco, l'unica mossa vincente è non giocare”), ci pensò il Milan, stufo del minuetto tra Spalletti e Marotta che aveva bloccato l'uscita dall'Inter del tecnico toscano per motivi di buonuscita. Agli occhi di tutti, l'arrivo dell'irrilevante Stefano Pioli certificava la nuova dimensione di subalternità del Milan di Elliott rispetto non solo alla Juventus e all'Inter, ma anche al Napoli e alla Roma, tutte squadre che nelle stagioni precedenti avevano concluso il campionato con decine di punti in più.
Un giornalista milanologo di lunga data come Luca Serafini ama ricordare una frase del primissimo Pioli milanista, pronunciata dopo una brutta sconfitta per 2-1 in casa di una Roma zeppa di infortuni eppure superiore in spirito e tecnica a quel Milan senza capo né coda dell'autunno 2019: «Qua sembra che vincere, pareggiare o perdere non faccia differenza». Una frase che prendeva atto con sorpresa della mesta quotidianità di un Milan tanto lontano dalla sua tradizione. Pioli stava dunque già gettando la spugna dopo meno di un mese? Avanti un altro, magari un altro grande ex da passare nel tritacarne come già capitato ai vari Seedorf e Inzaghi? Quel che è successo da lì in avanti è noto e più volte raccontato: l'estrema umiliazione dello 0-5 di Bergamo, disfatta simbolicamente collocata a tre giorni da Natale, punto più basso del decennio più duro della storia del Milan dal dopoguerra in avanti. La mini-rivoluzione invernale con l'arrivo dei vecchioni Kjaer e Ibrahimovic, che comunque non scongiurava l'ennesimo ribaltone tecnico e societario; il licenziamento di Boban e l'accantonamento di Paolo Maldini a favore del guru Ralf Rangnick. «Nasce il sentimento, nasce in mezzo al pianto», dicevano Mogol e Battisti. Nella primavera del 2020 qualcuno anticipò persino l'imminente arrivo di Julian Nagelsmann, mentre nel silenzio del lockdown germogliava misteriosamente, in circostanze non prive di mistica, un Milan tutto nuovo, bellissimo, giovanissimo, modernissimo, capace di 195 punti in 88 partite. Di fronte a questa continuità, spalmata nell'arco temporale di due stagioni e mezza, va da sé che ogni paragone con questo o quel Leicester è del tutto fuori luogo: i miracoli sono altri.
Eppure ancora si diffida, si obietta, si scruta il cielo con aria saputa proclamando che questa bella stagione non durerà a lungo. Nonostante negli ultimi due anni la sua metamorfosi ricordi spettacolarmente quella di Walter White di Breaking Bad (per sua fortuna con un finale migliore), Pioli non riesce a disfarsi del cliché da acqua cheta cui fanno ricorso persino i commentatori più avveduti. Su un articolo comparso domenica sul Corriere della Sera, l'interista Beppe Severgnini ironizzava sulle qualità professionali di Pioli, degradato ad “assistente spirituale” del vero allenatore che sarebbe Ibrahimovic. Non serve a nulla avere la miglior difesa del campionato pur avendo perso il leader del reparto a inizio dicembre, non serve a nulla aver trasformato Kalulu – zero presenze da professionista prima dell'arrivo al Milan – in una specie di Desailly più magrolino che non sbaglia un anticipo, non serve a nulla aver messo insieme 86 punti con quattro giocatori retrocessi in serie B come Bennacer, Krunic, Tonali e Messias, non serve a nulla aver sgrezzato i diamanti Tonali e Leao nella testa prima ancora che nella tattica, non serve a nulla aver trasformato il cavallo pazzo Theo Hernandez in un tornante illeggibile per qualsiasi difesa e oggi a pieno merito titolare della Nazionale più forte del mondo.
In particolare il lavoro sulla fase difensiva – solo due gol subiti nelle ultime 11 giornate, sempre sullo 0-0 – è stato enorme, solo in parte agevolato dall'esuberanza fisica dei due centrali: grazie alla rapidità di Tomori e Kalulu e del felino Maignan dietro di loro, il Milan è riuscito a minimizzare qualunque errore in fase di palleggio e costruzione (per esempio quelli di Calabria nel primo tempo di Milan-Atalanta), diventando la squadra che concede meno tiri in assoluto. Ha pagato lauti dividendi l'adesione ai princìpi di un calcio mitteleuropeo, più tedesco che inglese per la verticalità a volte estrema, affidandosi forse oltre il dovuto alla qualità di Maignan che del resto ha fruttato una buona quantità di improvvise superiorità numeriche, a cominciare dall'assist a Leao contro la Sampdoria (più un altro per Tonali contro il Verona vanificato da un leggero fuorigioco). L'espediente di isolare Leao, mettendolo nelle condizioni di avere la maggior superficie di campo possibile per i suoi micidiali uno contro uno, è stato forse banale ma è riuscito quasi sempre (anche se Allegri e Inzaghi sono riusciti a neutralizzarlo), fino ai tre assist del primo tempo di Reggio Emilia, roba da Kakà o Serginho nelle migliori giornate. Inoltre, è stata enciclopedica la gestione psicologica di un cast così variegato, dal totem Ibra all'introverso Messias, dal mite Krunic allo scoppiettante Florenzi passando per il fuoriuscito Kessié, a lungo svagato specialmente nella parte centrale del torneo.
Pioli dovrebbe augurarsi di continuare a essere sottovalutato, alimentare questa nomea da frate cappuccino tanto cara agli osservatori più superficiali, magari incoraggiarla facendosi crescere un altro po' la barba bianca. Nel sistema odierno è una figura irregolare, non un incendiario alla Mourinho ma nemmeno piattamente padano come Simone Inzaghi che in ogni intervista usa ancora lo stesso frasario che adoperava da calciatore. Quest'anno si è lamentato per i campi troppo stretti, ha proposto di vietare i retropassaggi dopo il centrocampo, nei momenti più ruvidi della stagione si è morso la lingua più volte per non seminare il veleno dell'alibi nella testa del suo giovane gruppo. Pur senza mai puntare allo zero a zero, non ha praticamente sbagliato nulla. Forse, per un certo modo di intendere il calcio e la comunicazione calcistica che abbiamo noi, il lato più disturbante di Pioli è che non è affatto facile trovare il fianco su cui attaccarlo.
Insomma Pioli ha seminato bene, con pazienza e persistenza, ma nel calcio non puoi mai essere troppo sicuro di come sarà il raccolto. Probabilmente Pioli ha scoperto di essere maturo lui, e matura la sua squadra, nel secondo tempo del derby di ritorno, 5 febbraio 2022: la più importante delle ventisei vittorie in campionato, la più difficile da spiegare. Il Milan non ha il controllo della fascia sinistra né tanto meno della destra, dove Perisic sta dominando Calabria e Messias. In mezzo il solo Tonali, per nulla aiutato da un pessimo Kessié, non basta a reggere l'urto di Brozovic e Calhanoglu. All'Inter non si può rimproverare nemmeno un atteggiamento troppo speculativo: pur senza mai tirare in porta nella ripresa, il controllo sembra assoluto. Ma non finire sott'acqua nei momenti difficili è dote eccezionale: il Real Madrid ci ha ricavato una finale di Champions. Il Milan si scopre grande con enorme sorpresa, come un ragazzino adolescente davanti allo specchio, nei dieci minuti centrali della frazione, scanditi dai cambi discutibili di Simone Inzaghi che si affretta a sostituire Perisic indolenzito da un crampo e l'ottimo Calhanoglu appena ammonito, cambiandoli con Dimarco e Vidal che non entreranno mai in partita. E a sovvertire un campionato così precario, ribaltabile con uno sbuffo di vento, sono sufficienti i venti minuti migliori della carriera di Brahim Diaz: non esattamente Bernardo Silva, tuttavia la carta vincente pescata dalla panchina da Pioli, che essendo di Parma non può mandare in sollucchero i giornalisti con mille metafore sul mare e la navigazione, ma in quell'estremo brandello di derby – lui che troppe volte aveva sbagliato i cambi nelle partite importanti – trova il modo migliore per dare al gruppo, e dunque anche a sé stesso, la scarica di autostima che non farà più perdere il Milan fino a fine campionato.
Abbiamo parlato dei motivi tattici e psicologici che hanno portato Stefano Pioli a diventare campione d'Italia, gradualmente, a fari spenti, ma non per caso. Esiste però un ultimo aspetto più intimo che sospettiamo sia decisivo almeno quanto gli altri, anche se per pudore e rispetto in queste ore l'uomo non vi ha mai fatto cenno. È l'eterna storia dei cerchi che si chiudono, vicende umane affascinanti non solo per la letteratura: la vita di ogni persona è costellata di parentesi abbandonate aperte in un angolo della mente che a tradimento riaffiorano a procurarci fitte improvvise. «Ogni volta che ricevo una telefonata improvvisa, rivivo quel trauma», disse a ottobre. È possibile che, in queste lunghe settimane di allenamenti, silenzio, concentrazione e altro silenzio, Stefano Pioli abbia pensato più volte a Davide Astori. Sul polso sinistro, di recente in bella vista a furia di alzare le braccia per esultare e sollevare trofei, si legge chiaramente DA13, iniziali e numero di maglia in omaggio a Davide Astori. Qualunque superstite della straziante alba del 4 marzo 2018 all'hotel Là di Moret di Udine non potrà mai dimenticare gli istanti penosi di Pioli costretto ad assolvere il compito più terribile per qualsiasi allenatore: il giro delle stanze per dare ai giocatori la notizia che il loro capitano non c'è più. Due giorni dopo si erano tutti ritrovati ai Campini, storditi e con gli occhi gonfi, e si erano sentiti rivolgere da Pantaleo Corvino parole definitive: «Per me potete smettere di giocare oggi, non ha importanza quello che succede da qui al termine della stagione. Non so come andremo avanti».
Avrà pensato che, dalla partita successiva contro il Benevento, la fascia di Astori era finita sul braccio di un giocatore di nome Milan, una piroetta del destino talmente sfacciata che non può essere ridotta a un semplice calembour giornalistico. Se è vero che la stagione della rinascita del Milan, conclusa in trionfo contro le due bestie nere del decennio Atalanta e Sassuolo, è un labirinto borgesiano di corsi e ricorsi, dev'essere così anche per Pioli. E Pioli – finalmente notato, finalmente amato, finalmente libero dal peso di un curriculum bianco come la polo indossata a maniche arrotolate nella fornace di Reggio Emilia, finalmente portato in aria sulle note di un canto popolare come quelli dedicati a Kakà, Shevchenko, Van Basten o Franco Baresi – finalmente avrà sorriso, al pensiero che il momento più bello della sua carriera sia anche la seconda parentesi dell'ultimo cerchio rimasto aperto e ora chiuso alle otto di sera del 22 maggio 2022: la coppa dello scudetto alzata da Alessio Romagnoli, un altro capitano, un altro difensore centrale, un'altra maglia numero 13. Dal tramonto, all'alba, al tramonto.