Arrigo Sacchi non ha mai familiarizzato particolarmente con il concetto di tranquillità. Forse, a un certo punto della sua vita, ha trovato la calma lasciando la panchina, il luogo che lo ha consacrato e divorato. Ossessionato dal controllo, a distanza di anni perde ancora la serenità quando gli ricordano che la storia del suo grande Milan, in fin dei conti, è cambiata grazie all’unico evento sul quale non avrebbe potuto avere il minimo controllo.
Uno dei più grandi sostenitori di questa versione è Adriano Galliani: «Mi sono chiesto spesso come sarebbe finita, secondo me la storia del Milan sarebbe stata diversa». È la storia di due partite e mezza, dell’ostacolo più grande incontrato dal Diavolo nell’epoca d’oro di Arrigo Sacchi. Che ancora oggi, a risentirne parlare, di nebbia e di Stella Rossa, si imbizzarrisce: «Non mi piace che si dica che senza la nebbia quel Milan non sarebbe mai nato».
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LE PREMESSE
Visti uno vicino all’altro, nell’ottobre del 1988, Ruud Gullit e Arrigo Sacchi non sembrano appartenere allo stesso pianeta. Sono due esseri umani agli antipodi: da una parte uno strapotere fisico impressionante, una scultura prestata al mondo del calcio. Dall’altra un uomo che a 42 anni ne dimostra almeno venti in più, un metro e settanta raggiunto a fatica, una figura apparentemente lontanissima dal calcio di alti livelli. Appaiono così sui giornali, il primo con la divisa d’allenamento, il secondo con una felpa bianca destinata allo staff, alle prese con una sgambata che rimette l’olandese, dopo mesi di difficoltà, pienamente in organico.
È fine ottobre e deve ancora debuttare in campionato mentre in Coppa dei Campioni non solo ha giocato ma ha anche lasciato il segno, trovando il gol dello 0-2 a Sofia. Il Milan non lo ha mandato in Nazionale a metà mese, la versione ufficiale riferisce di problemi alla caviglia, quando poi si inizia a bisbigliare di fastidi anche al polpaccio le condizioni dell’olandese diventano un mistero. A Milanello appare così Ted Troost, fisioterapista-preparatore-amuleto dei grandi atleti olandesi, alfiere dell’haptonomia, la scienza del contatto affettivo teorizzata da Franz Veldman nel secondo dopoguerra.
E spunta, immancabile, il gossip, spiattellato in prima pagina dai giornali scandalistici italiani. Gullit, sposato e con due figlie, avrebbe un’amante, e il nome viene fatto apertamente anche sui quotidiani che scandalistici non sono nel giorno in cui Ruud affronta la stampa per una conferenza stampa in cui parla di tutto ma non di quel servizio di Novella 2000. La cosa assurda è che la donna in questione è lì, Licia Granello, di Repubblica, che Gian Paolo Ormezzano, nel suo resoconto sulla Stampa, descrive così: "La collega 'incriminata' ha avuto classe pari a quella di Gullit nel gestire anche le occhiate che le arrivavano addosso. È un’amica, una giornalista in gamba. Se ci sarà da scrivere una bella storia, la potrà scrivere magari proprio lei. Probabilmente quello che il settimanale riporta, ancorché lasciando margini di dubbio e ospitando la divertita articolata smentita dell’interessata, è vero, pensiamo, e sono vere le tappe dell’idillio".
Gullit rimette piede in campo la prima volta contro la Lazio, alla terza giornata: il campionato è iniziato in ritardo rispetto al solito per lasciare spazio ai Giochi Olimpici di Seul. Sacchi non fa che lamentarsi. Ha dovuto attendere anche Evani e Maldini, avrebbe voluto inserire Ruud gradualmente ma uno stop di Donadoni gliel’ha impedito. E si lamenta perché il match con la Lazio non viene anticipato, con all’orizzonte l’andata con la Stella Rossa: «Mi domando perché la Stella Rossa abbia anticipato il suo incontro con il Sarajevo mentre noi non lo possiamo fare. Qui in Italia evidentemente non interessa che le nostre squadre facciano strada nelle coppe. Da noi comanda il Totocalcio, vero, ma si potrebbe giocare il sabato sera, a ricevitorie già chiuse».
Si avvicina uno di quei mercoledì di coppe da sbornia televisiva: alle 17 la diretta contemporanea su Rai 2 di Carl Zeiss Jena-Sampdoria (Coppa delle Coppe) e Partizan Belgrado-Roma (Coppa UEFA), alle 19 quella di Malmö-Inter su Rai 3 (UEFA), alle 20.30 il piatto forte milanista su Rai1, quindi la doppia differita di UEFA di Lokomotive Lipsia-Napoli e Juventus-Athletic. Gullit non è al meglio, dunque, e per l’incrocio di San Siro si accomoda in panchina. L’olandese, travolto da vicende che col campo hanno poco a che fare, fa buon viso a cattivo gioco: «La mia vita privata è soltanto mia, scrivano quello che vogliono, non smentisco più. Fa bene Sacchi a lasciarmi in panchina, in questo momento rendo poco». Il Corriere della Sera, in un boxino malizioso in prima pagina, si lancia in una domanda: «Gullit resta in panchina. Per amore?».
26 OTTOBRE 1988, MILAN-STELLA ROSSA 1-1
Silvio Berlusconi si sfrega le mani per i due miliardi di lire di incasso, Gullit si accomoda in panchina tra Graziano “Lupetto” Mannari e Davide Pinato, Sacchi frigge per aver perso anche Evani. C’è Virdis davanti con van Basten, la 10 finisce sulle spalle di Rijkaard, quantomeno è arruolabile Donadoni, la lettura delle formazioni farebbe immaginare Tassotti vicino a Baresi (non c’è nemmeno Filippo Galli) con Mussi a destra, ma in realtà è il terzino che Sacchi aveva fortemente voluto in rossonero a piazzarsi centralmente, lasciando la corsia al legittimo proprietario.
Anche la Stella Rossa ha i suoi problemi, perché Robert Prosinecki non c’è. Branko Stankovic, prossimo a festeggiare i trent’anni di panchine, decide che a San Siro è meglio stare coperti. Un atteggiamento che finisce per togliere dalla partita uno dei talenti più intriganti di quella Stella Rossa, Dejan Savicevic, utilizzato quell’anno solo in coppa a causa del servizio militare. E così il Milan parte forte nonostante i fantasmi del pareggio con la Lazio. Mussi sfonda centralmente e va giù in area, Kirschen lascia correre e sul corner seguente è Maldini a sfiorare il vantaggio.
Man mano che passano i minuti, però, a salire è in cattedra è Dragan Stojkovic, che in Jugoslavia chiamano semplicemente "Piksi", la versione slava del topolino del Braccobaldo Show di Hanna e Barbera, portatore sano di un’inconfondibile estetica balcanica. Tiene le redini della partita senza mai mettere nemmeno la seconda, trotterella da una parte all’altra: uno scambio stretto, un’apertura di 40 metri, un forziere di soluzioni tecniche a tratti spaventoso. È l’uomo perfetto per mettere in atto il piano di Stankovic, addormentare la partita nella speranza che il Milan stesso finisca per assopirsi.
I sussulti sporadici del primo tempo sono figli di errori marchiani, come il buco che scatena Donadoni a tu per tu con Stojanovic, l’uomo che tre anni più tardi alzerà al cielo di Bari la prima e unica Coppa dei Campioni della storia del club. Ha piedi e cervello fino, Donadoni. Potrebbe farsi ingolosire dalla conclusione ma con una mossa a sorpresa mette in mezzo dove trova Virdis pronto all’appuntamento con la zampata a porta vuota. Fuori. E allora riparte il ritmo ipnotico di Stojkovic, pifferaio magico che non ha la minima intenzione di aumentare la velocità della melodia con cui sta sfinendo gli avversari. All’intervallo è 0-0. Poi, di colpo, si rientra in campo e il Milan è sotto, neanche il tempo di notare che Gullit si è spostato rispetto al primo tempo per sedersi tra Sacchi e Ramaccioni, quasi a voler lanciare un messaggio al tecnico. Il Diavolo si fa trovare sbilanciato su una punizione battuta in fretta dagli slavi, Stojkovic prende palla sulla destra e salta secco Maldini. Si ritrova davanti Baresi, lo invita a danzare con lui per qualche secondo: fa ondeggiare il corpo verso sinistra, il totem rossonero perde per un attimo l’equilibrio indietreggiando, "Piksi" adesso mette le marce alte e gli scappa via, sorprendendo Galli con una conclusione che sarebbe parabile, ma non viene parata. Stojkovic esulta, il portiere prende a pugni il terreno di gioco in un gesto di stizza.
Stanno ancora andando in onda i replay del gol quando il Milan pareggia, con la voce di Pizzul in sottofondo che guida il pubblico televisivo in una sorta di involontaria radiocronaca. Il gioco riprende così in fretta dopo l’1-1 che per qualche minuto nessuno, se non chi è a San Siro alle prese con una partita che si è accesa di colpo come un petardo, ha la minima idea di come Virdis abbia segnato. Il Milan ha rimesso in piedi il discorso qualificazione con una combinazione Ancelotti-van Basten-Virdis, a segno con un rasoterra imprendibile per Stojanovic dopo la delicatissima imbucata dell’olandese. Poco prima dell’ora di gioco si alza dalla panchina la figura imponente di Gullit, numero 15 sulle spalle. Ma l’1-1 non è lo 0-0, la Stella Rossa lo sa, si fa forte di questo gol in trasferta che metterebbe la sfida di ritorno su di un piano inclinato e aumenta le perdite di tempo fino allo sfinimento. Van Basten non riesce mai a mettersi in proprio e allora dispensa giocate da dieci purissimo, addolcisce palloni impazziti.
A un certo punto serve la sovrapposizione di Donadoni in area e il numero 7 cerca la porta da posizione vicina ma defilata: il rumore della traversa ha il sapore della resa. Il clima del post partita è ai limiti del funerale, il Milan sembra essersi inceppato senza motivo ed è una mini-crisi di difficile spiegazione: non c’è nulla che mandi Sacchi fuori di testa più di una situazione del genere. Con i giornalisti fa sfoggio di ottimismo: «I tifosi stiano tranquilli, il Milan è in buone mani, anzi, in buoni piedi, quelli dei suoi giocatori. Sapremo superare questo momento difficile». Leggenda vuole che van Basten, parlando con qualche giornalista, dica che la qualificazione è andata. Che sia o meno l’olandese, quel che è certo è che il tecnico decide di convocare i suoi giocatori e riferire di una telefonata (in realtà mai avvenuta) di Berlusconi: «Mi ha detto che non ha speso cento miliardi di lire per uscire al secondo turno». "Il Cavaliere", effettivamente, interviene facendo leva sui soldi, promettendo premi più ricchi in caso di vittoria del trofeo.
Un’ampia sintesi dell’andata.
Intanto il calcio italiano esce politicamente a pezzi dal mercoledì di coppa. La Roma, presa a sberle dal Partizan in un match sospeso per dieci minuti per via di un incendio divampato all’interno dello stadio, invoca la vittoria a tavolino o quantomeno la ripetizione del match dopo aver visto Giannini uscire dal campo all’88’ per un accendino (del quale si arriverà a dire persino il modello, salvo poi suggerire che il corpo del reato potesse essere una monetina) che lo ha colpito dietro l’orecchio mentre stava battendo un corner. Il Milan stesso ha visto il tedesco Kirschen farne di tutti i colori, lasciando che la Stella Rossa perdesse tempo in modo disperante. "L’Europa del pallone prende a calci l’Italia", titola La Stampa, ironizzando poi sul modo in cui la UEFA affronta la vicenda Partizan: "L’accendino non scalda la UEFA".
Antonio Matarrese, presidente federale e parte dell’esecutivo UEFA, ha il compito di portare a Zurigo le istanze giallorosse e in minor misura rossonere, ma lo fa prendendo la vicenda da un lato grottesco: «Quanto è avvenuto conferma che la violenza e il teppismo non sono solo un’emergenza italiana». Il Partizan ne uscirà con diecimila franchi svizzeri di multa e una squalifica del campo per una partita europea, mantenendo però il 4-2 per l’ira del ministro del Turismo italiano, Franco Carraro, e chi se non lui, che in quel momento è anche membro del Comitato Olimpico Internazionale e parte fondamentale del comitato organizzatore dei Mondiali del 1990: «È inconcepibile che mentre l’organizzazione sportiva chiede l’aiuto delle forze dell’ordine per consentire il regolare svolgimento delle competizioni, la stessa organizzazione dia poi l’interpretazione più permissiva dei propri regolamenti». La Roma ribalterà il 4-2 all’Olimpico, ma questa è un’altra storia.
MALGRADO BELGRADO: 9 NOVEMBRE 1988, STELLA ROSSA-MILAN RINVIATA PER NEBBIA
Nel giorno in cui Ayrton Senna vince il Mondiale di Formula 1 in Giappone attribuendone i meriti a Dio, un Milan decisamente più terreno prova a scuotersi dal torpore nel big match di Torino contro la Juve, in cui Gullit torna titolare al fianco di van Basten – a quanto pare con un colpo di scena dell’ultimo istante, una distinta corretta a penna depennando il nome di Virdis e inserendo quello del buon Ruud - e desta sensazioni incoraggianti. Finisce 0-0 ma i segnali sono positivi. Sacchi finisce nella bufera per aver deriso Zavarov a fine partita, chiedendo ai giornalisti che numero avesse. Un’uscita che gli costa la reprimenda di Giovanni Trapattoni, tecnico dell’Inter destinato a dominare il campionato: «Consiglierei ai giovani colleghi, così bravi e preparati, una lunga esperienza internazionale prima di avventurarsi in certe dichiarazioni». Sacchi si cosparge il capo: «Non volevo offendere, Zavarov è un campione, mi è scappata una battuta che non avrei dovuto dire ma a caldo può succedere». Quindi si rintana per due giorni a Fusignano dopo aver ricevuto in via privata un richiamo all’ordine da parte di Berlusconi, sempre attento a tenere buoni rapporti con Agnelli.
A Verona, dove Sacchi aveva sostanzialmente salvato la panchina un anno prima (0-1 Virdis dopo il tracollo con l’Espanyol), va in scena quello che deve essere il test definitivo sulle condizioni di Gullit. In mezzo, Sacchi deve anche diramare le convocazioni per la “Nazionale di Lega”, una rappresentativa che dovrà sfidare la Polonia in amichevole a San Siro, roba da fantascienza: una creatura rimessa in piedi dopo sedici anni dall’ultima volta (sconfitta contro la rappresentativa del campionato belga a Firenze nel dicembre 1972): tra gli altri sceglie anche Zavarov, che declina l’offerta per i postumi di un problema muscolare. Per i curiosi, la formazione: Galli, Mannini, Volpecina, Matthäus, Tassotti, Manfredonia, Pari, Evani, Careca, Maradona, Virdis. Per i molto curiosi che vogliono scoprire perché, per dirla con le parole di Pizzul, «c’è maretta nella delegazione polacca»: sì, qui potete trovare la riproposizione integrale di questa meraviglia.
Il Milan esce da Verona con i due punti: Caniggia risponde a Gullit, decide van Basten con la complicità di Soldà. Ma è una vittoria che presenta un conto salatissimo, perché Ruud lascia il campo per un presunto stiramento al bicipite femorale. Lascia il campo mentre il Bentegodi intona il coro «Sporco n***o» ma nella testa ha anche altri pensieri: i primi responsi riferiscono di dieci giorni di stop. «Qui mi era successo anche l’anno scorso, per quanto mi riguarda non è un problema, semmai lo è per la città di Verona. Forse ho lavorato troppo con questo freddo, ho sentito una fitta su un lancio di Colombo. Peccato, ci tenevo a giocare a Belgrado, rischio di saltare anche Italia-Olanda a Roma». Il fatalista Sacchi, per una volta, è invece ottimista: «Questo risultato mi fa ben sperare per Belgrado, dove sarà necessario un grande Milan. Ruud non potrà giocare ma ho ritrovato la squadra: l’importante è che il morale sia alto».
Con un colpo di teatro che somiglia tanto a una mossa pensata solo per spaventare gli jugoslavi, Gullit parte comunque con la squadra. «Parto, poi si vedrà», dice ai giornalisti, mentre il dottor Monti sullo sfondo è sbigottito: «Sarebbe estremamente rischioso se giocasse». A Belgrado, scrivono i giornali, splende il sole dopo la nevicata del sabato precedente. Sacchi usa Gullit come uno spauracchio, non esclude la sua presenza quantomeno in panchina. I giornali italiani non gli credono ma Stankovic è seduto alla sua stessa scrivania durante la conferenza stampa e deve concedergli quantomeno il beneficio del dubbio. È uno spettacolo nello spettacolo, con Sacchi che gioca in difesa non rispondendo se non a mezza bocca alle domande dei giornalisti di casa e Stankovic che promette una gara d’attacco. Due teatranti. Si vocifera di un Marakana che accoglierà circa 90mila esseri umani: venduti quasi 72mila biglietti, cui si aggiungono 13mila abbonati e 5mila tessere di servizio. È la partita numero 100 dell’epopea berlusconiana.
La gara di Belgrado, per il Milan, è un incubo. La Stella Rossa non ha la minima intenzione di esporsi, spezzetta il match come a San Siro, se non di più. Gullit ovviamente non c’è, tocca a Virdis con van Basten. Il Diavolo non riesce a manovrare, nonostante il tasso qualitativo in campo sia persino più alto rispetto all’andata visto che Rijkaard ormai agisce stabilmente da difensore centrale al fianco di Baresi, con l’aggiunta di Evani a centrocampo. Palloni spostati a gioco fermo, calzettoni da tirare su, richieste inevase di riavere in fretta i palloni che escono dal campo: i padroni di casa mettono in scena tutto il campionario della perfetta perdita di tempo. L’arbitro Pauly prova a tenere il controllo del match, ammonisce Sabanadzovic per uno di questi teatrini, ma di fatto nel primo tempo non succede nulla anche perché il Milan è sbiadito, non in grado di colpire la Stella Rossa.
Lo splendido sole annunciato a Belgrado viene sostituito da una foschia che inizia a calare lenta e inesorabile sul Marakana. Altro che foschia, questa è nebbia. Una nebbia che attanaglia il secondo tempo. Baresi inizia a chiedere la sospensione a Pauly ma la partita scorre e scappa via, con il Milan incapace di opporsi. Segna Savicevic, viene espulso Virdis. Tutto quello che accade è confuso, sarà confuso anche a distanza di anni nei ricordi, con Sacchi che ama ricordare di aver scoperto del rosso all’attaccante soltanto una volta rientrato negli spogliatoi dopo l’effettivo stop al match, ritrovandoselo davanti già docciato.
La sospensione arriva poco dopo l’ora di gioco e i racconti dell’immediato post partita sono ben diversi da quelli ammantati di leggenda forniti alla stampa anni dopo: «Stavo facendo scaldare Costacurta quando mi si è avvicinato Tassotti e mi ha detto: mister, guardi che siamo rimasti in dieci! Avevano espulso Virdis e io non lo sapevo, non mi ero accorto nemmeno del gol». Il regolamento dell’epoca prevede la ripetizione del match ma non dalle condizioni in cui è stata sospesa: si resetta tutto, è 0-0 e palla al centro dall’inizio. Ma tra il 9 e il 10 novembre comincia anche un’altra partita, altrettanto complicata da affrontare.
Un delegato della UEFA, l’austriaco Otto Demuth, annuncia al Milan che Sacchi non potrà disporre dell’espulso Virdis nella ripetizione del match, né tantomeno di Carlo Ancelotti, ammonito: il centrocampista era diffidato e dovrà saltare la sfida. Il Milan non è affatto persuaso da questa versione: la squalifica deve riguardare la sfida successiva nel torneo, non la ripetizione della stessa. Lo spiega il DS Ramaccioni, lo ribadisce il DG Taveggia: «Non possiamo accettare una telefonata fatta dalla UEFA, abbiamo chiesto un telex, un documento. L’articolo 5 comma 4 parla di incontro successivo della competizione». È un bel casino. Virdis è devastato: «Il mio non era un fallo nemmeno da ammonizione, ho dato una spallata a Naidoski e l’arbitro mi ha espulso. Mi sento amareggiato per non poter tornare in campo, è una decisione assurda: come è possibile l’immediatezza di una sanzione disciplinare?». La UEFA non cambia idea: Sacchi, partito per Belgrado con 18 giocatori, ragazzini inclusi, se ne ritrova 16, e uno di quei 16 è Gullit.
Già, e Gullit? Poco prima della partita poi sospesa ha cercato di sottoporsi a un provino disperato, ma non c’è stato verso di renderlo arruolabile. Adesso le cose cambiano. Nella pancia del Marakana, dopo il rinvio, concede ai giornalisti parole che profumano di speranza: «Dobbiamo fare qualcosa per onorare questo colpo di fortuna. Giocare? Devo crederci. Camminando non sento dolore ma una cosa è muoversi, un’altra scattare in campo. La voglia c’è». L’aeroporto di Belgrado chiude per via della nebbia, tanti tifosi si ritrovano a dormire lì non potendo rientrare in patria. Non è ancora tempo di dormire per Gullit, che prova l’ennesimo miracolo: c’è chi lo vede sgambettare in mezzo alla nebbia nel giardino dell’hotel, quindi torna in albergo, chiama Troost e poi si palesa da Sacchi, chiedendo la convocazione d’urgenza del guru. Già, ma come? «Alle 7 ero a Roma, alle 9 a Rotterdam, siamo tornati a Roma perché non potevamo andare in Jugoslavia con un aereo italiano, abbiamo dovuto prenderne uno svizzero», spiega Galliani, andato fisicamente a prendere Troost per regalare a Sacchi anche solo il simulacro di Gullit. Dopo una manipolazione di mezz’ora, Ruud si sente un altro: «Mi sono sentito guarito, mi conosce da una vita». Si accomoda in panchina, l’autonomia è ridotta: venti minuti, forse trenta.
10 NOVEMBRE 1988, STELLA ROSSA-MILAN 1-1 (3-5 D.C.R)
Arrigo Sacchi, in una delle sue opere scritte, attribuisce proprio a Gullit una frase motivazionale partorita prima del replay di Stella Rossa-Milan, pronunciata dopo aver sentito un atterrito Galliani annunciare la presenza di oltre 120mila persone sugli spalti del Marakana. Ruud avrebbe chiesto al dirigente quale fosse la media abituale di presenze e ottenendo in risposta un numero leggermente inferiore ai cinquantamila avrebbe deliziato la platea rossonera: «Va bene. Vuol dire che tutti gli altri sono venuti a vedere noi». Stavolta si scende in campo sotto un pallido sole pomeridiano, il terreno non è ghiacciato, il Milan si scopre leggerissimo. Costacurta si accomoda al fianco di Baresi restituendo Rijkaard a centrocampo vista l’assenza di Ancelotti, al fianco di van Basten c’è Mannari, che la grafica internazionale consegna all’immortalità con la dicitura “Grazziano”, ignobile storpiatura del suo nome di battesimo. Ha 19 anni e alle spalle già un infortunio terribile, la rottura di tibia e perone che ne condizionerà in parte la carriera. Ma Sacchi non ha scelta, senza Virdis e con Gullit a meno di mezzo servizio l’unica alternativa è Massimiliano Cappellini, di due anni più giovane di Mannari. A partita iniziata da una manciata di minuti, proprio Mannari si ritrova sul destro il pallone del vantaggio. Il suo tiro viene respinto, la porta è vuota, il libero Juric combina un disastro e nel tentativo di spazzare svirgola clamorosamente. Quello che segue, che ci crediate o meno, è il fermo immagine del “salvataggio” della difesa della Stella Rossa. L’arbitro Pauly, incredibilmente, non assegna il gol.
Il Milan a quel punto si mette in testa che l’unico modo per segnare sia scuotere la rete in maniera fragorosa. La squadra di Sacchi passa al 35’ con van Basten che di testa schiaccia in porta un cross delizioso di Donadoni e la sensazione è quella della fine di un incubo. L’olandese abbozza un balletto che fa infuriare il pubblico di casa, i replay evidenziano la meraviglia della giocata di Donadoni, un dribbling in un fazzoletto di campo e un cross mancino col corpo quasi del tutto fuori equilibrio. Ma succede esattamente ciò che era accaduto all’andata, ossia il pareggio immediato: Savicevic ha una visione mistica con la quale manda in porta Stojkovic, "Piksi" spara sotto la traversa con il sinistro fulminando Galli.
L’1-1 all’intervallo sarebbe tutto sommato una buona notizia per il Milan, se non fosse che al 45’ Donadoni esce devastato da un duello aereo con Vasilijevic: ricade sulla tempia destra, il volto diventa immediatamente cianotico, la bocca è serrata. Sono attimi di terrore puro, il primo a chiamare i soccorsi è Costacurta, Donadoni è a terra, Maldini si allontana in lacrime, anche i giocatori della Stella Rossa hanno le mani tra i capelli. Colombo si inginocchia coprendosi il volto, Maldini è quello più colpito: si siede, poi si sdraia mentre Galli gli dice qualcosa. Il dottor Monti sta cercando disperatamente di farlo respirare e trova un solo modo: rompergli la mandibola per salvargli la vita. «Monti non riusciva ad aprirgli la bocca, Roberto era blu in faccia, immobile», ricostruisce Maldini. Galli è l’unico a capire tutto prima degli altri, perché ha assistito da vicino a un altro evento potenzialmente tragico, lo scontro tra Silvano Martina e Giancarlo Antognoni nel novembre del 1981. «Ho iniziato a mollare sberle ai compagni disperati quando ho visto che Roby stava vomitando: ho capito che era salvo, che il peggio era passato». Con svariati minuti di anticipo sulla tabella di marcia, Sacchi deve chiamare Gullit dalla panchina.
Un mix delle due gare di Belgrado.
Il secondo tempo scivola via con la stanchezza che presenta il conto dopo la mezza partita del giorno precedente. Salgono in cattedra soprattutto Rijkaard e Baresi, mentre Galli deve salvare su Mrkela il pallone del potenziale match-point all’ottantanovesimo. Il Milan non rinuncia ad attaccare e ha due occasioni con Gullit, su punizione, e ancora con Mannari, che di testa regala il pallone a Stojanovic. L’epilogo dei supplementari e dei successivi rigori diventa via via inevitabile. A cinque minuti dalla fine dei 120’, Sacchi richiama Mannari per gettare nella mischia Cappellini, classe 1971. L’idea del tecnico è di fargli tirare un rigore, magari il quarto.
Il primo della Stella Rossa lo calcia e lo segna, neanche a dirlo, Stojkovic. Nella lista del tecnico rossonero toccherebbe a van Basten. Non se la sente. «Si è fatto avanti Baresi», racconta Sacchi, e il capitano trasforma: «Ho chiuso gli occhi e mollato una gran botta, è andata bene». Prosinecki incrocia il destro rasoterra, Galli sfiora ma non basta. Esulta con la spensieratezza dei suoi 19 anni. Adesso sì, van Basten se la sente. Sotto i pantaloncini indossa un paio di pantaloni della tuta tagliati male, un oltraggio all’eleganza di cui si è fatto alfiere nel corso di tutta una vita. Spiazza Stojanovic, frenando al momento dell’impatto per aprire il piatto destro, 2-2. Savicevic si avvicina al dischetto con l’aria del condannato. Sceglie la soluzione centrale rasoterra, Galli ci mette i piedi. Il numero 10 del Milan è Evani, piazza la sfera, lascia che Stojanovic si distenda sulla sua sinistra per mettere il pallone dall’altra parte. Adesso è la volta di Mrkela: Galli smanaccia e sente il rumore della base del palo dopo quello delle sue mani. E adesso? Cappellini? Davvero?
No. «Quando ho visto che Cappellini stava per tirare il quarto rigore ho detto a Sacchi: mister, ci penso io, questo è un ragazzino», racconta Rijkaard a fine partita, con l’orgoglio di chi ha archiviato una pratica delicatissima. Tira una sassata, il pallone gli esce dal destro così forte che quando va a sbattere sul palo interno prima di aver gonfiato la rete rilascia un suono catturato dai microfoni di bordo campo. È un tonfo sordo e dolcissimo, quello che i tifosi del Milan appollaiati davanti alla TV sentono mentre Rijkaard corre con le braccia larghe e il sorriso più bello del mondo.
È una vittoria epica, che arriva proprio mentre su Belgrado sta scendendo, nuovamente la nebbia: a quel punto, però, non importa più a nessuno. Una nebbia che tornerà sempre, ogni volta che si parlerà di quel Milan meraviglioso, spunto formidabile per i detrattori dell’Arrigo nazionale.