
È il 19 agosto, solo da qualche ora uno sgrullone di pioggia ha fatto passare il caldo estivo ed è difficile rendersi conto che la Serie A è di nuovo qui. È il celebre calcio d’agosto: giocatori abbronzati, gambe pesanti, cooling break. Le partite giocate sono ancora poche e le squadre sono nella loro versione più embrionale, tanto più quest’anno che sono cambiati tredici dei venti allenatori totali. Tornare a lavoro dalle vacanze è duro per chiunque, ma per una squadra che ha un nuovo allenatore può voler dire quasi imparare di nuovo a camminare. Nuovi principi, nuova rosa, nuovo staff, giocatori tornati da una manciata di giorni per aver partecipato alle competizioni continentali per Nazionali. Lo abbiamo visto già nel weekend, nei primi scampoli di campionato: i giocatori del Napoli, a Verona, sembravano aver indossato la stessa maglietta per la prima volta nella loro vita; la Fiorentina di Palladino è stata spesso in balia di una squadra neopromossa e avrebbe potuto facilmente perdere al Tardini; Empoli e Monza, entrambi all’inizio di una nuova era, hanno preferito rimandare l’appuntamento con il gioco del pallone alla prossima giornata.
Da questo punto di vista, guardare Milan-Torino è stato doppiamente straniante. Non solo perché la squadra di Vanoli è andata in vantaggio per 0-2 in uno degli stadi che incute più timore in Europa contro una squadra che teoricamente ambisce allo Scudetto, ma anche perché - soprattutto nel periodo compreso tra il primo e il secondo gol - ha dato l’impressione di essere avanti di mesi nel processo di apprendimento dei principi del proprio allenatore, di formazione di una squadra che al netto dei cambiamenti di rosa possiamo in ogni caso definire nuova. Certo, non è ancora finita del tutto la prima giornata di campionato e le conclusioni a cui arriveremo oggi forse verranno contraddette già a settembre. Ma proprio il fatto che sia agosto, e che il tempo per allenarsi sia stato pochissimo, dovrebbe portarci a non dare per scontato che miracolo sia anche solo produrre una prestazione simile alla prima giornata di campionato.
Vanoli è il nuovo allenatore del Torino da nemmeno due mesi, ha preso il posto di un allenatore che era seduto sulla panchina granata da tre stagioni, ed è arrivato in una situazione che se non è di ridimensionamento forse la potremmo definire di stasi. Il capitano e uno dei giocatori più importanti della rosa, Alessandro Buongiorno, è stato venduto da tempo; il faro creativo sulla trequarti, Nikola Vlasic, sta ancora recuperando da un problema muscolare rimediato a metà giugno; e il mercato sembra essere un po’ sottotono rispetto alle scorse stagioni. Se si escludono i soldi spesi per il riscatto di Duvan Zapata dall’Atalanta, per adesso l’acquisto più oneroso del Torino è stato il centrale Saul Coco dal Las Palmas, mentre per il resto sono arrivati giocatori nella fase declinante della propria carriera (Adam Masina, un milione di euro), svincolati dalle loro precedenti squadre (come Ché Adams e Antonio Donnarumma) o in prestito (come Borna Sosa). Lo stesso presidente del Torino, Urbano Cairo, presentando Vanoli, ne ha lodato la capacità di gestire situazioni problematiche, ammettendo implicitamente che anche quella della sua squadra non era delle più rosee.
D’altra parte, Vanoli ci era già passato a Venezia. Una squadra che guardava pericolosamente la zona retrocessione della Serie B, una società in dismissione, una carriera che sembrava non avesse molto da dire. La strada che lo ha portato a entrare a San Siro da allenatore di una delle squadre più antiche e blasonate del campionato italiano è stata molto più lunga e difficile di quanto il suo curriculum non dica.
Vanoli, però, trasmette un naturale senso di sicurezza. Le rughe di chi è invecchiato bene, le lenti spesse che gli addolciscono lo sguardo, la maglietta scura di Piombo - il brand OVS per le persone che badano al sodo. Non stupisce insomma che, per affrontare il cubo di Rubik del Torino, Vanoli abbia preso la strada apparentemente più corta e semplice: costruire su fondamenta già gettate.
Il nuovo allenatore ha lasciato intatto il modulo (3-5-2), i suoi interpreti principali con molte delle loro funzioni, gran parte dei principi tattici. Ma contemporaneamente è sembrato voler aggiungere carte nel mazzo da cui il Torino è solito pescare. Una proattività maggiore nella gestione della difesa bassa dell’area, un’iniziativa più frequente da parte dei centrali nello spezzare le linee di pressione avversaria attraverso la conduzione palla, un set di movimenti più complesso per risalire il campo in verticale dopo la circolazione bassa. Il cambiamento sottile del Torino lo si è visto anche da come utilizza Milinkovic-Savic: catapulta per attaccare la profondità già dal portiere con Juric, oggi sembra più coinvolto nel superamento della prima pressione avversaria grazie alle sue doti nel palleggio basso. Come ha scritto Alessandro Gazzi, che ha affrontato il Venezia di Vanoli la scorsa stagione da secondo allenatore della Feralpisalò, “tutto molto semplice ma efficace”.
Vanoli, d’altra parte, in Serie A è uno dei pochi esempi di tecnico “di scuola”. Cresciuto nelle Nazionali giovanili, dall’Under 16 fino all’Under 19, ha avuto un ingresso tra i professionisti molto lento e graduale, apprendendo il mestiere da due dei tecnici più influenti per il calcio italiano contemporaneo, diventando prima assistente di Gian Piero Ventura in Nazionale maggiore e poi di Antonio Conte al Chelsea e all’Inter. La sua unica esperienza da primo allenatore prima del Venezia è stata allo Spartak Mosca, prima che l’invasione russa dell’Ucraina recidesse bruscamente il filo di quella storia. Insomma, non è un caso che il suo calcio ci appaia come familiare, “semplice” per l’appunto: alla fine non si discosta molto dai concetti che consciamente o inconsciamente ci sono entrati dentro guardando decine di partite del nostro campionato. Chissà magari proprio il Torino di Gian Piero Ventura.
La partita contro il Milan è stata insomma la conferma che nel calcio c’è sempre tempo e spazio per utilizzare strumenti vecchi in maniera nuova, come quel video in cui si vede Robben in pantaloni lunghi e camicia, scalzo, dribblare ancora un avversario rientrando sul sinistro, segnando con un tiro sul palo più lontano. “Guardate il suo sorriso”, dice la caption del video “Sa quello che sta per fare, il suo avversario sa cosa sta per fare, tutti lo sanno: eppure funziona ancora”. Nel caso del Torino di Vanoli si potrebbero fare diversi esempi di questo tipo, ma il mio preferito dalla partita di sabato è stato l’utilizzo sistematico del velo.
Il velo è uno dei gesti tecnici più antichi, eppure il suo utilizzo come arma tattica sta conoscendo una nuova giovinezza solo negli ultimi anni. È relativamente noto, per esempio, l’uso che ne fa il cosiddetto calcio relazionale in quella che in Brasile viene definita escadinha (cioè, in italiano, letteralmente “scaletta”). In sostanza significa mettere tre o addirittura quattro uomini sulla stessa linea di passaggio diagonale, possibilmente dai corridoi esterni a quelli interni, rendendo difficile per la squadra avversaria capire chi davvero tra questi riceverà il pallone. Sarà il primo o lo lascerà scorrere per il secondo? O anche il secondo lascerà scorrere il pallone per il terzo?
In Italia l’utilizzo del velo è ancora più antico. Il Chievo di Maran, per esempio, faceva qualcosa di simile a quello che potete vedere nel tweet qui sopra utilizzando la densità in zona palla generata naturalmente dal rombo di centrocampo, per liberare un uomo sulla trequarti fronte alla porta con un semplice passaggio in diagonale dall’esterno. Ancora prima proprio i 3-5-2 di Gian Piero Ventura e poi Antonio Conte utilizzavano il velo per liberare una delle due punte fronte alla porta da una ricezione tra le linee pressata alle spalle. Forse vi verrà in mente senza nemmeno l’aiuto delle immagini: sulla verticalizzazione del braccetto verso la trequarti avversaria, le due punte si mettono sulla stessa linea di passaggio. La prima lascia scorrere il pallone per quella alle sua spalle, ingannando il diretto marcatore e gettandosi immediatamente in profondità con un movimento a mezzaluna; la seconda chiude il triangolo possibilmente servendo di prima questo movimento in profondità. Nel migliore dei casi questo meccanismo porta una squadra dalla circolazione bassa al tiro fronte alla porta in area in appena due passaggi.
Vanoli deve aver studiato entrambi gli utilizzi del velo e sabato il suo Torino ne ha proposto una sorta di versione ibridata che ha messo in difficoltà il Milan di Fonseca in più di un’occasione. In sostanza il Torino faceva circolare il pallone tra i cinque uomini di difesa e, una volta che arrivava sull’esterno, le due punte si mettevano sulla stessa linea di passaggio che collegava in diagonale Bellanova o Lazaro al centro della trequarti.

L’idea era di attrarre fuori posizione uno dei due centrali del Milan sull’attaccante che avrebbe fatto il velo per poi attaccare quello spazio con l’inserimento della mezzala da quel lato. Il Torino lo ha fatto diverse volte nel corso della partita ma ha avuto la fortuna di riuscirci più chiaramente nel caso dell’occasione che ha portato al gol dello 0-1. In quel caso, è stato Ilic ad attaccare lo spazio liberato dall’uscita aggressiva di Tomori su Zapata, che però ha fatto scorrere il pallone per Sanabria che, da antica tradizione contiana, gli ha poi restituito palla ad un tocco dopo un movimento a mezzaluna.

Anche se il pallone tornerà a Zapata, che non era in fuorigioco, il movimento di Ilic in area sarà comunque importante per attrarre la difesa rossonera sul primo palo, liberando l’ampiezza a Bellanova servito dal cross di Zapata, mentre Sanabria arriverà a un passo dal gol ancora prima del pasticcio di Thiaw proprio sulla sponda di testa del terzino italiano.
Come detto, più che il meccanismo in sé, l’aspetto più impressionante del lavoro di Vanoli è la velocità e di conseguenza la naturalezza con cui i suoi giocatori sono riusciti ad interiorizzarlo, riproponendolo autonomamente in situazioni che sembravano meno studiate. È il caso, ad esempio, della grossa occasione avuta da Ilic alla fine del primo tempo, con cui il Torino sarebbe passato al 2-0 molto prima del 68' se non fosse stato per l’abituale grande parata di Mike Maignan. Un’azione che è nata da una progressione con la palla in diagonale di Saul Coco che ha tratto in inganno Saelemaekers, liberando Bellanova alle sue spalle, e che si è conclusa con un altro velo - quello di Zapata per Ilic, che ha sfruttato il ritorno a vuoto di Pulisic sul colombiano per tirare con lo specchio aperto dal limite dell’area di rigore.

Ovviamente parliamo di due situazioni - due gocce in una partita che può realisticamente essere paragonata a un mare. Il Torino non ha fatto una grande partita solo per un uso del velo studiato in allenamento, e inevitabilmente hanno pesato anche il ritardo di condizione del Milan e gli errori sotto porta di Leao e Pulisic che forse avrebbero addirittura potuto regalare ai rossoneri la vittoria, ma di sicuro è il segno di un allenatore con le idee piuttosto chiare su come portare la propria squadra a un livello di complessità più alto e che sembra avere un talento speciale nel trasmetterle ai propri giocatori. Certo, i segni possono essere fuorvianti, figuriamoci in questa fase della stagione, ma alla fine è tutto ciò che abbiamo ad agosto, quando ci aggrappiamo a tutto per capire come andranno i prossimi nove mesi delle nostre vite.