Pubblichiamo un estratto del libro “Guida NBA 2017-18” curato da Dario Vismara ed edito da Baldini & Castoldi, che si può prenotare qui. Questo è il capitolo sui Milwaukee Bucks scritto da Andrea Beltrama.
Abbandonare la mediocrità , atto secondo. Dopo un promettente inizio – 42 vittorie, alcuni lampi elettrizzanti, e una combattiva eliminazione al primo turno dei playoff contro i Toronto Raptors – per i Milwaukee Bucks è arrivato il momento di compiere un altro passo avanti. Nel frattempo qualcosa si è mosso, ed è già un successo. In una città storicamente distratta da altre passioni sportive – il baseball dei Brewers, il football dei Packers, e pure il college basketball di Marquette University – i Bucks hanno colpito in profondità. Finalmente.
Merito di un ragazzo, Giannis Antetokounmpo, che è passato dall’essere un misterioso scioglilingua a uno dei giocatori più elettrizzanti, devastanti, iconici e amabili del panorama NBA. Stoppate di gomito, terzi tempi dalla linea del tiro da tre, recuperi plastici in campo aperto. Perle di atletismo e talento che le mura del BMO Harris Bradley Center non vedevano sostanzialmente dai tempi di Dwyane Wade, una dominante matricola che, prima di entrare nel firmamento NBA, trascinò la squadra di college locale alla Final Four NCAA. Al giorno d’oggi, del resto, carpire i cuori è importante tanto quanto il Player Efficiency Rating.
Con un palasport vetusto e una città distratta, lo spettro del trasloco era più che un fremito nell’inconscio: la paura è stata scongiurata giusto in tempo da un investimento messo assieme grazie all’operato di Herb Kohl, ex proprietario della franchigia e senatore dello stato del Wisconsin, che ha permesso di approvare il progetto di una nuova arena da 524 milioni di dollari dove i Bucks si trasferiranno dal 2018-19. Ma anche con i conti in regola, nessun piano di rilancio potrebbe avere successo senza dei segnali forti dalla base dei tifosi, soprattutto in una piazza storicamente tiepida. E proprio quei segnali sono arrivati negli ultimi mesi, grazie a una squadra che ha saputo essere divertente, intrigante, futuristica, e allenata con personalità. Oltre che, cosa non da poco, in possesso di interessanti margini di crescita.
Giannis Antetokounmpo è ineffabile. Nessuna descrizione può cogliere appieno l’effetto sbalorditivo del suo modo di interpretare la pallacanestro. Un mondo parallelo in cui i ruoli non esistono, ogni marcatura è squilibrata e il confine tra transizione e difesa schierata diventa impossibile da tracciare. Servendosi di braccia interminabili, esplosività devastante e coordinazione perfetta, «The Greek Freak» ha ridefinito il concetto di «campo aperto». Non più un contesto in cui la difesa non si è schierata e l’attacco può attaccarla in contropiede; bensì qualsiasi situazione in cui Giannis riesce a prendere velocità , diventando virtualmente inarrestabile per la difesa. Riprendendo alla buona Walter White in Breaking Bad, Giannis non ama le situazioni di campo aperto; Giannis è il campo aperto. La sua indecifrabile atipicità lo ha reso un’arma devastante, consentendogli di diventare il più giovane giocatore NBA – e il quinto di sempre – a guidare la squadra in punti (22.9), assist (5.4), rimbalzi (8.8), recuperi (1.6) e stoppate (1.8), primo nella storia della lega a finire in top-20 in tutte le categorie.
A fargli fare il salto di qualità , tuttavia, è stato un miglioramento esponenziale nelle altre parti del gioco, tra cui il passaggio e l’abilità di usare i piedi in post basso. Continua a essere un giocatore con una tecnica tutta sua, che stride con i canoni estetici e tecnici cui noi, e pure i suoi colleghi, sono stati abituati. Ma ora, rispetto alle stagioni di esordio, ha affinato una capacità di lettura che lo rende molto più pericoloso di un mero giocatore d’istinto. Il premio di Giocatore più Migliorato, unito all’inclusione nel secondo quintetto della lega, è lì a dimostrarlo. L’ultimo passo sarà quello di avere un tiro affidabile, sia dalla media distanza che da tre. Nella serie di playoff persa contro i Raptors, la difesa dei canadesi è riuscita a limitarlo speculando proprio su questo punto debole: dovesse riuscire a eliminarlo, sarebbe un serio candidato al titolo di MVP.
Nel frattempo, dopo aver collezionato la prima apparizione all’All-Star Game, sta intraprendendo l’ascesa al ruolo di stella anche fuori dal campo. Arrivato come un oggetto misterioso dalla storia affascinante – figlio di immigrati nigeriani in Grecia, entrambi atleti professionisti costretti a sbarcare il lunario facendo altro, mentre lui vendeva braccialetti per strada con i fratelli – è ora un clamoroso giacimento di marketing, sia a livello nazionale che globale. Sta giustamente cercando di raccoglierne i frutti, a partire dal nuovo accordo con lo sponsor delle scarpe. Il contratto con la Nike, che valeva 25.000 dollari a stagione, è andato in scadenza, mentre proprio in questi mesi si sta scatenando l’asta dei pretendenti. Con Reebok e Under Armour fortemente interessate, oltre ovviamente alla stessa Nike, il prossimo accordo potrebbe attestarsi sui 10 milioni di dollari a stagione, da aggiungere ai 25 che percepirà come parte della sua estensione quadriennale con i Bucks. Sono le basi di un impero finanziario che, nel giro di pochi anni, potrebbe diventare infinitamente più potente, anche in un mercato limitato come quello di Milwaukee. Così come il suo dominio agonistico, già ora a livelli altissimi.
Pur avendo un chiaro uomo-franchigia, i Bucks sono tutt’altro che un sistema monocorde. Attorno a Giannis si sta modellando un nucleo con tante armi a disposizione e larghi margini di miglioramento, soprattutto tra gli esterni. I pochi mesi giocati da Khris Middleton – rientrato a febbraio da un brutto infortunio al quadricipite – hanno confermato i progressi di uno dei giocatori più sottovalutati del panorama NBA, la cui percezione pubblica è paradossalmente ridimensionata dall’essere una versione meno devastante di Antetokounmpo. Tuttofare capace di spaziare tra la posizione di guardia e quella di ala forte, è il difensore più versatile del gruppo grazie alla combinazione di prestanza fisica, atletismo e braccia sterminate (un minimo comun denominatore di tutto il roster). E anche in attacco è ormai diventato saldamente la seconda opzione offensiva della squadra, forte della capacità di tirare, mettere palla per terra ed essere pericoloso in post medio e basso. Senza dimenticare le doti di lettura, come mostrato dalle eccellenti statistiche di passaggio.
Al suo fianco, l’arma in più è Malcolm Brogdon, regista fisicamente tostissimo, partito dalle retrovie – era seconda scelta al Draft – e finito con il diventare il primo giocatore non scelto al primo giro a vincere il premio di Rookie dell’Anno. Dopo quattro anni solidi di college a Virginia, la sua versatilità si è integrata perfettamente con il sistema dei Bucks, aiutata anche dal fatto che nella metà campo difensiva raramente va sotto fisicamente contro il diretto avversario. E così, un Draft in cui i Bucks avevano la numero 10 – usata per Thon Maker, vedi sotto – ha prodotto i risultati migliori con una seconda scelta, tirando fuori dal calderone l’ennesimo esterno atipico di una squadra sempre più difficile da decifrare.
Attorno a lui, coach Jason Kidd può contare su altre pedine che hanno dimostrato di saper funzionare assieme, oltre a vantare importanti margini di miglioramento. Maker, sudanese di nascita e australiano di passaporto, ha mostrato lampi di potenziale, seppur senza continuità . Tanto per cambiare, è un altro giocatore cui è difficile dare una collocazione: è lunghissimo, tira da tre, è agile, anche se rimane molto indietro nella comprensione del gioco, soprattutto difensivamente. Per ora può essere usato come arma tattica per aprire il campo; eventuali progressi di status saranno legati a miglioramenti nelle altre parti del gioco. Al suo fianco, c’è il lavoro sporco di Tony Snell e Matthew Dellavedova: guardia-ala con buon piazzato e versatilità il primo; play assurto alla fama negli anni di Cleveland il secondo, quanto il suo stile da giocatore in perenne missione, pronto a rischiare un infortunio (a se stesso o all’avversario) per recuperare una palla vagante – qualità che lo hanno reso uno dei personaggi più amati e contemporaneamente detestati della lega.
E così, in mezzo a tante garanzie, il dubbio più angosciante rimane legato allo status di Jabari Parker, la seconda scelta assoluta del 2014. Fuori dopo pochi mesi per la rottura del crociato nella stagione da rookie, l’ex Duke ha subìto un infortunio simile a metà della scorsa stagione, che lo terrà fermo almeno fino a gennaio del 2018. Un colpo doloroso, soprattutto per un giocatore che aveva trovato un’intesa spettacolare con Antetokounmpo, integrando lo strapotere atletico del greco con una rara completezza offensiva (20.6 punti di media, il 49% dal campo, il 36% da tre). Morale: si fa sempre più difficile giudicare le potenzialità di un atleta che, già dai tempi del liceo, sembrava destinato a una carriera da superstar. Da un lato, la strabordanza fisica non è mai stata il suo forte, al punto che gli incidenti avuti non dovrebbero snaturarne eccessivamente il gioco. Una differenza non da poco rispetto a quanto successo a giocatori come Derrick Rose, prodotto del suo stesso liceo, che faceva di accelerazioni e dinamismo la propria arma principale. Dall’altro, due infortuni così gravi, e così ravvicinati, rischiano di rovinarne lo sviluppo, e con esso le prospettive di Milwaukee di poter davvero arrivare a competere con le pretendenti al titolo.
A questo punto, la rincorsa verso il livello più alto è rimandata alla prossima estate. Anche perché, a questo giro, i Bucks non hanno sostanzialmente cambiato nulla del loro roster. È un segno di fiducia nella qualità del materiale a disposizione di Jason Kidd, ma pure l’effetto di due fattori. Primo: c’è pochissimo spazio di manovra dal punto di vista salariale, almeno fino alla prossima estate. Le cose cambieranno tra dodici mesi, quando il contratto di Greg Monroe, che ha deciso di esercitare l’opzione per restare ai Bucks un altro anno, sarà in scadenza. Tra tutti gli uomini a disposizione di Kidd, Monroe è probabilmente la pedina più vulnerabile. Le cifre di tutto rispetto – almeno 15 punti e 8 rimbalzi di media per cinque stagioni, prima di scendere a 11.7 e 6.6 nell’ultima – lo rendono giocatore di rendimento; la sua scarsa flessibilità tattica, però, complica il suo utilizzo nel quintetti versatili adorati da Jason Kidd, al punto che nell’ultima stagione il suo utilizzo ha subìto oscillazioni paurose, prima di tornare in auge per la serie playoff contro i Raptors. È un lungo che adora il gioco interno, soffre sul perimetro e non muove i piedi particolarmente bene: perfetto per la NBA di trent’anni fa, ma con troppi limiti per le idee del suo coach. Naturale, dunque, che sia lui l’indiziato primario per aprire spazio salariale e tornare attivi sul mercato, anche se buona parte delle strategie di Milwaukee nella prossima free agency dipenderanno dalle condizioni di Jabari Parker, un argomento su cui prima di febbraio sarà impossibile avere risposte.
Il secondo motivo dell’immobilità è un’imprevista sostituzione nel ruolo di GM, con John Hammond volato in direzione Orlando Magic e Jon Horst assunto come sostituto a pochi giorni dall’inizio della free agency. Un avvicendamento complesso su cui – a quanto riportato da vari media – è pesato anche un sostanziale disaccordo interno alla dirigenza dei Bucks, che ha ulteriormente ritardato la decisione finale. La scelta di Horst è stata sorprendente, per quanto logica. Braccio destro di Hammond con un ruolo molto attivo dietro le quinte del management dei Bucks negli ultimi 9 anni, è la figura che conosce meglio i meccanismi interni alla franchigia e può dunque garantire continuità con il progetto di Hammond. Ma è anche un dirigente giovanissimo – solo 34 anni – per la prima volta messo in un ruolo di così ampio potere decisionale.
Quale sarà l’obiettivo per il 2017-18? Prematuro parlare di titolo, realistico aspettarsi progressi, soprattutto in un Est indebolito nel medio rango. Vincere una serie di playoff e giocarsela al secondo turno potrebbe essere il giusto compromesso tra ambizione e moderazione. Comunque vada a finire, sarà una stagione in cui Jason Kidd, dopo una breve ma intensissima carriera in panchina, potrà ulteriormente consolidare il proprio valore da allenatore. Dopo aver spinto il ruolo di playmaker verso più alte cime in un glorioso cammino da giocatore, Kidd ha mostrato la stessa allergia alle convenzioni nel dirigere le partite da bordo campo, seppur con un successo meno schiacciante. Calatosi nel ruolo senza alcuna esperienza – fatto anomalo, ma nemmeno così inusuale per una ex superstar, come successo ad esempio con Larry Bird e Magic Johnson – ha plasmato i Bucks con un approccio innovativo, incurante del rischio. Dopo i conflitti che avevano fatto esplodere la situazione ai Nets, quando chiese l’allontanamento del più esperto assistente Lawrence Frank (aprendo una frattura in società che portò poi al suo addio), Kidd ha investito tempo e risorse nella formazione di collaboratori più giovani.
Su tutti, spunta Sean Sweeney, 33 anni, che Kidd ha portato con sé dopo la stagione ai Brooklyn Nets, dove era approdato nel 2011 come coordinatore video. Formatosi come scout e assistente nel sommerso NCAA, Sweeney ha contribuito attivamente sia alla parte di gestione – ha allenato la squadra in tre stagioni di Summer League – che a quella di preparazione, giocando un ruolo importante nell’applicazione dei principi difensivi voluti da Kidd. Sulle sue orme c’è Josh Broghamer, anche lui prodotto dell’Iowa, 26 anni. Ha sostituito Sweeney a Las Vegas, stupendo tutti per l’eccezionale compostezza mostrata nel ruolo. È parte dello staff, ma potrebbe diventare capo-allenatore dei Wisconsin Herds, la franchigia di D-League affiliata a Milwaukee, prima di tornare alla base. Con i giocatori, Kidd ha adottato un approccio poco interventista, portato a responsabilizzarli più che a riempirli di costrizioni. Fatta eccezione per il test scritto cui li sottopone prima di ogni partita, facendo sia domande su giochi e situazioni difensive, sia domande di cultura generale sulla storia NBA, come documentato da un lungo pezzo di Zach Lowe pubblicato sull’ora defunto Grantland.com (RIP).
Ma al di là del carisma e delle note di costume, Kidd ha anche lasciato un’impronta tattica importante, trasformando in punti di forza le anomalie di un roster in cui quasi tutti i giocatori sembrano fatti apposta per mettere in discussione le tradizionali divisioni tra ruoli. Tra le varie mosse che hanno pagato: carta bianca a Giannis con la palla in mano, con ampia licenza di sbagliare; frequenti cambi di quintetto base e rotazioni; una difesa molto aggressiva sulla palla, pronta a cambiare in ogni situazione per imporre la superiorità atletica; e il pick and roll con Middleton o Antetokounmpo come portatori di palla, una situazione perfetta per creare marcature squilibrate a ogni possesso. Oltre a far fruttare al massimo la versatilità dei propri uomini, Kidd ha pure spremuto tangibili miglioramenti individuali da tutti, spaziando da Middleton e Antetokounmpo fino ad atleti meno quotati, o arrivati in un momento di confusione tecnica e mentale. Come Tony Snell che, dopo gli anni disastrosi ai Bulls, è riuscito a riciclarsi come specialista difensivo e tiratore piazzato, legittimando un posto nella lega che sembrava vacillare. Anche per Kidd, però, è il momento di fare un passo avanti ulteriore.
Le macchie del passato, come il brusco abbandono dei Nets e le tante sconfitte nella stagione 2015-16, sono ancora troppo recenti per non pesare sulla valutazione della sua breve carriera. Un’annata scoppiettante, con tante vittorie e una serie vinta ai playoff, potrebbe essere il definitivo trampolino di lancio. Suo, e di tutta la franchigia.