Ad un occhio poco attento, il licenziamento di Adrian Griffin da parte dei Milwaukee Bucks può sembrare ingiustificato. Al momento della notizia la squadra vantava un record di 30 vittorie e 13 sconfitte, occupava il secondo posto nella Eastern Conference alle spalle dei Boston Celtics — con lo stesso record delle tre migliori squadre della Western Conference —, per di più con il quarto miglior attacco di tutta la lega. Con una situazione di classifica del genere e un rendimento offensivo di quel calibro, nessuno si sarebbe potuto aspettare il licenziamento dell’allenatore appena superata la boa di metà stagione: per trovare un coach cacciato con un record migliore bisogna risalire al 2016, quando David Blatt perse la panchina dei Cavs (poi campioni NBA) con un record di 30-11.
Per chi ha seguito i Bucks fin dall’inizio dell’anno, però, la notizia non è sembrata ingiustificata o sorprendente. È fin dall’inizio della regular season che qualcosa sembra non funzionare all’interno della squadra: il record in classifica, infatti, non rispecchia per nulla un rendimento nettamente inferiore a livello di prestazioni, con un differenziale su 100 possessi che non è neanche nella top-10 della lega. Il +3.4 di Net Rating con cui attualmente i Bucks si piazzano all’undicesimo posto in NBA secondo Cleaning The Glass è il differenziale di una squadra da 25 vittorie a questo punto della stagione e 49 al termine della regular season, non la schiacciasassi da oltre 55 come il loro record suggerirebbe. In definitiva, i Bucks hanno vinto oltre 4 partite in più rispetto a quello che il loro rendimento suggerirebbe — il dato più alto di tutta la NBA.
Su questa differenza tra risultati e prestazioni influisce moltissimo aver avuto fino a questo momento il calendario più semplice dell’intera NBA e, ciò nonostante, solo la 21esima difesa della lega. Vedere una difesa che può contare su due giocatori da primo quintetto difensivo come Giannis Antetokounmpo e Brook Lopez così in basso è quasi stato uno shock culturale per l’intera organizzazione, che negli anni sotto la guida di Mike Budenholzer è sempre stata abituata ad avere un rendimento di assoluta élite in difesa (solo nel 2021-22 hanno chiuso al 14° posto, ma da campioni in carica potevano permettersi di costeggiare di più la regular season).
Aver vinto tante partite “facili” — i Bucks hanno un record di 18-5 contro le squadre sotto il 50% di vittorie — ha permesso a Griffin di nascondere sotto al tappeto un bel po’ dei problemi della sua squadra. Ma battere i Detroit Pistons per due volte consecutive con uno scarto sotto la doppia cifra non ha di certo fugato i dubbi su una squadra che non è mai sembrata trovare un punto di incontro con il suo nuovo allenatore, passando attraverso dei momenti in cui sembravano avere quasi una crisi di rigetto dopo gli automatismi sviluppati nell’era Budenholzer.
La crisi di rigetto dello spogliatoio dei Bucks
Griffin era alla sua prima esperienza come capo-allenatore, ma non era di certo uno sprovveduto. Oltre ad aver giocato per un decennio in NBA, dal 2009 in poi ha sempre fatto parte di panchine in giro per la lega, tra cui la sua ultima fermata ai Toronto Raptors vincendo anche il titolo del 2019. Proprio dalla sua esperienza sotto Nick Nurse, di cui era coordinatore della difesa, aveva cercato di portarsi dietro alcuni principi difensivi, in particolar modo cercando di aumentare l’aggressività sulla palla per cercare di imporre scelte agli avversari piuttosto che subirle.
L’esperimento è durato nei fatti solo quattro partite: dopo un paio di brutte sconfitte subite per mano di Atlanta e Toronto, un gruppo di leader dello spogliatoio ha chiesto espressamente di tornare al “vecchio regime”, vale a dire un sistema conservativo sui pick and roll molto più nelle corde in particolare del centro Brook Lopez. Griffin ha acconsentito alle richieste dei giocatori e in effetti l’impostazione difensiva dei Bucks è stata molto “Budenholzer-iana”, almeno sulla carta: pochissima pressione sulla palla (ultimissimi per palle perse forzate, esattamente come lo scorso anno e sempre tra le peggiori sei nei quattro anni precedenti), protezione del ferro a qualsiasi costo, pochissimi falli commessi, tiri dalla media distanza concessi a volontà agli avversari (nessuno ha forzato più long 2s di loro).
Sulla carta quindi la filosofia è rimasta identica, ma a decretare il crollo dei Bucks è stato il personale chiamato a eseguire quel sistema difensivo. Il frontcourt è sempre quello che ha conquistato il titolo del 2021, cioè quello formato da Khris Middleton insieme a Antetokounmpo e Lopez con Bobby Portis primo cambio dalla panchina, ma i cambiamenti estivi apportati nel backcourt hanno determinato un peggioramento sensibile. Passare dall’arcigna difesa di Jrue Holiday — uno dei migliori di sempre sulla palla e, sopratutto, nel superare i blocchi e contestare da dietro i palleggiatori avversari — a un “casellante” come Damian Lillard è stato un downgrade insostenibile per l’impianto difensivo di Milwaukee, anche perché al fianco di Dame non è stato scelto uno specialista capace di contenere gli avversari sul punto di attacco ma un difensore altrettanto scarso come Malik Beasley.
Se fino allo scorso anno gli avversari dei Bucks dovevano preoccuparsi di Holiday che incombeva alle loro spalle come un Nazgul, ora hanno strada spianata per attaccare l’area dritto per dritto e mandare al collasso la difesa di Milwaukee, a volte senza neanche il bisogno di un blocco. Non è un caso che gli avversari quest’anno segnino col 66% al ferro contro i Bucks (dato nella media dopo che per anni sono stati al top della NBA) nonostante la presenza di un protettore del canestro di élite come Lopez (-8% di realizzazione contro di lui negli ultimi due metri di campo, nonostante i 35 anni di età).
Senza più doversi preoccupare del recupero alle loro spalle perché Lillard e Beasley si sono schiantati sul blocco, gli avversari hanno anche tempo e spazio per prendersi tiri dalla media distanza completamente smarcati. E se lasci tempo e spazio a professionisti della NBA di prendere la mira senza contestare, è logico che le percentuali salgano: quest’anno le squadre avversarie segnano dalla media distanza con il 45.5% contro i Bucks, il quinto dato più alto di tutta la NBA, in netta controtendenza rispetto al 42% dello scorso anno (settimo miglior dato). Sembra una differenza esigua, ma un 3.5% su base stagionale e soprattutto sul volume enorme di tiri che i Bucks concedono da quella zona di campo marca la differenza tra la quarta miglior difesa della lega (quella dello scorso anno) e la 21esima (quella di quest’anno).
L’altro aspetto assolutamente inaccettabile della difesa dei Bucks è la transizione difensiva. Sempre per la presenza di due guardie non particolarmente atletiche come Lillard e Beasley, oltre al fatto che Middleton ha evidentemente perso uno o due passi di rapidità, gli avversari hanno avuto vita facilissima nel correre contro Milwaukee — motivo per cui, ad esempio, gli Indiana Pacers sono riusciti a vincere quattro partite su cinque contro di loro. Il risultato è che nessuna squadra concede più transizione dei Bucks quest’anno, e in numerose occasioni sono sembrati del tutto disinteressati a tornare in difesa come atteggiamento e predisposizione più che per limiti tecnici (che pure ci sono), con il risultato di far perdere la testa a Giannis Antetokounmpo.
Lo strano nervosismo di Giannis
Come avevamo già scritto in occasione del recap dei peggiori giocatori del 2023, in questa stagione stiamo vedendo un lato del carattere di Antetokounmpo che non conoscevamo e che forse preferivamo non sapere. E dire che questa stagione era nata con ottime premesse, perché la sorprendente firma sull’estensione di contratto ha tolto un po’ di pressione a tutto l’ambiente, perché altrimenti ogni sconfitta avrebbe fatto scattare le inevitabili discussioni sul suo futuro e un suo possibile addio.
Quanto sarebbe stata vivisezionata in ogni suo fotogramma questa scena se Giannis non avesse esteso il suo contratto prima dell’inizio di stagione?
Ma se le aspettative esterne sui Bucks sono leggermente scese, quelle all’interno sono state alzate a dismisura da Antetokounmpo stesso. Mai come in questa stagione Giannis è sembrato nervosissimo, non solamente in campo (dove comunque in alcuni momenti è sembrato andare per conto proprio, con pochissima voglia di condividere il pallone come se ne andasse della sua reputazione come “maschio alfa” della franchigia) ma soprattutto fuori. Raramente si era visto Giannis attaccare così frontalmente i compagni dopo le sconfitte, spesso gettandoli sotto al bus (come si dice negli Stati Uniti). Nella conferenza stampa dopo una sconfitta contro Houston, quella diventata famosa per la frase: «Tutti dobbiamo migliorare, anche i magazzinieri devono lavare meglio le nostre divise», aveva cercato di scuotere i suoi compagni mettendoli di fronte alle loro responsabilità: «L’attacco a volte può esserci e a volte no, ma l’impegno in difesa deve esserci sempre. E in difesa oggi non c’era. Non c’è stato alcun orgoglio. Gli avversari potevano penetrare dritto per dritto e arrivare in area, tirare da tre, prendere rimbalzi offensivi. Non abbiamo fatto niente. Questi non sono i Milwaukee Bucks, noi non siamo questi».
La risposta da parte del resto della squadra è stata drammatica: nella successiva partita casalinga contro gli Utah Jazz i Bucks hanno difeso talmente male da andare sotto di 33 solo nel primo tempo, tanto da meritarsi i fischi da parte dei tifosi di casa come raramente si era visto in passato («Ce li siamo meritati, mi farei fischiato anche io», il commento di Antetokounmpo). Se dopo una “sbroccata” da parte del leader della squadra la risposta dei compagni è quella di concedere 77 punti in un tempo ai Jazz in casa, è evidente che qualcosa non funzioni anche tra i giocatori. E nonostante Giannis cerchi sempre di includere se stesso in ogni discorso, successivamente ha criticato in maniera evidente il suo backcourt («Non possiamo ‘morire’ sui blocchi solo perché ci sono Bobby e Brook alle nostre spalle a salvarci il c… Non è così che si vincono i titoli») e il suo stesso allenatore («Difensivamente dobbiamo avere un piano. Qual è la nostra strategia? Vogliamo concedere triple aperte? Vogliamo farli arrivare in area? Quando vanno in post, rimaniamo sui nostri e li lasciamo giocare in uno-contro-uno? Perché in questo momento stiamo concedendo tutto: le triple, le penetrazioni, il post basso e i rimbalzi»).
Anche episodi tutto sommato dimenticabili come la ridicola “ricerca del pallone della partita” con gli Indiana Pacers e la sua corsa sfrenata verso lo spogliatoio degli avversari sono sintomi di uno stato mentale non esattamente “zen” da parte del due volte MVP. Sarebbe successo con Budenholzer?
La convivenza spigolosa tra Antetokounmpo e Lillard
Tutti questi problemi sarebbero secondari se almeno la questione principale della stagione dei Bucks fosse stata risolta, invece anche la convivenza tra Antetokounmpo e Lillard non sta andando esattamente a gonfie vele. A inizio stagione ci si immaginava che il pick and roll tra loro due diventasse la base dell’attacco dei Bucks, invece la loro combinazione si è vista solo sporadicamente e mai con continuità. Antetokounmpo finisce appena 2.1 possessi da “rollante” a partita, meno dell’8% del suo attacco, e produce appena 2.3 “screen assist” (cioè blocchi che portano a un canestro) a partita, ben al di sotto dei 3.7 del compagno di squadra Brook Lopez, che molto più spesso viene chiamato da Lillard per cominciare i pick and roll perché decisamente più ben disposto a “portare le borracce” e a cominciare l’attacco anche a 8 metri dal canestro, mentre Antetokounmpo ha mostrato un ego sorprendente nel non calarsi in questo ruolo “secondario”, almeno nei primi tre quarti di partita.
Ciò non ha impedito loro di avere comunque successo quando schierati in campo. Il differenziale su 100 possessi dei quintetti quando sono contemporaneamente sul parquet è un ottimo +9.6, sfiorando i 125 punti segnati su 100 possessi e concedendone appena sopra la media della NBA (115.3). I dati salgono addirittura a +16.1 quando si inseriscono nell’equazione anche Middleton e Lopez, il che fa pensare che dopotutto una contender per il titolo possa ancora uscire fuori dal roster messo assieme dal GM Jon Horst. Solo che Adrian Griffin non è stato ritenuto l’allenatore giusto per far esprimere a questa squadra tutto il suo potenziale, e visto che il tempo di questo gruppo non è infinito, si è provveduto al licenziamento prima ancora che fosse finito un gennaio nel quale comunque Milwaukee ha avuto finora un record appena sopra il 50% (6 vittorie e 5 sconfitte, di cui l’ultima pesantissima a Cleveland pur senza Antetokounmpo).
Le colpe di Griffin e l’assunzione di Doc Rivers
Adrian Griffin ha pagato tutto questo e probabilmente anche dei rapporti interpersonali non idilliaci all’interno dello spogliatoio (in molti hanno fatto trapelare la propria insoddisfazione per minutaggio e tocchi), e non solamente nei confronti dei giocatori. Anche dopo diversi mesi non è ancora stata riesumata del tutto la scatola nera di quanto accaduto prima della stagione con Terry Stotts, che in teoria doveva fungere da veterano e guida di Griffin alla sua prima esperienza da capo-allenatore, ma che dopo un diverbio in allenamento ha deciso di dimettersi prima che fosse finita anche solo la pre-season. Una mossa che non ha precedenti e che ha fatto intuire subito che qualcosa non stesse funzionando all’interno dei Bucks, anche perché Stotts era deputato a far funzionare l’attacco attorno ad Antetokounmpo e Lillard, con il quale aveva già lavorato proficuamente a Portland (anche se la sua assunzione ai Bucks era ben precedente allo scambio per Dame).
È forse anche per questo che la dirigenza dei Bucks sin da dicembre, in occasione della fase finale dell’In-Season Tournament, aveva preso contatti con Doc Rivers, inizialmente come “consulente informale” per dare dei consigli e una guida a Griffin, mandandogli implicitamente un messaggio sul fatto che la pazienza era già al limite. Nonostante le sette vittorie consecutive dopo la sconfitta in semifinale con Indiana (secondo Chris Haynes di Bleacher Report dovute a un incontro a porte chiuse tra Griffin e i quattro migliori giocatori della squadra), da Natale in poi le cose sono tornate a non funzionare esattamente come prima, tanto da convincere la dirigenza a presentarsi puntualmente a bordo campo per tutti gli allenamenti della squadra. Sintomo che la fiducia era evidentemente finita.
Nel giro di una settimana i Bucks hanno provveduto alla sostituzione, trovando l’accordo con Rivers nel giro di 24 ore dal licenziamento di Griffin. È evidente che l’idea della dirigenza è quella di mettere un allenatore in grado di “comandare rispetto” nei confronti dei giocatori, vista la lunga esperienza nella gestione degli ego che è la parte migliore del curriculum di Rivers (per quanto poi abbia finito spesso per litigare con le sue stelle). Licenziare l’allenatore a metà stagione mette poi anche i giocatori di fronte alle loro responsabilità: difficilmente da adesso in poi potranno più accampare scuse, e lo stesso Rivers potrà dire che “se mi hanno chiamato qui a stagione in corso è perché voi avete fatto un casino, non io”.
La sensazione è che i Bucks in questa stagione abbiano bisogno di una sferzata dal punto di vista motivazionale e psicologico più che tattico, e in questo senso l’assunzione di Rivers potrebbe avere un effetto positivo immediato. Poi però bisognerà valutare anche l’altro lato della medaglia, ovverosia le ben note mancanze dell’allenatore una volta arrivato ai playoff — in cui di fatto ha rimediato solo figuracce dopo aver lasciato i Celtics ormai 11 anni fa — e una certa incapacità di mantenere la barra dritta per molti anni. Non avrà un compito semplice, specialmente nella gestione degli ego di Antetokounmpo e Lillard, ma i Bucks arrivati a questo punto sono troppo esposti per potersi permettere di perdere altro tempo.