Nello stilare le oltre 130 pagine del suo protocollo per la ripartenza nella bolla di Disney World, la NBA aveva pensato praticamente a ogni cosa per prevenire la diffusione del coronavirus tra i suoi 1.500 membri volati a Orlando — persino impedire le partite di ping pong due contro due. Un protocollo lunghissimo e rigidissimo che, a oltre un mese e mezzo dal suo inizio, è andato forse addirittura oltre le più rosee aspettative, senza registrare neanche un caso di positività nel bel mezzo di uno degli stati più colpiti dalla pandemia degli USA.
Forse un po’ tutti avevamo pensato che la fine della bolla potesse arrivare con un caso di positività, e abbiamo ignorato o quantomeno sottovalutato che la sua conclusione potesse arrivare per un altro tema cruciale di questa ripartenza: la giustizia razziale e sociale. Immagino che negli uffici di Adam Silver nel mese di giugno si siano chiesti “Che cosa facciamo se capita un altro caso George Floyd durante la bolla?”, ma che non potessero materialmente farci nulla per prevenirlo o per prevederlo — non fosse altro perché non si possono anticipare le reazioni di centinaia di giocatori dai background e dalle storie così diverse tra loro.
Era purtroppo da mettere in preventivo che un nuovo caso di violenza insensata della polizia come quello di Jacob Blake potesse accadere, visto quanto successo storicamente negli Stati Uniti, ma la decisione dei Milwaukee Bucks di non scendere in campo per gara-5 contro gli Orlando Magic per un motivo prettamente sociale e di giustizia razziale ha un significato epocale — e non deve in nessun modo passare in secondo piano quanto sia stata coraggiosa la loro scelta. Già da qualche giorno i Toronto Raptors avevano paventato la possibilità di boicottare la loro serie contro i Boston Celtics, ma le discussioni tra le parti erano ancora in corso e la sensazione è che c’era ancora tempo per trovare un accordo per giocare; la scelta dei Bucks di non scendere in campo a pochi minuti dalla palla a due è arrivata invece in maniera improvvisa, cogliendo impreparati anche i dirigenti più importanti della lega che sono rimasti chiusi fuori dallo spogliatoio di Milwaukee in attesa della decisione dei giocatori.
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Alexandria Ocasio-Cortez ha sottolineato come l’uso della parola “boicottaggio” sia in realtà sbagliato in questo contesto, e che sarebbe più giusto utilizzare la parola “sciopero” per sottolineare il potere dei lavoratori in questa occasione.
Perché proprio i Milwaukee Bucks
È significativo che a prendere questa posizione così forte sia stata proprio Milwaukee, visto che l’episodio di Jacob Blake è avvenuto a Kenosha in Wisconsin, a 45 minuti di macchina dal Fiserv Forum dove giocano i Bucks. E non è un caso se, nelle tre ore in cui i giocatori sono rimasti nel loro spogliatoio, abbiano richiesto e ottenuto di parlare con il procuratore generale del Wisconsin Josh Kaul e con il vice-governatore Mandela Barnes, chiedendo giustizia per Blake. È stato il modo che hanno scelto per mettere pressione al governo dello Stato e per portare a un impegno concreto dopo mesi in cui il loro impegno sociale aveva indiscutibilmente aumentato l’attenzione su certi tempi ma dato forse pochi risultati reali. Dopo mesi di campagna alla ricerca di giustizia per Breonna Taylor, ad esempio, i poliziotti che l’hanno uccisa non sono ancora stati arrestati, e il procuratore generale afro-americano del Kentucky Daniel Cameron — che ha la responsabilità di condurre le indagini — ha parlato alla convention repubblicana senza citare neanche una volta il suo nome.
Nella decisione dei Bucks rientrano numerosi aspetti, tutti ugualmente difficili da sviscerare fino in fondo. Di certo la violenza del video nel quale Blake viene afferrato alle spalle e colpito con sette colpi di arma da fuoco davanti ai suoi tre figli presenti nell’auto è rivoltante nella sua brutalità, e io — da maschio bianco italiano di 30 anni che fa il giornalista di mestiere — non posso pensare di capire quali reazioni possano provocare quelle immagini in una persona di colore che sarebbe potuta essere al posto di Blake, che a quanto riportato era intervenuto per sedare una rissa ed era disarmato nel momento in cui ha provato a entrare nella sua auto. Pascal Siakam dei Toronto Raptors, per dirne uno, ha detto di non aver voluto vedere le immagini perché ancora scosso dal video di George Floyd.
Nella decisione dei Bucks rientra anche il fatto che i giocatori sono arrivati a un punto di rottura per quanto riguarda la bolla: secondo quanto riportato da ESPN alcuni di loro erano logorati dall’esperienza a Disney World ancora prima dell’episodio di Blake. Paul George ha ammesso dopo i suoi 35 punti in gara-5 di aver affrontato periodi di ansia e depressione che lo avevano portato a giocare tre partite disastrose nella serie contro i Dallas Mavericks, dicendo espressamente “The bubble got the best of me” e di essersi rivolto a uno psicologo per affrontare i suoi problemi. E da quanto viene riportato non si tratta di un caso isolato, visto che in più di un’occasione anche altri giocatori come Jaylen Brown avevano sottolineato quanto la salute mentale fosse un tema sottovalutato della vita ripetitiva e senza possibilità di contatti fisici con familiari e amici all’interno della bolla. Potranno sembrare “problemi da primo mondo”, ma se ci si ferma solo a sentenziare (“Ma guarda questi giocatori ricchissimi che si lamentano di stare in un resort, con tutti i soldi che prendono!”) si perde la possibilità di capire e di comprendere la loro posizione umana — che è molto più importante in generale e interessante da analizzare in questo contesto.
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“Quando scendiamo in campo e rappresentiamo Milwaukee e il Wisconsin, ci si aspetta da noi di giocare ad alto livello, dare il massimo impegno e ritenerci responsabili gli uni verso gli altri. In questo momento chiediamo lo stesso ai legislatori e a chi deve far rispettare le leggi”, hanno detto i Bucks nel comunicato dopo tre ore in cui erano rimasti chiusi in spogliatoio.
La spaccatura nell’associazione giocatori
La scelta dei Milwaukee Bucks di non scendere in campo ha avuto l’effetto collaterale di creare una profonda spaccatura nell’associazione giocatori, che ancora una volta si è rivelata incapace di mettere assieme le diversissime anime che la compongono. I Bucks hanno deciso pochi minuti prima della palla a due di boicottare la partita senza informare nessuno, neanche gli avversari degli Orlando Magic, e si sono dovuti scusare con i loro colleghi nella riunione che si è tenuta ieri notte tra i giocatori presenti nella bolla per decidere come muoversi.
Proprio in quella riunione è poi avvenuta un’altra scissione tra le squadre che erano pronte a far saltare del tutto la stagione (i Los Angeles Lakers e gli L.A. Clippers) e quelle che invece in ogni caso intendono continuare (le altre). Il fatto che LeBron James si sia posto come volto principale della fazione che vuole boicottare la bolla è tutt’altro che secondario, anche perché James era stato tra i primi a schierarsi a favore della ripartenza della stagione. E se venisse confermata la notizia di The Athletic secondo la quale James ha abbandonato la riunione dei giocatori insieme ai suoi compagni e ai giocatori dei Clippers non appena Udonis Haslem (suo ex compagno ai Miami Heat) ha suggerito di proseguire la stagione senza di loro, la frattura all’interno della NBPA potrebbe essere definitiva — anche perché, a quanto pare, l’amico di James e presidente dell’associazione Chris Paul è ancora dalla parte di chi vuole continuare a giocare e portare a termine quanto cominciato.
L’incapacità di organizzare un piano condiviso da tutti — dopo che già Kyrie Irving, uno dei vice-presidenti della NBPA, aveva apertamente criticato l’opportunità di andare a Disney World — è un brutto colpo per un’associazione che aveva fatto della rinnovata unità tra i suoi membri uno dei punti chiave della ripartenza dopo i momenti bui dell’era Billy Hunter. È possibile che la notte abbia portato consiglio tra le parti e che oggi pomeriggio James ritorni sui suoi passi, anche perché non è da escludere che abbia voluto prendere questa posizione forte (della serie: Io non gioco perciò nessuno gioca e il giochino si rompe) per imporre un impegno economico e politico maggiore da parte dei proprietari delle 30 franchigie NBA a favore del movimento Black Lives Matter, e che quando verrà accontentato la frattura si ricomponga. Ma al momento la situazione della bolla non è prevedibile proprio perché neanche i giocatori stessi, che hanno in mano le sorti della stagione 2019-20, sanno bene che cosa fare.
Cosa succederà ora nella NBA
La sensazione è che la bolla abbia raggiunto un punto di non ritorno: o si va fino in fondo con questo esperimento così particolare, oppure ci si ferma e si affronta un futuro dai contorni piuttosto cupi — specialmente dal punto di vista economico. La lega ha investito 180 milioni di dollari nella bolla per recuperare quantomeno il miliardo che ancora doveva ricevere dalle televisioni, l’unico modo per organizzare la prossima stagione secondo i parametri del contratto collettivo attualmente in corso con una divisione 50/50 dei ricavi. Ma se dovesse saltare questa stagione, bisognerebbe ridiscutere tutto secondo parametri completamente diversi — il che significa con ogni probabilità lo spettro di un lockout e di un nuovo contratto collettivo, le cui conseguenze non sono neanche lontanamente prevedibili in un mondo in piena pandemia.
In questo momento è conveniente per le proprietà schierarsi al fianco dei giocatori e lasciare a loro la responsabilità, nel caso, di far saltare la stagione — anche perché darebbe loro un’arma potentissima sul tavolo delle negoziazioni in caso di lockout. Era uno dei temi già prima della ripartenza di Orlando e lo è a maggior ragione ora. Bisognerà capire se le motivazioni che hanno portato i giocatori a volare a Disney World a inizio luglio sono rimaste abbastanza forti da convincerli a continuare e ad andare fino in fondo, oppure se la ricerca della giustizia razziale e sociale alla luce degli spari nella schiena di Jacob Blake siano la collina sulla quale sia giusto sacrificare tutto quello che hanno.
Si tratta in ogni caso di una decisione difficilissima e che ha argomenti a favore da una parte e dall’altra: quello che non si può discutere è che i giocatori NBA, per quello che hanno fatto e per quello che continuano a fare, si siano meritati l’opportunità di decidere del loro destino e di quello della lega. Con questa decisione così forte i giocatori NBA si sono imposti come punto di riferimento per l’intero sport americano e mondiale, che ha seguito il loro esempio e ieri sera - dalla MLB alla MLS fino al tennis con Naomi Osaka - si è fermato per mostrare solidarietà con la scelta dei Bucks. Per una lega come la NBA che qui da noi viene descritta spesso utilizzando termini come “il grande spettacolo della NBA” o come “lo show dei giganti del basket”, fino ad arrivare a denigrazioni che si avvicinano al concetto di “circo” o di “non è vera pallacanestro”, si tratta di un deciso cambio di paradigma di cui tutti dovrebbero tenere conto: ora la NBA è la lega che guida il discorso sociale e razziale nel mondo, e non si può più ignorare.