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Mino Raiola e Twitter
10 ago 2016
Un rapporto difficile.
(articolo)
5 min
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Nel 2011, dopo essersi opposto per anni alla digitalizzazione dei suoi libri, Ray Bradbury è stato costretto a concedere che Fahrenheit 451 venisse trasformato in codice binario e affidato al web. In un’intervista al New York Times, rilasciata due anni prima, aveva raccontato «Volevano mettere un mio libro su Yahoo! Sapete cosa gli ho risposto? All’inferno. Andate all’inferno voi e Internet». E continuava: «È una distrazione. Non ha senso: non è reale. È là, nell’aria, da qualche parte».

Da qualche parte ho letto che avrebbe anche detto: «Sapete cosa è Internet? Piscio nelle orecchie della gente». Una bella definizione, no?

Mino Raiola, o dovrei meglio specificare l’avatar di Mino Raiola sui social network, per certi versi è il Ray Bradbury degli agenti di calcio, non foss’altro per il conservativismo e la reticenza alle dinamiche della Rete. Addentrarsi nel suo profilo Twitter, rimirare i suoi miseri 27 tweets lungamente, come faremmo con un quadro di Monet, è un’esperienza letteraria psichedelica e bipolare.

Eppure le poche tracce lasciate da Raiola su Twitter non sono affatto incoerenti: come le molliche di Pollicino ci rendono più facile trovare la strada per interpretare il personaggio e il suo modo di fare comunicazione. Oltre al fatto che ci illustrano la percezione che abbiamo noi di Raiola non appena fa un log-in.

Aereo, interno giorno. Giacca a vento arancione, posa sbarazzina ma spontanea. In mano uno smartphone, la certificazione che a fare quei tweet sia PROPRIO LUI.

Mino Raiola ha aperto il suo account Twitter nel dicembre del 2014, a ridosso della finestra di mercato invernale (immagino che il susseguirsi delle stagioni, per lui, sia scandito - come in Oriente dai monsoni - dalle sessioni di compravendita). Sarebbe ingenuo pensare che non sapesse le reazioni cui andava incontro, affacciandosi a quel balcone sulla globalità che è il web. Un procuratore, per quanto sia in extrema ratio un commerciante, non può godere dello stesso status inattaccabile di un pescivendolo che commercia in ostriche. Perché il consumo di ostriche non tocca le corde dei sentimenti umani come quello del calcio.

Se volessimo categorizzare l’accoglienza che gli hanno riservato gli altri utenti in macroaree, se ne potrebbero identificare due: la prima, la sempreverde «Haters gonna hate»; la seconda, una specie di specialissima rubrica del cuore intitolata «chiedilo a Mino», in cui Raiola è visto tipo il corvo Rockfeller della nostra infanzia.

Mino per il sociale

La figura di Raiola è controversa, piena di secche pericolose per la navigazione, odiata e amata a un tempo, assurda per i nostri tempi come solo la storia di un figlio di immigrati che diventa miliardario contrattando ingaggi di calciatori può essere.

Una sfaccettatura interessante dell’esperienza Twitter di Raiola è quella che abbraccia la narrativa dell’impegno sociale, della lotta agli stereotipi razzisti, non foss’altro perché lo tocca da vicino: un argomento che a un certo punto (lontano dalle finestre di mercato, che è un po’ il Ferragosto di Raiola) sembra essere stato quasi l’unico scopo per il quale Mino ha trovato il tempo di aprire il suo cuore - che i detrattori immaginano nero e avido - e digitare, con le sue dita callose - che sempre i detrattori immaginano impiastricciate della patina appiccicaticcia che ricopre le banconote di grosso taglio - a messaggi d’ecumenico amore, per certi aspetti anche condivisibili (o retwittabili, se preferite).

Credo sia una sfumatura interessante non tanto di per sé - di fronte a un tweet tipo «One earth, one mankind» scritto da un conoscente qualunque apparso in timeline avremmo probabilmente alzato le sopracciglia - quanto per la maniera in cui una presa di posizione così marcata sia stata recepita: le interazioni che ha scatenato sono state più un riflesso della percezione che abbiamo di Mino (e quindi di che tipo di persone siamo) che di come la pensi davvero lui (magari pure in buona fede).

Anche il tweet in cui ha denunciato dei buu razzisti in una gara tra adolescenti è stato interpretato come una misinterpretazione, e quindi usato per accusarlo di essere un provocatore.

Un livello di accanimento mediatico che - se Mario Adinolfi avesse mai portato Zlatan alla Juventus e fosse ancora ricordato con affetto per questo - sarebbe pari a quello che sperimenta ogni giorno su Twitter Mario Adinolfi.

Diventare padrone del mezzo.

La prima semplicistica conclusione morale che si potrebbe trarre a questo punto è che Mino Raiola non abbia tempo per twittare, se non quando si sente particolarmente toccato sul punto. L’esternazione della sua scocciatura, allora, diventa l’innesco perfetto per una raffica di risentimenti.

Se il calendario potesse essere rappresentato come un campo di calcio stilizzato, i mesi estivi sarebbero la porzione di campo nella quale la heat-zone dei tweet di Raiola avrebbe un colore più vivido, terreno fertile per smentite diverse, anche se sempre uguali a se stesse.

Nel suo ultimo Tweet, tuttavia, Raiola ha dimostrato di aver capito che Twitter può avere una sua utilità, perché sì: si possono anche fare annunci.

Nuntio vobis cum magnum gaudium.

Raiola, insomma, in soli ventisei tweet - e quindi prima di molti altri - è diventato padrone del mezzo. Ha afferrato che i social non servono per condividere, né per ostentare: il suo uso arcaico, eppure eminentemente realista, ci dimostra che Internet certe volte è davvero senza senso, e in ultima istanza è anche un po’ piscio nelle orecchie della gente.

Ora potrebbe tranquillamente ritirarsi nel New Hampshire e morire a centodue anni senza dire né scrivere più una riga, come JD Salinger. A lui sono state sufficienti quasi 250 pagine per ritagliarsi un posto nella storia, non una di più: se avesse avuto un account su Twitter, 27 sarebbe stato un bel numero per smettere.

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