Joel Pohjanpalo ha vinto il Premio Calciatore del Mese AIC di marzo, e forse questo premio gli andrebbe dato di diritto ogni mese. Ha già segnato 19 gol in 27 partite e rappresenta la più grande speranza del Venezia di Vanoli per cercare di ottenere la promozione in Serie A. Per celebrarlo siamo andati a Venezia per vedere cosa significhi, oggi, vedere Pohjanpalo al Penzo.
Uno dei film più ironici e divertenti di Ken Loach si intitola Il mio amico Eric, ed è la storia di un postino di mezza età che, in un periodo di grande difficoltà, si ritrova a parlare con il suo mito: Éric Cantona. Il regista inglese, che ha abituato i suoi fan a drammi sociali dal sapore neorealista, in quel caso ha lasciato viaggiare la fantasia. Cantona appare in seguito a una fumata di erba, e da quel momento il protagonista si ritrova a seguire i consigli del campione e ad affrontare la vita con piglio più sicuro grazie alle sue pillole di filosofia. «Non sono un uomo... sono Cantona», precisa il francese al suo interlocutore durante uno dei loro scambi di battute. Una frase perfettamente in linea con lo stile sopra le righe dell'ex idolo dello United, ma che stonerebbe in bocca al calciatore che ho scelto per traghettarmi fuori dalla crisi di mezza età seguendo il suo esempio di vita: Joel Julius Ilmari Pohjanpalo.
“Il Doge finlandese, el gondolier... il nostro capitano”, lo definisce sui social un utente che si fa chiamare el_bicio, facendo seguire il messaggio dall'emoticon di un leone. Una serie di epiteti che aiuta a capire il tipo di rapporto che c'è tra il pubblico del "VeneziaMestre"– così preferiscono chiamare da quelle parti la loro squadra – e il suo attaccante. Era un po' che volevo vederlo dal vivo, così ho approfittato della Pasquetta per una gita al Penzo.
Arrivare allo stadio di Sant'Elena, come saprà chiunque lo ha visitato nel corso degli anni, è di per sé un'esperienza, un po' come tutto ciò che ruota intorno a quell'incredibile microcosmo che è la città di Venezia. Con me Erminio, mio Virgilio locale, e mio figlio di cinque anni, alla sua prima esperienza da stadio, e allo stesso tempo emozionato e scettico.
Prendere il vaporetto a partire dal Lido, in una giornata di pioggia e cielo grigio con le onde che sferzano la chiglia del battello, mentre si sta seduti comodi a poppa a guardare Venezia sfilarti davanti agli occhi, significa aver già portato a casa sufficienti ricordi per la giornata. O forse è questo quello che succede quando sai che presto vedrai dal vivo Pohjanpalo.
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Un tempo Sant'Elena, che evoca malriposti ricordi napoleonici, era un isolotto su cui si ergeva una chiesetta abbandonata nella laguna. Solo nella prima metà del ventesimo secolo l'area circostante è stata bonificata, creando il quartiere residenziale su cui svetta lo stadio Penzo.
La biglietteria – nostra prima tappa, poiché mi hanno raccontato che la serie cadetta non è ancora funestata dalla diabolica necessità del tagliando online – svetta affidabile di fronte all'approdo dell'imbarcadero, ma è inopinatamente chiusa. Lasciata alla mercé di un barbuto in pettorina, più infastidito dallo scrosciare della pioggia che interessato a svolgere il suo compito di steward. Dopo avergli rivolto un sorriso benevolo, malgrado tutto, proseguiamo oltre.
Attraversiamo il bel viale di pini marittimi del parco delle Rimembranze e ci inoltriamo per il quartiere. La polizia, come da copione, è in assetto antisommossa, ma il pomeriggio e gli avversari – la Reggiana – non sembrano preannunciare minacce. Erminio mi racconta che il recente passaggio del Bari ha creato parecchio scompiglio: nei video si vedono i palazzi popolari che ci circondano, il rio Sant'Elena che scorre pigro con i motoscafi ormeggiati alle paline, bombe carta che esplodono e gente fuori di testa che prova a sfondare il cordone di sicurezza a colpi di aste da bandiera. Oggi gli agenti fanno capannello sotto i portici nella speranza di non arrivare a sera bagnati fradici e i tifosi intorno a loro chiacchierano sereni, rassicurandomi sull'improbabile eventualità di un'altra guerriglia urbana.
Trascinandoci dietro mio figlio bagnato, affamato e scontento, arriviamo alla biglietteria, letteralmente sprofondata nel fango. Dopo aver intimato al bambino di aspettarmi immobile sul marciapiede, per evitare che finisca risucchiato in quel mare di melma, compriamo i biglietti di tribuna coperta e scopriamo nostro malgrado che i prezzi sono maggiorati rispetto a quelli in rete. Per una volta – sapendo che si trattava di venticinque euro – non volevamo badare a spese, ma spenderne dieci di più ci irrita. La faccia mia e di Erminio si deforma in una smorfia truce. «Dai, se siete fortunati poi vi bevete una birra con Pohjanpalo», prova a rabbonirci il bigliettaio, che probabilmente conosce i suoi polli. Come siamo prevedibili noi appassionati di calcio di mezza età.
Scopriamo che la tifoseria veneziamestrina è riunita poco lontano dallo stadio, all'osteria “Ae do ombre”, un nome che più locale non si potrebbe. Biglietto in tasca, un cicchetto fritto e un bicchiere di vino condiviso con qualche ultrà sarebbe il modo perfetto per entrare in clima partita, ma mio figlio non ne può più di stare sotto l'acqua. Mostrando una conoscenza superiore del satyāgraha, la resistenza passiva teorizzata da Gandhi, comincia a camminare a velocità calcolabile in numeri infinitesimali, caracollando tra una pozzanghera e l'altra. Il rischio che si infradici, che mi odi e che cominci a chiedermi di rientrare a casa mi fa desistere dal proposito di imbucarmi tra i ragazzi della curva. Svoltiamo verso il ponte che ci separa dall’ingresso.
Davanti a noi si erge il muro della gradinata del secondo stadio più vecchio d'Italia dopo il “Ferraris” di Genova e c'è da dire che i suoi oltre cent'anni li dimostra tutti. Nel 1970 è stato devastato dalla pesante tromba d'aria che dai colli Euganei si era abbattuta sulla laguna di Venezia, sdradicando case, alberi e mietendo centinaia di morti. Lo stadio in cui giocava la squadra di Valentino Mazzola, il Venezia più forte della storia, arrivò a toccare i quindicimila posti; quello che negli anni Sessanta riassaporò la A superò i venticinquemila; dopo quella disgrazia la capienza si era ridotta a un quinto.
Quando Zamparini ha comprato Mestre e Venezia nel 1987, entrambe nell'allora C2, lo stadio di Sant'Elena venne abbandonato in favore del Baracca, ubicato sulla terraferma e di proprietà dei primi, cadendo in disgrazia per qualche anno. Il ritorno in B e le capatine in Serie A a cavallo tra i Novanta e il primo decennio dei Duemila avevano portato a una ripresa dell'attività dello stadio, ma in quel periodo ogni intervento di ristrutturazione era più che altro un make-up. Il sogno di Zamparini era costruire un nuovo impianto in zona aeroporto, con annesso centro commerciale, ma le sue speranze non si erano concretizzate. Con il suo passaggio al Palermo, per il Venezia – e per il Mestre – era arrivata l'onta del fallimento.
Una decina di anni fa ero passato di fronte allo stadio e mi ero stupito davanti ai suoi muri scrostati e al senso di abbandono generale, mentre oggi la proprietà statunitense ha migliorato la situazione. L'impianto è chiaramente di un altro secolo se paragonato a ciò che si vede all'estero, ma quantomeno ha le pareti stuccate di fresco. Sopra tutto, appena sotto i posti per la stampa che – caso strano – si ergono al di sopra della tettoia che copre la tribuna, domina in tutta la sua gloria il nuovo logo della squadra. Il totem intorno a cui è stata costruita l'imponente campagna di marketing che ha reso il Venezia Football Club un'attrazione per i tanti nordamericani in visita. In fila con noi ce ne sono almeno tre gruppetti.
Dopo un'attesa insolitamente lunga, motivata dall'unico tornello d'ingresso e dal maldestro rapporto di alcuni di coloro che ci precedono con i lettori ottici, entriamo all'interno dello stadio, sempre sferzati dalla pioggia. Erminio, che è un vero tifoso, è emozionato, io non penso che a Pohjanpalo. Mio figlio è sempre più cupo e scettico.
Un pacchetto di patatine fritte e un'aranciata, il meglio che riusciamo a ricavare dall'unico chioschetto presente nella nostra porzione di stadio (che rimpianto i cicchetti delle “do ombre"...) per fortuna sono sufficienti a dargli la carica. Dalle foto che trovo su Internet sembra sia proprio quello scelto da Pohjanpalo per le sue celebri birre post partita, ma dall'altra parte dell'impianto ne vedo uno identico. Lo incenerisco con lo sguardo.
La chiesetta di Sant'Elena spicca in un angolo a destra, dietro la tribuna scoperta dedicata a una studentessa veneziana uccisa negli attentati di Parigi del 2015, Valeria Solesin, occupata da pochi coraggiosi che non si piegano alla pioggia. Gli ultras riempono invece la gradinata Sud, poiché le “curve” propriamente dette, da queste parti sono esistite solo a fasi alterne, smontate e rimontate a seconda dell'aria che tirava. Inneggiano con insistenza al vecchio nominativo, VeneziaMestre: molti tra loro hanno dovuto affrontare più di un'ora di viaggio dalla terraferma e ci tengono a ricordare alla società che anche quelli di Mestre continuano a far parte del club.
Il Venezia Foot Ball Club nasce neroverde e il terzo colore attuale, l'arancio, è frutto della fusione voluta a tavolino da Zamparini. Per anni la disputa sulla predominanza del verde o dell'arancione, caratteristici delle due società, è stata un tema di scontro tra tifosi, ma oggi è stato scelto di imperio di far prevalere il nero, comune a entrambe. I colori “locali” ormai sono solo nei dettagli secondari di una divisa in cui spicca più l'oro di logo, numero e nome del calciatore. Tra le divise più richieste sul mercato a stelle e strisce.
«VeneziaMestre! VeneziaMestre!», urlano ancora tuttoattaccato dalle tribune. E con mio figlio, finalmente rinfrancato dallo spuntino, ci uniamo al coro in attesa che dal sottopassaggio a pochi metri da noi spunti la chioma bionda dell'idolo di casa. «Odio Vicenza!», gridano poi, ma non abbiamo nulla contro i biancorossi né i vicentini, e quindi in silenzio ci mettiamo in vigile attesa. Io molto vigile, lui perso negli infiniti dettagli mai visti che lo circondano: «Cosa sono quelle bandierine giallo e arancione? Perché ci sono le righe bianche sul campo?». Cose così.
Pohjanpalo dice di non essere mai stato a Venezia prima del suo passaggio in arancioneroverdi, ma appena l'ha vista si è innamorato. Il suo arrivo è dovuto alla sua amicizia con il portiere della squadra, Jesse Joronen, che gli ha fatto anche da testimone di nozze.
Gli altoparlanti, la cui recente installazione ha creato grande scalpore secondo Erminio, pompano a tutto volume Freed from desire di pioliana memoria, intervallata da alcune hit indie rock di una decina di anni fa – da Goodbye kiss dei Kasabian alla versione di Ça plane pour moi dei Vampire Weekend – che sogno provengano direttamente dal vecchio iPod di Pohjanpalo.
In un'intervista per la TV finlandese, la conduttrice Maria Veitola è entrata nella sua casa in centro storico a Venezia – caso più unico che raro che i calciatori vivano in centro – e lui l'ha accolta per un tour privato mostrandole le sue cose. La moglie Catharina è un'interior designer e ogni cosa, nello splendido appartamento pluricentenario dalle travi in legno a vista, trasuda ordine e simmetria nordica. Pohjanpalo, però, sembra sempre il tuo compagno di stanza in Erasmus, quello che anche se mangia solo patatine fritte e Coca Cola è decisamente più in forma di te. Che pure se sembra qualche chilo in sovrappeso e la sera prima lo hai lasciato al bar che ancora stava ordinandosi una pinta, il pomeriggio dopo al campetto da basket ti ha schiacciato in testa mentre tu arranchi e metà campo pugnalato dalla milza. Il tizio easy che va sul surf, sta bene con i cerchietti, le collane di perline e non sembra scemo se ogni tanto fa ancora quel gesto con il mignolo e il pollice reso celebre da Ronaldinho qualche anno fa.
La cosa per cui l'intervistatrice si sbalordisce di più non sono le nespole e i mandarini sul tavolino basso - proprio di fianco a un libro illustrato su Ibiza che un po' stona con l'idea che mi sono fatto di Pohja (da ora lo chiamerò come fanno i suoi ultras allo stadio) – né la sfilza di premi di migliore in campo, le stampe giapponesi o la macchina per il caffè in metallo stile bar art nouveau. La cosa che mi stupisce di più è il bagno.
Oltre a una toilette curiosa, con tubi in oro e asse nero opacizzato insolitamente rinchiusa in una sorta di sgabuzzino – forse un'usanza nordica trapiantata in laguna – ciò che la fa trasalire, strappando a Pohja un risolino, è il lavandino scolpito. «È di marmo», si compiace abbassando lo sguardo vergognoso.
In Finlandia, comportarsi come lui si dice olla viilipytty, ovvero “essere una tinozza piena di latte fermentato”. Significa rimanere sempre calmo e controllato in ogni situazione, una caratteristica che divide le persone gradite da quelle che ti fanno cambiare strada guardando da un'altra parte. E che qua in Italia ti permette di mettere a ferro e fuoco la Serie B a furia di triplette.
Quando Pohja spunta dal tunnel degli spogliatoi, lo stadio esplode in un boato. «Vai bomber!», urla un tizio davanti a me con quella “r” blesa resa celebre da Federica Pellegrini. Come da un anno a questa parte, ha la fascia di capitano al braccio e l'atteggiamento di chi ha tutto in perfetto controllo. Il Venezia è quarto in classifica e, da quando lui è rientrato a pieno ritmo dopo una fascite plantare, è rientrato tra le favorite per la promozione diretta (il secondo posto, attualmente occupato dal Como, è a soli tre punti). Nelle ultime 12 partite giocate, Pohja ha segnato 14 gol. La sua influenza è stata piuttosto chiara nell'ultima partita, contro l'Ascoli, in cui il Venezia senza di lui ha fatto una fatica immonda ad arrivare alla porta avversaria.
L'inizio di gara conferma i pronostici. Contro la Reggiana, Pohjanpalo è affiancato dal danese ex Monza Gytkjaer e quindi deve agire un po' più arretrato rispetto al suo solito, ma sebbene non faccia della mobilità la sua dote principale, a questi livelli sembra comunque immarcabile. Gli avversari gli sbattono contro come se picchiassero su un muro di gomma e, sia sulla trequarti che al limite, Pohja calamita palloni, li gestisce senza troppa premura e li smista ai compagni larghi sulle fasce gettandosi poi nello spazio. L'1-0 è una palla messa in mezzo per la sua testa che dopo un rimpallo finisce a Busio, solo soletto davanti al portiere. Il 2-0 è la specialità della casa: il gol di rapina. Palla in profondità di Tessmann, controllo di Gytkjaer, palla girata in mezzo e deviazione in spaccata di Pohjanpalo. La Reggiana non ha subito gol per più di trecento minuti in trasferta e adesso, dopo mezz'ora, è già sotto di due. Mi frego le mani in attesa della tripletta del mio idolo, magari sarà l'occasione buona per un'altra birra al bar qui sotto. Di certo non a quello dall'altra parte del campo.
Ma no, non lo è. Dopo aver esultato due volte come un matto con il mio piccolino in braccio ed Erminio di fianco, assistiamo impotenti alla rimonta della Reggiana e intorno a Pohja, che sembrava perfettamente in controllo della situazione, tutto comincia a sgretolarsi. Il suo sorriso timido si trasforma nella faccia triste e rabbiosa che Curzio Malaparte, in Kaputt, ha detto di aver visto nei finlandesi sbronzi. Il 2-3 finale è una mazzata che avrebbe ucciso un toro.
Dopo aver corso sotto la curva ad applaudire i tifosi, Pohja è venuto verso le tribune e si è infilato sotto la tettoia colorata che affaccia a bordocampo per abbracciare sua moglie. Quindi ha rivolto un saluto a chi lo chiama dalle balconate. Me compreso.
Da vero sciacallo, ho provato a convincere mio figlio a urlargli che voleva la sua maglia. Stanco dopo il viaggio in vaporetto, la pioggia, l'attesa musicale e novanta minuti di partita finita male, non mi ha dato assolutamente corda. Voleva della cioccolata: dovevo procurargliela al più presto, altro che maglia.
Ho cercato di mettermi in proprio, ma ho scoperto che un quarantenne pelato fa molta meno presa sui calciatori rispetto a un bambino di cinque anni e così non mi è rimasto che accontentarmi del sorriso imbarazzato che Pohja mi ha rivolto. Forse compatendomi, forse non guardandomi nemmeno. Totalmente inatteso, di fianco a noi è comparso Gondo, attaccante della Reggiana, corso tra il pubblico ad abbracciare un bambino. Il solito fortunato amico dei calciatori.
Dicono che ormai i calciatori, anche quelli delle squadre e delle serie minori, siano irraggiungibili se non passando dall'ufficio stampa della squadra e aspettando settimane per avere interviste preconfezionate. Ma Pohjanpalo mi è sembrato davvero diverso.
Non so se capiti spesso di trovarselo in giro per le calli, ma è bello immaginare una serata con gli amici in un campo (così si chiamano le piazzette di Venezia) in cui per caso incontri il tuo centravanti e gli offri una birra*. Senza bisogno di strafarsi come nel film di Ken Loach. Tornare a una realtà più alla mano, per chi ormai si è assuefatto al clima di plastica di San Siro, è bello e salutare. Anche sotto tanta, tantissima pioggia.
*Pohja in un'intervista ha confessato di preferire il rosé, ma facciamo finta che non l'abbia detto...