Nel 1981 Bernard Hinault, dopo aver vinto la Parigi-Roubaix, disse che quella non era una corsa, ma una “porcheria”, e promise di non farla mai più. Qualche anno prima Eddy Merckx raccontò che tutti i corridori avevano paura di affrontare la Parigi-Roubaix perché ogni volta tornavano in albergo con la schiena a pezzi e le mani che tremavano “come quelle dei vecchi”.
Le stesse persone che l'hanno fondata, nel lontano 1896, si sono rese conto fin da subito delle difficoltà che i corridori avrebbero dovuto affrontare per arrivare al traguardo. In quel periodo, Victor Breyer, redattore del giornale sportivo Le velo, subito dopo aver testato per primo il percorso della gara, spedì un telegramma al suo caporedattore, Louis Minart, dichiarando che quella era una corsa che non bisognava disputare. La definì un "progetto diabolico".
Questo tipo di reazioni, sempre le stesse a prescindere dal periodo storico, dipendono dal percorso che i corridori sono costretti ad affrontare. I settori in pavé consistono in lunghi tratti di strada senza asfalto, con innumerevoli file di pietre sconnesse tra loro, che fanno sobbalzare i corridori come se stessero domando un cavallo impazzito durante un rodeo.
La durezza della Parigi-Roubaix dipende proprio da questo, dallo sforzo che costringe i corridori a mantenere l'equilibrio, e allo stesso tempo una pedalata fluida, mentre attraversano enormi blocchi di pietra in spazi ristretti. In queste circostanze ogni minimo errore può essere fatale, e per questo motivo l'attenzione dei corridori è sempre alta, generando una tensione emotiva e corporea che si fa fatica a reggere fino alla fine.
L'edizione di quest'anno misurava 257,5 km con 52,8 km di pavé distribuiti in 27 tratti lungo l'intero percorso. I passaggi più duri sono sempre gli stessi: Arenberg, Mons-en-Pévéle, e Carrefour de l'Arbre. Il dislivello è tuttavia minimo, il percorso della Parigi-Roubaix è quasi tutto pianeggiante, ma il dispendio delle forze è comunque cosi elevato che a giocarsi la vittoria finale sono sempre i corridori che meglio sanno gestire ed economizzare le proprie energie. È anche lo stesso motivo per cui, pur essendoci degli specialisti di questa competizione, può capitare che a tagliare il traguardo per primi siano degli outsider.
Fato
L'imprevisto è un elemento che caratterizza ogni tipo di sport, ma nel ciclismo è praticamente una costante. Quando si percorrono oltre 250 km insieme a un gruppo composto da centinaia di corridori può veramente succedere qualsiasi cosa. Cadute, forature, animali che attraversano la strada all'improvviso, e ultimamente, sempre più spesso, anche la guida spericolata delle moto in corsa.
Se possiamo considerare quella di quest’anno una delle Parigi-Roubaix più belle degli ultimi anni è anche a causa del peso avuto dagli imprevisti nell’economia della corsa. La gara è stata movimentata sin dall’inizio, e costellata da diversi episodi sfortunati che hanno avuto come conseguenza soprattutto il ridimensionamento delle ambizioni di diversi corridori. Due in particolare: Peter Sagan e Fabian Cancellara. Le loro prove al Giro delle Fiandre una settimana prima - rispettivamente primo e secondo - li aveva posti come favoriti assoluti. Un hype motivato anche dal percorso più generale che li ha portati fin qui.
Peter Sagan, come era immaginabile, con la vittoria ai mondiali di Richmond è entrato in una fase più matura della propria carriera. Una nuova consapevolezza espressa già con le vittorie di Gand-Wevelgem e del Giro delle Fiandre, le prime in carriera di una classica monumento.
Fabian Cancellara invece, al suo ultimo anno da professionista, sta vivendo un colpo di coda della carriera. La conquista delle Strade Bianche a inizio marzo, e la straordinaria forma che lo sta accompagnando in questo periodo, ha proiettato su di lui grandi aspettative per il resto della stagione.
Come spesso capita però i pronostici nono sono stati rispettati. La sfortuna ha costretto fin da subito a trasformare gli sfidanti da inseguitori a inseguiti.
Solitamente la Parigi-Roubaix si accende sempre durante il passaggio sulla foresta di Arenberg, luogo simbolo della corsa e uno dei settori in pavé più difficile da affrontare. Non è il momento in cui si decide il vincitore finale, ma quello dove si intuisce chi saranno gli sconfitti, chi da quel momento in poi sarà costretto a rincorrere gli altri. Quest'anno invece la corsa si è accesa prima, e non per un settore particolare di pavé, ma solo per colpa della sfortuna.
L'episodio che ha deciso la Parigi-Roubaix di Sagan e Cancellara è avvenuto a 112 km dall'arrivo, nel settore di pavé di Monchaux sur Ecaillon. Una caduta ha spezzato in due tronconi il gruppo principale e molti corridori sono stati costretti a mettere i piedi a terra. Tra loro proprio Fabian Cancellara e Peter Sagan.
La caduta di Porsev a 112 km dall'arrivo, frazionando in due parti il gruppo, ha lasciato in avanti un drappello di sette corridori, tra cui: Tom Boonen, Boasson Hagen, Vanmarcke, Stannard e Hayman, i cinque che poi si sono giocati la vittoria finale fino agli ultimi metri di corsa.
A seguito della caduta, Fabian Cancellara e Peter Sagan sono stati costretti a inseguire ma non sono più riusciti a colmare il ritardo. Il gruppo capitanato da Tom Boonen è riuscito a mantenere le distanze, ha ripreso i battistrada, e ha impedito ai due malcapitati di rientrare in tempo.
Dopo la caduta, né Cancellara né Sagan non sono mai davvero riusciti a rientrare nel gruppo di testa. E anche se ci fossero riusciti lo sforzo dell'inseguimento, in una corsa come questa, li avrebbe resi meno competitivi negli ultimi km rispetto agli altri.
A Fabian Cancellara poi è andata anche peggio rispetto a Peter Sagan. Non è bastata la caduta di Porsev, il vero episodio che ha messo la parola fine sulla possibilità del suo rientro è stata la scivolata in cui è stato coinvolto qualche km dopo, sul tratto di Mons en Pévéle. Forse causata dal fango e dalla pioggia del giorno prima. In realtà per colpa sua anche Sagan ha rischiato di finire a terra, e solamente grazie a un numero da circo con cui ci ha abituato è riuscito a restare in piedi.
Raramente si è visto un corridore in grado di esercitare un controllo così efficace della bicicletta in situazioni di pericolo e in frazioni di tempo così brevi. Quando Cancellara è finito a terra, stando Sagan appena poco dietro, l'unica cosa che poteva fare per non essere coinvolto nella caduta era solo una: non provare a schivare lo svizzero, ma saltarlo direttamente. E ci è riuscito. Ha saltato Cancellara impennando con la ruota anteriore, riuscendo in questo modo a rimanere in sella alla sua bici.
Un gesto di una bellezza rara, che gli ha permesso di proseguire la rincorsa sulla testa del gruppo ma che non gli ha comunque impedito di rimanere attardato. Sagan infatti, pur continuando a lottare disperatamente, non è più riuscito a rientrare sul gruppo.
In ogni caso Cancellara è stato protagonista di uno dei momenti più emozionanti della gara. All'ultimo anno da professionista, le sue ultime pedalate nel velodromo di Roubaix, dove ha vinto per tre volte, hanno sancito la fine di un epoca. Tutto Il pubblico lo ha applaudito a scena aperta, un tributo emozionante che ha inaugurato il suo “farewell tour”.
Sorprese e misteri
Senza la caduta di Porsev forse la corsa sarebbe stata meno spettacolare. Il suo andamento probabilmente sarebbe stato più lento e meno aggressivo sin dall’inizio. La caduta invece ha alzato i ritmi, sconvolto i piani di gara e, soprattutto, rimescolato le gerarchie tra i corridori, facendo diventare protagonista, in modo per certi versi inaspettato, un altro eroe storico della Parigi-Roubaix: Tom Boonen. “Tornado Tom” è un vero mostro sacro del pavé, nel suo palmares riposano 10 classiche tra Gand-Wevelgem, Giri delle Fiandre e Parigi-Roubaix. Al Velodromo di Roubaix in particolare Boonen ha trionfato quattro volte e quest’anno è andato vicino a diventare il primo, in oltre cento anni di storia, a vincerne cinque. A 36 anni.
L'attacco alla Parigi-Roubaix del 2012, anno della sua tripletta nelle classiche del pavé.
Rispetto a Fabian Cancellara e Peter Sagan, in pochi lo davano come vero favorito, nonostante il suo curriculum. Prima della gara aveva dichiarato, in modo spicciolo: «Per vincere la Parigi-Roubaix non serve un piano, servono le palle». E anche per quanto riguarda il percorso aveva semplificato: «Il pavé è sempre quello. L’importante è regolare bene la pressione dei pneumatici».
Sin dall’inizio Boonen ha adottato una tattica aggressiva, senza compromessi, esprimendo un grande desiderio di correre da protagonista assoluto. Non si è risparmiato in nessun frangente, andando a chiudere in prima persona tutti gli attacchi degli avversari, e nonostante questa generosità è riuscito a conservare le forze per arrivare a giocarsi la vittoria finale.
Dopo la già citata caduta un gruppo di corridori è rimasto più o meno compatto per diversi km, fino a che non si è assottigliato a cinque protagonisti: Vanmarcke, Hayman, Boonen, Stannard e Boasson Hagen. Solo sull'ultimo settore di pavé, sul Carrefour de l'Arbre, Vanmarcke ha deciso di provare quella che aveva i contorni della classica azione ammazzagara, in grado di arrivare fino in fondo e fare la differenza. Ma è stata solo una breve illusione, perché gli altri quattro sono riusciti a rientrare per tempo. Da quel momento in poi piccoli scatti a turno, brevi attacchi per sondare la resistenza altrui. In questi frangenti Hayman è stato quello più guardingo, riuscendo forse per questo motivo a conservare più energie rispetto agli altri.
È stato proprio lui infatti ad attaccare all'ultimo km, scattando in faccia a uno splendido Tom Boonen, riuscito incredibilmente a tornare sulla sua ruota. Ma evidentemente per Hayman quegli ultimi mille metri valevano più di una vita. Nonostante l'attacco, quando Stannard ha lanciato la volata finale, Hayman è partito come un razzo ed è riuscito a mettere la sua ruota davanti a tutti, superando per pochi centimetri anche quella di Boonen.
L’ultimo minuto e mezzo della gara.
Hayman, un corridore che ha corso per sedici volte la Parigi-Roubaix, che praticamente non ha mai vinto niente di importante, ha battuto, a 37 anni, la leggenda Tom Boonen. La sua vittoria alla Parigi-Roubaix è una di quelle cose che rendono il ciclismo uno sport difficile da capire. Forse è stato sottovalutato dai suoi avversari, forse si è risparmiato più degli altri conservando quelle poche energie che gli hanno permesso di esprimere la volata finale. Forse ha tratto vantaggio anche dalla strategia troppo spregiudicata di Boonen.
Con il senno di poi forse potremmo dire che “Tornado Tom” ha corso un po' troppo da protagonista. Forse, se avesse infatti evitato di inseguire gli altri in prima persona, e se fosse stato più astuto a fare quello che in gergo si chiama succhiaruote - cioè risparmiare energia mantenendo la scia del corridore in testa - probabilmente avrebbe avuto quel tantino di forza in più per mettere la sua ruota davanti a quella di Hayman. È discutibile anche il fatto che Boonen abbia preferito fare una volata in rimonta, anziché in testa come ha fatto Hayman. Ma quando a fine carriera, dopo 250 km, sei ancora davanti con la forza di inseguire gli altri c'è poco da commentare.
In ogni caso, nonostante tutte queste ragioni, la vittoria di Hayman non è razionalizzabile fino in fondo. Forse non sarebbe neanche giusto farlo, e accettarla come una specie di mistero irrisolto, un buco nero della razionalità. La sua espressione trasognata una volta sceso dalla bicicletta, del resto, va oltre ogni possibile considerazione.