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La ballata di Donovan Mitchell e Jamal Murray
02 set 2020
Le stelle di Jazz e Nuggets ci hanno regalato una serie da tramandare ai posteri.
(articolo)
12 min
(copertina)
Foto di Garrett Ellwood/NBAE via Getty Images
(copertina) Foto di Garrett Ellwood/NBAE via Getty Images
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Quando Mike Conley, col cronometro che scivolava verso il doppio zero, si è alzato in volo da oltre otto metri nella speranza del miracolo, scagliando una tripla sbilenca e talmente rapida che appariva in aria come un arcobaleno dopo un temporale estivo, la mente di ogni tifoso NBA non può non essere tornata alla gara-7 tra Toronto e Philadelphia degli scorsi playoff, ai quattro rimbalzi sul ferro di Kawhi Leonard. Stavolta invece i rimbalzi sono stati appena due e la palla è uscita, costringendo le braccia protese di Donovan Mitchell alla più crudele delle forze newtoniane.

https://twitter.com/BenGolliver/status/1300990809312026624?s=20

Gli ultimi incredibili secondi di una serie incredibile.

Denver Nuggets e Utah Jazz ci hanno regalato la più divertente e spettacolare delle serie di playoff viste fin qui a Orlando – e probabilmente una delle più pazze di sempre – e lo hanno fatto nutrendosi della linfa vitale delle clamorose prestazioni di Jamal Murray e Donovan Mitchell. I loro numeri – come molti altri di questa serie – non hanno senso: il vittorioso Murray ha chiuso la contesa con 31.6 punti, 5.6 rimbalzi e 6.3 assist tirando col 55% dal campo, il 53% da tre (!) su oltre nove triple di media a sera (!!) e oltre il 90% ai liberi. E questo nonostante le cattive percentuali di gara-7, che poi non sono altro che un regalo dell’amico-duellante Mitchell – 36.3 punti, 5 rimbalzi e 5 assist con 53/52/95 al tiro (!!!) – che per 43 minuti si è ammazzato di fatica pur di abbassare l’incandescenza offensiva del canadese.

Il terreno di scontro non ha fatto in tempo a raffreddarsi che è già pronto per essere inserito nella storia del gioco. Che duello. Due ragazzi capaci di alternare arresti che esplodono nell’aria l’odore degli ottani a frenate liquide, derapate sul parquet di Disney World come fossero fuoriserie di Fast & Furious; di cannoneggiare rifiutando blocchi e un pizzico di realtà, coltivando tabellini talmente abbondanti da sembrare quasi ridicoli. Colpo su colpo fin dalla prima contesa, nella quale Mitchell ha segnato 57 punti diventando il terzo marcatore in una gara singola della storia dei playoff e Murray rispondeva con un quarto periodo e un supplementare da antologia dell’uno-contro-uno.

Due triple che hanno salvato la serie dei Nuggets, che qualora avessero perso quella gara-1 probabilmente oggi sarebbero già tornati in Colorado. Soprattutto la prima, dopo l’ingenua e per certi versi clamorosa infrazione di 8 secondi dei Jazz, una delle grandi sliding doors di tutta la serie.

La storica battaglia di Don e Jamal

Il numero di primati stabiliti dai due ragazzi nel corso della serie è impressionante. Mitchell è diventato il primo da Michael Jordan a segnare oltre 250 punti in una serie di playoff, l’unico a realizzare 33 triple, il primo in assoluto a chiudere una sfida playoff con almeno 35 punti di media andando oltre il 50% dal campo e da tre e il 90% ai liberi. Dall’altra parte Murray ha collezionato almeno 40 punti, 5 rimbalzi e 5 assist in tre partite consecutive di playoff come solo Air Mike prima di lui, ritoccando la storia con prestazioni consecutive con oltre il 70% di percentuale reale che, oltre ad essere assurdamente efficienti, sono state fondamentali per permettere ai Nuggets di superare la loro consueta nevrastenia da post-season – che sembra obbligarli a giocare sette partite ogni volta – e riemergere da un baratro ben più grosso del già enorme svantaggio nel punteggio.

Soltanto undici squadre erano riuscite a recuperare uno svantaggio di 1-3 ma nessuna di esse possedeva la peggior difesa (per distacco) delle sedici rimaste in gara – nonché la peggiore in stagione dopo l’All-Star Game. Nelle prime quattro partite i Jazz si erano dimostrati più pronti, lucidi, disciplinati e, a dirla tutta, superiori. Avevano fatto abboccare gli avversari a ogni sorta di trucco o depistaggio sul lato debole, sparigliato le carte su ogni pick and roll andando a punire con mano pesante ogni soluzione conservativa della difesa di Denver. La panchina di Utah aveva sovrastato quella avversaria con tale veemenza (Net Rating dopo le prime quattro partite: Juwan Morgan +33, Georges Niang +27, Tony Bradley +22) da rendere quasi ingiusto avere anche Donovan Mitchell.

Tutto troppo facile per Utah nelle prime quattro partite.

La capacità di Mitchell di arrivare al ferro con la solerzia dei grandi disinnescatori di mine, sempre attento a capire quando rifiutare un blocco e quando spezzare un raddoppio, immaginando i migliori punti di appoggio per i suoi esplosivi balzi in estensione, aveva piegato una difesa perimetrale imbarazzante e incapace di tenerne il passo, specie con Monte Morris e Paul Millsap – i peggiori dei Nuggets nel corso di tutta la serie.

Segnando 1.28 punti per ogni possesso giocato da portatore di palla sul pick and roll, Mitchell è riuscito a costruirsi un’altra partita da oltre 50 punti in gara-4, la stessa nella quale i Denver Nuggets sembravano definitivamente battuti e Jamal Murray iniziava un’ascesa che avrebbe cambiato tutto.

In gara-5 e gara-6 il canadese ha cambiato totalmente l’inerzia della serie e lo ha fatto dimostrando una continuità che finora si era solamente intuita. Oltre a vedere una vasca da bagno al posto del canestro e godere di una fiducia illimitata – anche se forse sarebbe meglio dire ispirazione –, Murray ha fatto a pezzi una difesa di Utah che è stata brava a togliere il ferro agli avversari (soltanto i Magic hanno segnato meno nel pitturato dei Nuggets in questo primo turno) ma che, al tempo stesso, non è mai riuscita ad aggiustarsi sul perimetro. Il pesante fuoco di sbarramento profuso da Murray e Jokic dalla zona centrale del campo ha costretto Gobert a dover sostare in porzioni di campo a lui scomode, mettendo il coaching staff dei Jazz davanti a una scelta: restare col francese e scommettere sulle sue doti difensive oppure cambiare con un giocatore più piccolo nel tentativo di tenere il passo in uno-contro-uno.

Il risultato è stato un ibrido tra i due e non ci sarebbe bisogno di sottolineare che non ha funzionato. Murray ha fatto a pezzi ogni difensore che non si chiamasse Mitchell in versione gara-7: lo stesso Royce O’Neale, che ha fatto il massimo, si è visto incenerito più volte dal frenetico movimento di gambe del canadese, nell’ennesima dimostrazione che grande attacco batte grande difesa sette giorni alla settimana.

Tre triple una più incredibile dell’altra per chiudere gara-6 e rimettere la serie in parità.

Mitchell e Murray sono stati come il carbone e il diamante, necessari e bellissimi, uno strappo di futuro riversato in un tempo presente che ogni giorno che passa sembra avere un disperato bisogno di essere ispirato e tranquillizzato. Prestazioni da 50 punti condite da numeri da PlayStation in campo e interviste emozionate ed emozionanti fuori dal campo, volti eccezionali di un movimento che li ha visti protagonisti di un evento storico come quello dello sciopero della scorsa settimana. Un evento che ha travolto la serie stessa, mettendola in pausa e donandole – come se fosse stato necessario – una velatura ancora più memorabile.

Essendosi disputata a Disney World verrebbe spontaneo dire che la loro sfida è stata una favola senza tempo, patinata come i nuovi lavori in ultra-definizione e rigorosa come un VHS anni ’90. La realtà, un po’ meno idilliaca ma sempre avvincente, ci dice che Mitchell e Murray sono entrati a braccetto nella storia come i grandi agonisti-antagonisti, separati da quella linea invisibile fatta di sacrificio e rispetto, di abbracci a fine partita e feroce desiderio di sopraffarsi, di sopravvivenza, di prevalere. Inesorabili, ineluttabili, decisivi, con un gioco offensivo che trae chiaro spunto dal Metodo Harden – guardate Murray dire a Torrey Craig di non portargli un blocco ma di lasciarlo libero di creare dalla punta, proprio come il Barba – e un cuore che fa provincia. Se il presente dice Murray (e Nuggets), il futuro appartiene ad entrambi.

Una collezione di Don e Jamal che spezzano raddoppi.

Denver ha vinto la partita degli aggiustamenti

Dopo sei partite perfette per uno sparatutto futuristico, gara-7 è stata un revival degli anni ‘90. Non può essere un caso che il canestro decisivo sia stato un gancione faticoso di Nikola Jokic, alla miglior partita di una serie eccellente nei numeri (26.3 punti, 8 rimbalzi e 5.4 assist con il 51.5% dal campo e il 48% da tre) ma non altrettanto nell’impatto. Il -5.1 di Net Rating non è altro che la conseguenza di prestazioni sottotono, specie in difesa, dove il doversi allontanare da canestro resta un problema serio. Jokic ha cercato di rendersi utile sovrastando tutti in situazione di post-up (1.45 punti per possesso!) e rifinendo le intuizioni di Murray nei loro classici giochi a due.

Il coaching staff dei Nuggets ha cercato di venire incontro ai limiti dei suoi due lunghi titolari variegando la proposta difensiva il più possibile, pressando sul perimetro grazie ai contributi fondamentali di PJ Dozier in gara-5 e il rientrante Gary Harris nelle ultime due partite della serie – dove nonostante la ruggine offensiva il suo contributo nel limitare Mitchell è stato tanto importante quanto quello di dare equilibrio a un lato debole fino a quel momento inadeguato ai classici tagli degli esterni dei Jazz.

Un altro aggiustamento che ha funzionato è stato far collassare la difesa sulle penetrazioni di Mitchell costringendolo a riaprire verso O’Neale, che quando è chiamato a rimettere palla per terra perde la propria efficacia.

In una serie dove entrambe le squadre sono sembrate segnare a piacimento in ogni situazione (entrambe oltre il 43% dalla fascia centrale del campo, entrambe oltre i 1.20 punti per possesso in situazione di pick-and-roll e spot-up) Denver ha avuto il merito di dare a Murray un aiuto migliore, togliendogli un po’ di pressione nella costruzione primaria e facendolo ricevere in ritmo (quando possibile) utilizzando da bloccante sulla palla. Le ottime percentuali al tiro di Jerami Grant e Michael Porter Jr. – che si è presentato in questo modo alla sua prima post-season – hanno fatto il resto, garantendo a Murray lo spacing necessario per fare a pezzi il diretto avversario.

Utah ha martellato inesorabile l’inadeguatezza difensiva di Porter Jr. nelle prime partite della serie, esponendolo e costringendolo a leggere situazioni complesse dove spesso si ritrovava spaesato a vagare per il campo. Ma l’ex Missouri non è si scomposto e con l’avanzare delle partite ha dimostrato tutto il suo istinto naturale e la predisposizione a migliorare. Tutto a piccoli passi, ovviamente, e le lacune restano piuttosto grosse (pensare a quello che possono fare Kawhi Leonard e i Clippers di questa difesa mette i brividi) ma occorre una predisposizione speciale per correggere certi atteggiamenti in corso d’opera, specie durante una serie di playoff, e se Porter Jr. sembra essere destinato a grandi cose è probabilmente anche per questo.

Questa rotazione sembra facile ma non lo è affatto. Nei 182 minuti in cui Porter Jr. è stato in campo i Nuggets hanno sovrastato Utah di quasi 8 punti su cento possessi, un dato migliore anche di quello di Jamal Murray.

La quiete dopo la tempesta

I Nuggets sono stati eccezionali nel non arrendersi e ancora più eccezionali nel farlo senza la possibilità di contare sul proprio pubblico. Denver è forse la squadra che più di ogni altra conta sul fattore campo, sul giocare in altura, e riuscire a tenere insieme i pezzi è un’impresa che merita di essere sottolineata. La squadra di Malone ha carattere – Murray in primis – e per il secondo anno consecutivo accede al secondo turno. Per quanto gli obiettivi di una squadra piena di talento giovane come i Nuggets debbano essere sempre altissimi, riuscire a restare tra le prime quattro della Western Conference non è mai una cosa facile. Gli Houston Rockets potrebbero non riuscirci, ad esempio. I Clippers hanno dovuto rimboccarsi le maniche davanti alla grandezza di Luka Doncic e dei Mavericks. L’anno prossimo torneranno i Golden State Warriors, cresceranno i Phoenix Suns e i Memphis Grizzlies, arriverà il momento di Zion a New Orleans. Sulla costa dell’Oregon è sempre Dame Time.

Restare competitivi è già di per sé un traguardo e Denver, nel dimostrarsi all’altezza del compito, potrebbe trovare una linfa per affrontare un turno che sulla carta appare davvero proibitivo. Ma nella bolla di Orlando può succedere di tutto: se la franchigia aveva bisogno di una risposta su chi sarà in grado di affiancare Nikola Jokic verso il successo, la serie di Murray dovrebbe far ben sperare.

https://twitter.com/SportsCenter/status/1301010566497161217?s=20

La faccia quando gli dicono che tra 48 ore si torna in campo fa sperare un po’ meno.

Un discorso analogo si potrebbe fare per gli Utah Jazz, che come ogni anno arrivano ai playoff con grande entusiasmo e, come ogni anno, finiscono per uscire al primo turno con una smorfia sul volto. L’attuale squilibrio tra le due conference non è una colpa dei Jazz, ma sicuramente qualche domanda viene spontaneo porsela. Mike Conley ha probabilmente giocato le sue migliori sei partite in maglia Jazz proprio durante questa serie. I 19.8 punti (conditi da oltre 6 assist a sera) sono la sue seconda miglior performance in post-season in carriera e rendono giustizia alle chirurgiche prestazioni balistiche mostrate prima dell’ultima notte. Un rimbalzo fortunato sul ferro arancione e le copertine di questa serie sarebbe state sue.

Bojan Bogdanovic è l’unico giocatore ad aver segnato due buzzer-beater decisivi in stagione. Ouch. Il suo infortunio aveva ridimensionato le aspettative dei Jazz già da prima di entrare nella bolla, ma l’amaro in bocca è destinato a restare. Le sue doti di creazione dal palleggio e la gravità che è in grado di esercitare soltanto con la sua presenza sul perimetro sono mancate terribilmente alla squadra di coach Snyder; e ciò che è peggio è che per la prima volta in stagione Utah sembrava aver trovato il modo di far coesistere Mitchell, Conley e Joe Ingles. Nei 400 minuti trascorsi in campo insieme in regular season il trio aveva un differenziale negativo di quasi due punti, che è diventato invece un sonoro +11.3 nei 99 minuti di questa serie.

Il futuro dei Jazz passa soprattutto dalla capacità di replicare questi numeri. A meno ovviamente di cambiamenti nel roster, che appaiono difficili ma non impossibili. Utah avrebbe bisogno di un altro esterno capace di creazione, magari fisicamente strutturato di modo da poter dare il campo a Gobert nei momenti opportuni fornendo a Snyder quella flessibilità tattica che il francese – nel bene e nel male – non sarà mai in grado di aggiungere.

I Nuggets torneranno in campo nella notte tra giovedì e venerdì e per la prima volta in due anni di playoff si troveranno davanti una seria contender alla vittoria finale. E se la bellissima crudeltà dello sport ha voluto che l’avventura di Donovan Mitchell finisse stanotte, la possibilità di vedere cosa saranno in grado di fare Murray e Jokic contro i Clippers è un compromesso che possiamo accettare col cuore leggero. Sarà interessante capire quanto manca a Denver per raggiungere la vera élite della lega e se per riuscirci serviranno di nuovo altre sette partite, tanto meglio. Se questa stagione, questo 2020, dev’essere totalmente senza senso, quantomeno divertiamoci.

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