Ecco un fatto: di solito preferiamo i giovani. Sempre e comunque. Persino se parliamo di noi stessi preferiamo pensarci giovani, o pensare a quando eravamo giovani. Nel calcio poi i giovani sono un investimento migliore, forse sono più manipolabili, hanno meno pretese, sicuramente sono più veloci, più intensi. I calciatori giovani promettono, lasciano intravedere, sono da scoprire. I calciatori giovani sono eccitanti, il loro nome sui giornali “fa presa”, anche quando magari sono dei semi-sconosciuti. Ogni cosa che li riguarda è una novità e per questo è sorprendente, ogni loro gol o bella partita è l’annuncio di qualcosa di più grande a venire, il primo boccone di un piatto buonissimo che non avete mai mangiato prima. Il problema è che nel calcio la gioventù si perde prestissimo, intorno ai 30 anni più o meno. Nei calciatori “non più giovani” è tutto visibile, se non proprio già visto. Brahim Diaz (21 anni) si stupisce che Zlatan Ibrahimovic, nonostante abbia l’età di suo padre (39), faccia “ancora” la differenza in campo, anche se è il padre di Brahim Diaz a essere giovane per avere un figlio della sua età, almeno tanto quanto Ibrahimovic non lo è per giocare a calcio ad alto livello. Se i grandi calciatori fanno qualcosa di eccezionale viene sottolineato che lo hanno fatto “nonostante” la loro età e di quelli grandi a fine carriera ci stupisce che riescano ancora a essere “sé stessi”, come se la loro identità fosse parte della loro gioventù passata. Una parte di loro è rimasta impigliata negli anni del loro prime fisico.
Ecco un altro fatto: in Serie A molti dei migliori calciatori sono “non più giovani”. Ibra, ma anche Cristiano Ronaldo, Ribery, Gomez, Ilicic, Dzeko, Mertens, Quagliarella, Leiva, Vidal (persino Immobile, Scarpa d’Oro lo scorso anno, ha già compiuto 30 anni). Ma i grandi calciatori “non più giovani” nel campionato italiano vengono considerati come una prova del declino dello stesso. Un ripiego perché non si può arrivare a Haaland o Vinicius Junior. Io stesso confesso di non aver provato entusiasmo quando la Roma ha annunciato Henrikh Mkhitaryan, per cui stravedevo ai tempi del Dortmund; né per l’arrivo di Pedro Rodriguez, nonostante avesse già vinto tutto quello che c’era da vincere sia a livello di club che con la nazionale spagnola. Sarà per i lineamenti affilati e l’aria un po’ lugubre di Mkhitaryan, da vampiro transilvano (non un vampiro glamour di Jarmusch), e quella un po’ dimessa e vecchia scuola di Pedro, con la fronte ampia e un tappetino di capelli scuri che starebbero bene in una foto in bianco e nero dell’inizio del secolo scorso, di quelle fatte ai migranti europei con la valigia e la giacca di due taglie più grande. Non ho provato neanche l’entusiasmo - per dire quanto sia irrazionale la questione – che ho provato un paio di anni prima per Justin Kluivert. Ma ho dovuto ricredermi, ovviamente, adesso che Mkhitaryan e Pedro hanno contribuito a fare della Roma di Fonseca una delle tre squadre più in forma dallo scorso giugno, quella che ha fatto più punti, dopo il Milan e alla pari dell’Atalanta, da quando si è ripreso a giocare la seconda parte della scorsa stagione.
In questo momento la Roma è terza in classifica, a pari punti con il Napoli – anzi, se un membro dello staff dirigenziale non avesse sbagliato a compilare la lista per la partita con il Verona sarebbe seconda insieme al Sassuolo. Ho tenuto fuori i loro nomi (che ormai vanno insieme tipo quelli dei cartoni animati, “Pedro & Mikhi”, o se preferite “Mikhi & Pedro”) dall’elenco dei grandi calciatori “non più giovani” del campionato ma il loro impatto è la dimostrazione che il discorso fatto sui giovani e meno giovani prima è quanto meno miope, o meglio non tiene conto di almeno due fattori importanti che entrano a far parte del fascino di un calciatore solo con il passare degli anni: la maturità e la trasformazione. E l’eccitazione che si prova a veder giocare calciatori maturi, che hanno una maggior conoscenza, consapevolezza, furbizia e capacità di adattarsi degli altri giocatori in campo, magari più forti fisicamente. Mkhitaryan e Pedro, semplicemente, sono più presenti a sé stessi, più dentro la partita dei loro compagni e, spesso, dei loro avversari.
E quale momento migliore per rendersene conto e fare ammenda di questo? Dopo che Mkhitaryan ha segnato la sua prima tripletta in carriera contro il Genoa, assistito per il terzo gol da Pedro, a cui lo stesso Mkhitaryan aveva servito l’assist del 2-0 contro la Fiorentina appena una settimana prima.
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Il gol del 3-1 al Genoa è apparentemente semplice e naturale, solo il gesto tecnico di Mkhitaryan, quella specie di mezza rovesciata con cui schiaccia la palla sul secondo palo, sembra degno di nota. La cosa veramente interessante, però, è la scelta del momento giusto per crossare di Pedro, che avrebbe una prima occasione per mettere la palla in area una manciata di secondi prima. Potrebbe crossare di sinistro, il suo piede “migliore” (anche se è quasi praticamente ambidestro), ma sceglie di aspettare e scambiare con Veretout. Costringe persino Mkhitaryan a fare il movimento in profondità e a tornare indietro, poi dopo aver controllato il passaggio di ritorno di Veretout crossa di destro. Persino Mkhitaryan sembra preso di sorpresa e forse la cosa più difficile del suo gesto consisteva proprio nel ruotare il corpo e accorciare il passo per arrivare bene sulla palla tesa.
Se ci fate caso, tra il primo momento e il secondo c’è una differenza sostanziale. Nel primo caso in area ci sono solo Mkhitaryan e Mayoral e l’abbozzo di movimento in profondità di Mikhi è coperto da Criscito, che potrebbe intercettare il cross. Nel secondo caso, invece, non solo Criscito si è spostato perché tutta la difesa del Genoa è slittata di qualche metro verso sinistra, ma soprattutto Biraschi, che è finito nella zona di Mkhitaryan, viene trascinato fuori posizione dall’inserimento di Pellegrini. A quel punto l'armeno è solo, dietro di lui c’è Ghiglione che però è impegnato da Bruno Peres (e infatti si gira a guardarlo dopo il gol, come a dire ai compagni “eh, io stavo marcando lui”). Quando Pedro legge la situazione, non ci pensa due volte e crossa da fermo, di destro.
Sono piccole cose, che però ci dicono della grandezza di questo genere di giocatori, anche perché, come ha scritto Dennis Bergkamp nella sua autobiografia, «dietro ogni passaggio c’è un pensiero». Il calcio di Mkhitaryan e Pedro è un calcio fatto di passaggi e, quindi, di pensieri; ed è in contrasto con il calcio che giocano quasi tutti gli altri giocatori di alto livello oggi, fatto di intensità, in cui i pensieri sembrano venire direttamente dai muscoli delle gambe, in cui l’intelligenza si confonde con il puro istinto. Non hanno scelta, d’altra parte, e non solo per una questione di età ma per conformazione fisica.
Entrambi sembrano leggeri, fatti d’aria. Anche se Mkhitaryan, almeno stando a quello che dice internet, si avvicina al metro e ottanta, in campo sembra più basso, forse perché tutti i calciatori in generale sono più alti e più grossi di quel che vediamo in tv o allo stadio (se non ci passano abbastanza vicino correndo, almeno, altrimenti anche solo il suono della loro corsa, simile a quella di un branco di cinghiali, ci aiuta a capire il loro peso). In ogni caso quando Mkhitaryan entra in contatto con la palla o con il corpo di un avversario per proteggere palla cambia la materia di cui è fatto il suo corpo, diventa affilato e resistente; e anche Pedro, lui sì sotto il metro e settanta, si porta dietro una carica energetica che aumenta mano a mano che si avvicina alla porta e che sembra tenere lontani gli altri giocatori.
Molto dipende dalla capacità con cui tutti e due sanno trovarsi lo spazio in cui ricevere palla e dal modo in cui la controllano. Mkhitaryan, ad esempio, non ha un ottimo primo controllo, né una grande protezione spalle alla porta, riesce però a farsi trovare orientato nel modo giusto per eludere e tenere lontana la pressione avversaria, anche se la palla non resta vicinissima al suo piede, come invece fa Pedro con la pura sensibilità. E in questo senso è merito anche del gioco posizionale di Fonseca, che porta sempre quattro o cinque giocatori in linea nella metà campo avversaria (a cui si aggiunge spesso uno dei due centrali di centrocampo del 3-4-2-1 di partenza) e che chiede ai suoi due trequartisti di muoversi negli spazi di mezzo, dove è più complicato essere marcati, la grande fluidità con cui però si muovono dipende però dalla loro intelligenza sul piano della tattica individuale.
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Alcuni esempi di “passaggi” che richiedono un “pensiero” non proprio banale.
La grande qualità che aggiungono Pedro e Mkhitaryan alla manovra offensiva della Roma si è vista un pochino in ogni partita, ma quella contro il Genoa è sembrata quasi una loro esibizione. Pedro ha iniziato chiudendo una triangolazione di tacco, dopo 7 minuti, e poco dopo sugli sviluppi di un angolo ha trovato Ibanez completamente solo sul secondo palo con un cross di sinistro (Ibanez ha controllato di petto anziché colpire di testa, e poi ha calciato fuori). Poi Mkhitaryan ha preso la traversa dal limite dell’area, dopo aver intercettato una palla respinta dalla difesa del Genoa (miracolo di Perin); subito dopo sempre Mkhitaryan ha rubato palla sulla trequarti e servito Pedro, che è arrivato al duello in area con Masiello: dallo spigolo destro dell’area piccola sarebbe potuto andare sul sinistro, invece ha preferito sterzare per ricavarsi lo spazio per il tiro con il destro, l’angolo era stretto e lui ha calciato bene, Perin ha però coperto bene il primo palo. Verso la fine del primo tempo Mkhitaryan si trova in posizione di prima punta, riceva al limite dell’area una palla che gli si alza nel controllo, ne approfitta per scavalcare la difesa e mettere davanti alla porta Borja Mayoral. Tre minuti dopo, allo scadere della prima frazione, segna di testa su calcio d’angolo, da fermo e senza marcatura, ma comunque con la prontezza per dare la giusta direzione al pallone.
E questo era solo il primo tempo. Nel secondo Mkhitaryan mette in porta prima Bruno Peres e poi Pellegrini (in questo secondo caso dopo aver saltato con un tunnel Bani a metà campo), e soprattutto segna altri due gol, il secondo dei quali aiutato da Pedro. Ma al di là delle occasioni più pericolose, da loro dipende la possibilità stessa che la Roma sviluppi le proprie azioni offensive. Entrambi vengono incontro nel mezzo spazio anche solo per una sponda, quando invece il movimento incontro lo fa la punta si trasformano nei veri attaccanti della squadra scattando in profondità. Un gioco che, ovviamente, funziona meglio quando c’è Dzeko in campo a controllare quei palloni che controlla quasi solo lui in Serie A. Se la difesa alza la palla per la punta, si fanno trovare pronti per la seconda palla; quando la difesa non trova una via centrale loro si allargano, per ricevere dall'esterno che si è abbassato e creare uno spazio in cui si possono buttare i due centrocampisti (ne beneficia soprattutto Veretout).
Questi sono i presupposti con cui la Roma crea i propri attacchi, quasi sempre verticali e rapidi. Mkhitaryan porta palla alla massima velocità con più sensibilità di quanta ne abbia quando la muove da fermo, mentre Pedro è ancora un giocatore che possiamo definire veloce, anche se non è mai stato esplosivo. La differenza poi la fa la capacità di leggere lo spazio libero e i movimenti dei compagni. Mkhitaryan in particolare è fenomenale nel vedere con la coda dell’occhio la corsa di chi gli sta al lato e servirlo sulla corsa col tempo giusto, facendo passare la palla in angoli molto stretti.
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Nelle prime due immagini (l’assist contro il Lecce, dello scorso febbraio) Mkhitaryan preferisce aspettare l’arrivo di Pellegrini da dietro e servirlo con un esterno in controtempo, tagliando fuori i due giocatori più vicini alla palla, invece di servire Dzeko con un passaggio teoricamente più semplice. Penso di poter dire che il 99,9% dei calciatori l’avrebbe passata a Dzeko e una percentuale non molto più bassa non avrebbe neanche visto Pellegrini.
La squadra di Fonseca, pur non essendo tra le migliori per passaggi nella metà campo avversaria o in area di rigore (è sotto la media del campionato nella prima statistica, e settima per passaggi in area) è la squadra che crea più xG per singolo tiro, ovvero crea le singole occasioni di tiro più di valore (seguita da Inter, Fiorentina, Juventus e Benevento). È seconda (dietro l’Inter) per xG totali prodotti su azione e seconda per xA (che misura il valore del passaggio precedente al tiro); ma è anche una delle peggiori a convertire le proprie occasioni (solo l’11,9% dei tiri prodotti diventa gol, fanno peggio solo Lazio, Verona, Crotone e Udinese). Insomma, il quadro clinico di una squadra verticale che arriva al tiro facilmente e in buone condizioni, con una buona qualità in fase di assistenza ma che può migliorare nella finalizzazione e per questo globalmente è in underperformance (13 gol a fronte di 17.5 xG).
L’influenza di Mkhitaryan e Pedro sul grande momento della Roma è evidente anche dai numeri. Se si escludono i 3 rigori realizzati da Veretout (che è anche il capocannoniere della squadra), loro due insieme hanno realizzato o assistito più o meno la metà dei gol della Roma. L’influenza di Pedro si nota soprattutto fuori dall’area di rigore, con un ruolo che nel corso della partita diventa spesso quello di playmaker (ha senso, dato che è il giocatore più tecnico in squadra) con la sua posizione che si abbassa anche fino ad aiutare la costruzione bassa prendendo il posto di uno dei due mediani che, a testimonianza del fatto che i movimenti di Pedro non sono casuali ma rientrano nei piani di Fonseca, compensa alzandosi sulla trequarti. E i 3 gol di Pedro eccedono le aspettative in termini realizzativi (3 gol da 2 xG: a parte il gol con la Fiorentina ha segnato calciando da dietro il dischetto contro il Benevento e da fuori area contro l'Udinese) e il suo unico assist, quello per Mikhi, corrisponde a quello che ha prodotto per i compagni (0.9 xA).
Questo gol è dell’estate del 2019, non esattamente una vita fa.
Gli assist invece sono da sempre il punto forte di Mkhitaryan, e infatti ne ha già realizzati 4 (su 3.3 xA totali). È il quarto giocatore del campionato ad aver prodotto più pericoli per i propri compagni su azione (0.5 xA ogni novanta minuti, praticamente un gol che si segna da solo ogni due partite) dopo Djuricic, Zaccagni e Malinovskyi (dal primo all’ultimo: 0.54, 0.54, 0.53). Nella sua migliore stagione al Dortmund, la terza, ne ha realizzati addirittura 15 (con 11 gol). Quella sua ultima stagione in Germania, la prima di Tuchel (dopo l’ultima negativa di Klopp), Mkhitaryan ricorda di essersi divertito molto in un sistema che prevedeva di fatto due difensori, tre centrocampisti e cinque attaccanti; non è un caso che stia rendendo così bene in una squadra che, pur non avendo un atteggiamento iperoffensivo e recuperando pochissimi palloni nella metà campo avversaria (anche in questo la Roma è sotto la media del campionato), attacca con molti uomini occupando tutti i corridoi verticali del campo.
Come nei suoi anni tedeschi, Mkhitaryan tende ancora a muoversi in funzione dell’area e la sua importanza si sente anche in fase realizzativa. Solo Dzeko nella Roma ha avuto a disposizione, o prodotto, più pericoli di lui (rispettivamente 0.95 e 0.81 in media ogni 90 minuti) e se si considerano solo gli xG su azione (sono quindi esclusi quelli prodotti a palla ferma) Mikhi ha il secondo miglior valore (0.7) dell’intera Serie A dopo Lukaku (1). Se pensate che la tripletta contro il Genoa possa aver influenzato questo dato vi sbagliate, i tre gol insieme arrivano a 1.2 xG (0.4 + 0.6 + 0.2), ma in queste prime partite ha totalizzato 5.4 xG, significa che in realtà aveva accumulato xG già per 4 gol senza considerare quelli con il Genoa (anche se ovviamente il passaggio da xG a gol non è così scontato e, ad esempio, Mkhitaryan ha accumulato molte occasioni di bassa pericolosità, molti tiri da fuori).
In questo aspetto, forse, si sente anche l’influenza del padre, Hamlet Mkhitaryan, morto quando Mikhi aveva sette anni e che lui si è sforzato di emulare giocando a calcio: «Se fosse ancora vivo magari avrei fatto l’avvocato o il dottore». Negli anni ‘80 il padre è stato un attaccante piccolo e veloce, premiato dalla rivista Soviet Soldier come “Knight of Attack” ma Henrikh non sente di somigliargli molto, chi li ha visti giocare entrambi gli dice che corrono nello stesso modo. Forse il senso del gol non gli è entrato nel codice genetico, ma in alcuni momenti particolari, quando ha occasioni chiare, è capace di gesti piuttosto eccezionali.
C’è una frase molto bella che ha detto Mkhitaryan, che rende l’idea del momento che sta vivendo la Roma: «When you are sad, you can’t be lucky» (dice di averlo capito nei mesi passati, adolescente, in Brasile, nell'accademia del San Paolo). Le opportunità ti capitano se sai cercarle, e se quando capitano ti fai trovare pronto. Il contesto tattico e umano della Roma di Fonseca, dove sono indiscutibilmente due dei giocatori più carismatici e responsabilizzati, è il presupposto (la felicità) che permette sia a lui che a Pedro di trovare spazi e situazioni favorevoli (la fortuna).
È difficile, specie nelle condizioni in cui si gioca a calcio in questi mesi, sapere per certo quanto durerà il momento della Roma (anche senza pensare alla possibilità che uno di loro si infortuni). Una piccola lezione, però, almeno a me l’hanno già data. Nel loro modo di giocare c’è quell’accumulo di sapere che solo dopo molti anni diventa parte del bagaglio dei calciatori migliori. Non c’è niente di istintivo né affrettato nel loro modo di giocare, ma non c’è neanche tempo perso, occasioni sprecate. Sono sempre presenti, appunto, sempre se stessi.
È come se i talenti migliori, dopo anni di lavoro, si avvicinassero sempre di più alla propria essenza e a quella del gioco del calcio, che in fin dei conti consiste nella capacità di controllare, passare e calciare il pallone in mezzo al casino organizzato di ventidue persone che corrono. Questa semplicità apparente del loro gioco, anche facendo cose complicate, è comune non solo a Mkhitaryan e Pedro ma a tutti i grandi calciatori “non più giovani” che stanno facendo così bene in Serie A. La semplicità, cioè, è un traguardo a cui arrivare, neanche raggiungibile da tutti, piuttosto che una base comune di partenza.