È la sera del 23 agosto 2019 e i Portland Timbers affrontano i Seattle Sounders in quello che si preannuncia come uno dei match più sentiti della stagione, tra due grandi rivali del calcio nordamericano. A Providence Park c’è il tutto esaurito, con oltre 25mila persone sugli spalti e la diretta televisiva su ESPN. Nessuno, però, ha voglia di cantare, e per i primi trentatré minuti entrambe le tifoserie rimangono in silenzio. Niente coreografie, né cori o battimani. Il riferimento è al 1933, anno in cui il Partito Nazionalsocialista di Adolf Hitler dichiarò illegale l’Iron Front, un’organizzazione paramilitare di ispirazione socialdemocratica contraria a ogni forma di dittatura e violazione dei diritti umani. Il suo logo era rappresentano da tre frecce rivolte in basso verso sinistra, le stesse che dal 2017 campeggiano regolarmente su bandiere e striscioni durante ogni partita casalinga dei Timbers.
È stato proprio il continuo dispiegamento di questo simbolo che ha causato una contesa tra la Major League Soccer (MLS) e gli ultras della Timbers Army, raggiungendo il culmine con la protesta, per giunta annunciata, descritta in precedenza. La questione ruotava attorno al Fan Code of Conduct, l’insieme delle norme per accedere allo stadio e le relative sanzioni che la lega pubblica sul proprio sito a marzo, a ridosso dell’inizio della stagione. Se ogni squadra può deliberare in via autonoma per quanto riguarda l’utilizzo di torce, bandiere e tamburi, sussistono delle regole generali improntate all’osservanza di un comportamento educato e rispettoso verso arbitri, tifosi e giocatori avversari. Nella versione incriminata del codice di condotta, oltre a comportamenti, gesti e linguaggi minacciosi, offensivi, razzisti, omofobi, xenofobi e sessisti, la lega aveva vietato anche l’utilizzo di qualsiasi immagine di natura politica. Via dunque le Tre Frecce dagli stadi, esattamente come accadde negli anni Trenta nella Germania nazista.
Persino lo stesso front office dei Portland Timbers aveva condiviso la scelta della MLS, attraverso una lettera inviata a maggio al 107 Independent Supporters Trust (107IST) – ente no-profit di Portland con lo scopo di promuovere e appoggiare l’attività calcistica «dalla gente comune fino al più alto livello professionale». Veniva scritto che la presenza nello stadio delle Tre Frecce aveva suscitato «parecchie lamentele» da parte di alcuni tifosi che si erano sentiti a disagio. Se per la Timbers Army il richiamo all’Iron Front costituiva solo un modo per rimarcare una forte avversione verso un regime dittatoriale e oppressivo, la MLS non ne accettava l’associazione con il collettivo antifascista internazionale Antifa, le cui proteste antifasciste erano a volte degenerate in episodi violenti.
Il 27 agosto, pochi giorni dopo la partita, il 107IST ha incontrato il front office del club per affrontare la questione, rilasciando poi un comunicato nel quale si spiegava che «la discussione è stata produttiva e andrà avanti» e si rimarcava la richiesta di togliere il divieto di esposizione delle Tre Frecce su bandiere e striscioni, cancellare la parola politico dal codice di condotta e consultare un team di esperti di diritti umani che ne redigesse una nuova versione.
La Timbers Army ha proseguito la sua crociata anche nella partita successiva contro i Real Salt Lake, portando la MLS a estromettere un numero non specificato di tifosi da Providence Park per tre giornate. Il provvedimento è stato il culmine della diatriba tra i due attori, in un climax di azioni e comunicati da entrambe le parti che ha portato di nuovo il 107IST a scrivere di «opporsi alla decisione» e di «non essere d’accordo con la posizione della lega».
Secondo la rivista bisettimanale Portland Mercury, il punto non riguardava tanto stabilire se le Tre Frecce fossero un simbolo politico o meno. Aveva piuttosto a che fare con il pericoloso cortocircuito innescato dalla sua messa al bando: prendere una posizione contraria a un logo che promuove l’antifascismo, l’inclusione sociale e i diritti umani non solo era sbagliato, ma significava esportare anche un messaggio pericoloso. La MLS è stata criticata per la propria ipocrisia e arbitrarietà nel decidere cosa fosse politico e cosa no. Si parla di una lega che ha prodotto insieme ad Adidas delle divise mimetiche in onore delle forze armate utilizzate dai giocatori durante il riscaldamento, che ha dato sostegno a un’iniziativa della comunità LGBTQ e che da anni è ambassador di una campagna, intitolata Don’t Cross The Line, contro razzismo e omofobia. All’inizio di agosto, pochi giorni dopo le sparatorie a El Paso e Dayton, il capitano dei Philadelphia Union Alejandro Bedoya aveva celebrato il gol contro il DC United prendendo un microfono a bordo campo e invitando il Congresso a fare qualcosa per fermare la violenza delle armi da fuoco. Nessuna sanzione era stata tuttavia comminata nei suoi confronti. Un tifoso che aveva esposto uno striscione dai contenuti simili al Mercedes-Benz Stadium di Atlanta era stato invece espulso, obbligato a seguire un corso di formazione online e pagare centinaia di dollari per essere riammesso allo stadio. Insomma, quello che la Timbers Army, insieme ad altri gruppi ultras, e gli osservatori contestavano era la mancata uniformità di giudizio su tutti quegli argomenti riconducibili all’accezione più ampia del termine politico.
La MLS è un’organizzazione giovane e innovatrice che si è trovata bloccata tra una cultura sportiva family-friendly, orientata al politically correct, e una invece intrinseca del calcio in cui l’espressione politica ne è parte integrante. La stessa lega ha costruito una porzione del suo successo sulla forte presenza estetica degli ultras per rendersi più appetibile e vendere meglio il prodotto calcistico oltreoceano, ma ha dovuto anche fare i conti con la loro natura irrazionale, anticonformista e poco incline ai compromessi. Questo l’ha portata ad avviare una politica di controllo e censura per rispettare quell’idea di entertainment alla base di ogni major league americana – sebbene sia l’unica ad aver implementato delle norme sulla stadium experience vincolanti per ogni società.
Quando il 19 agosto – sulla scia delle polemiche per lo sfoggio delle Tre Frecce che sarebbe poi culminata nel Friday night match contro i Seattle Sounders – il front office dei Timbers aveva inviato una lettera ai propri tifosi, aveva innanzitutto chiarito la propria avversione al fascismo («siamo sempre stati contrari e sempre lo saremo») attraverso gesti a sostegno di «inclusione, diversità e accettazione». Veniva spiegato che i tifosi potevano esibire lo stemma antifascista dell’Iron Front solo su magliette, spille e sciarpe. Farlo tramite striscioni e bandiere non era invece consentito.
Il motivo – si legge nel comunicato – riguardava il fatto che oggetti di questo tipo sono «ampiamenti visibili all’intero stadio e al pubblico televisivo e devono quindi sottostare a un set differente di linee guida». In pratica, pur rimarcando correttamente quanto le Tre Frecce fossero state più volte associate a manifestazioni violente degli Antifa, il messaggio della società lasciava trasparire la contrarietà della MLS a trasmettere quel simbolo sulle televisioni per non intaccare la bonarietà della propria immagine.
La lega rappresenta una fan base alquanto eterogenea, nei cui confronti dovrebbe assumersi la responsabilità di difendere tutte quelle identità, etnie e minoranze prese di mira da rigurgiti nazi-fascisti. Restare passivi di fronte a questa criticità, paradossalmente, vuol dire creare terreno fertile per gli oppositori dell’antifascismo. Ne sanno qualcosa i New York City FC, ostaggio da cinque anni degli ultras Battaglione 49 – protagonista più volte di risse e canti razziali durante le partite casalinghe. Tra le sue fila ci sono anche esponenti dei Proud Boys, gruppo di estrema destra aperto solo a maschi bianchi e accusato di promuovere la violenza politica. E mentre la società si prodigava a individuare ed espellere i responsabili dallo Yankee Stadium, la MLS rimarcava sia l’impossibilità di cacciare i tifosi per le loro simpatie scioviniste, sia la propria estraneità a quanto accadesse fuori dagli stadi. Evidentemente, prendere provvedimenti per debellare sin da subito l’ascesa di movimenti nazi-fascisti non rientrava nella sua lista delle priorità.
Preservare un campionato e un contesto ancora idilliaco dall’avanzata di simili estremismi che hanno da tempo attecchito nel calcio europeo è un impegno che sta particolarmente a cuore alla Timbers Army e, più in generale, all’intera Portland. La sua è una storia ultracentenaria fatta di razzismo, gentrification e tensione sociale. Con circa 650mila abitanti, la città è la più grande dello stato dell’Oregon e viene spesso dipinta come un centro progressista di hippy e hipster, femministi e vegani. Eppure, nonostante un presente apparentemente armonico, il passato di Portland rimase a lungo macchiato da ineguaglianze razziali e dal suprematismo bianco. Nel 1859, quando entrò a far parte dell’Unione, l’Oregon fu l’unico stato a vietare ai neri di vivere all’interno dei suoi confini e negli anni Venti del Novecento divenne una roccaforte del Ku Klux Klan, che all’epoca era solito organizzare dei raduni nel luogo dove oggi sorge Providence Park. Poi vennero gli anni Ottanta e la comparsa dei primi gruppi skinhead, responsabili dell’omicidio dello studente etiope Mulugeta Seraw.
Sebbene schierata a sinistra, Portland è stata ribattezzata la «città più bianca dell’America», epicentro di numerosi episodi di violenza esplosi subito dopo l’elezione di Donald Trump. Gli ultimi incidenti si sono verificati nell’agosto del 2019, in occasione di un corteo neofascista, e si sono conclusi con un bilancio di tredici arresti e sei feriti.
Il background socio-culturale della città ha rivestito una notevole influenza nel processo di politicizzazione della Timbers Army e nella sua dedizione a difesa delle Tre Frecce. Dopo il revival della protesta congiunta con i Seattle Sounders, stavolta inscenata nei primi tre minuti e trentatré secondi della sfida contro il DC United del 15 settembre, alcuni membri del direttivo hanno partecipato a un incontro a Las Vegas con esponenti della MLS e del 107IST. È stata la svolta: esposte le preoccupazioni circa l’interpretazione della parola politico nel codice di condotta, i tifosi sono stati finalmente ascoltati e la lega – al termine di un’ulteriore meeting, stavolta in conference call tenuto pochi giorni dopo – ha annunciato che avrebbe interrotto il proprio veto. Il presidente e vice commissario Mark Abbott ha specificato che «la MLS ha sospeso il divieto di esposizione del simbolo dell’Iron Front per il resto della stagione», promettendo la formazione di un gruppo di lavoro composto dai rappresentanti di lega, club e tifosi e da esperti in tema di diversità ed inclusione sociale per rivedere il codice di condotta.
La nuova versione è stata valida per la stagione 2019/20. Sarebbe dovuta partire a marzo, ma l’emergenza coronavirus ne ha posticipato l’inizio prima a maggio, poi all’inizio di giugno e infine a luglio con la formula inedita MLS is back tournament – vinta proprio dai Portland Timbers. L’attuale regolamento impedisce di «mostrare segni, simboli, immagini, usare un linguaggio o fare gesti minacciosi, offensivi, discriminatori, anche sulla base di razza, etnia, nazionalità, religione, genere, identità di genere e orientamento sessuale» e di «esporre segni, simboli o immagini a fini commerciali o elettorali a favore o contro qualsiasi candidato, partito politico, questione legislativa o azione del governo». Finalmente veniva chiarito il significato dell’aggettivo politico, stavolta non più inteso in senso lato ma circoscritto entro precisi termini di riferimento che ne escludevano l’associazione con le Tre Frecce e di conseguenza l’Iron Front. La richiesta del 107IST e dalla Timbers Army era stata accolta. Erano passati sei mesi da quella clamorosa protesta in mondovisione.