I fighter italiani di alto livello che attualmente vivono e si allenano negli Stati Uniti sono due: Marvin Vettori e Mara Romero Borella. I risultati sono contrastanti: Vettori, che ha iniziato a frequentare la California nel 2015, ha chiuso l’anno come quinto al mondo tra i pesi Medi UFC; nella stessa promotion, invece, Borella ha perso gli ultimi 4 incontri disputati, finendo per essere tagliata dall'organizzazione. In Italia si è spesso dibattuto sulla necessità, o meno, di emigrare per avere una reale speranza di carriera nelle MMA, prendendo come esempio Vettori e i suoi successi.
Effettivamente nel 2020 il bilancio dei risultati degli atleti italiani, o stranieri che si allenano nel nostro Paese, quando combattono all’estero è severo: 12 vittorie e 20 sconfitte. Solo per citare le promotion più importanti, in UFC ha vinto solamente Marvin Vettori, in due occasioni, mentre Borella e Alessio Di Chirico hanno rimediato 4 sconfitte in totale (Di Chirico si è rifatto a inizio 2021, con una vittoria fondamentale per la sua permanenza in UFC); in Bellator invece hanno combattuto 9 fighter italiani, di cui solo Chiara Penco e Daniele Scatizzi sono riusciti a uscire vincitori dall’ottagono.
È anche vero, però, che una certa alternanza di risultati è parte di uno sport imprevedibile come le MMA, in cui oltretutto si combatte non più di un paio di volte all'anno. Ad esempio, il 2018 era stato un anno d’oro per le arti marziali miste del nostro Paese e l'UFC aveva addirittura visitato Roma per girare un episodio della serie Connected con protagonista il team Gloria Fight Center in cui si alleva Di Chirico.
Il 2021 è iniziato con la già citata vittoria di Di Chirico, tanto spettacolare quanto importante, arrivata contro un avversario più quotato e considerato, prima dell’incontro, un possibile astro nascente in UFC. Interpellato sulla scelta di allenarsi in Italia nei giorni precedenti alla sfida, Di Chirico aveva risposto: «Muhammad Ali diceva: “I campioni non si fanno nelle palestre, […] si fanno con qualcosa che hanno nel loro profondo: un desiderio, un sogno, una visione”. La più grande motivazione per me è che un ragazzo veda il mio percorso e pensi: Allora posso farcela anch’io, dall’Italia, da Roma, ad allenarmi per poter arrivare ad altissimi livelli in questo sport».
Secondo la sua visione non è necessario «spendere migliaia di euro per andare in team che badano solo al business e che ti buttano nella mischia senza tutelarti […] Accolgo i consigli e i suggerimenti, le critiche di chi sostiene che io debba emigrare, ma voglio rispondere: dimostrerò che vi sbagliate». Lo stesso Di Chirico, però, ha riconosciuto, dopo la vittoria che «[Nelle MMA italiane] non era tutto da buttare prima e non è tutto perfetto oggi. Sappiamo dove migliorare».
Insomma, c'è ambivalenza. Alcuni tra gli appassionati e gli addetti ai lavori sostengono che i pessimi risultati del 2020 rappresentino uno smacco, forse definitivo, per il movimento italiano, arrivato sì sul palcoscenico internazionale ma troppo acerbo per fare un definitivo salto di qualità; altri gioiscono per la crescita del numero di atleti italiani presenti nelle gabbie di tutto il mondo, cosa che fino a pochi anni fa rappresentava una pura utopia, e sono convinti che i risultati arriveranno con la perseveranza. La questione è molto più complessa di quello che appare e per discuterne a fondo, considerando tutti gli aspetti coinvolti, ho interpellato alcuni protagonisti delle MMA italiane.
Alessio Sakara, fighter, coach e imprenditore: «In Italia c’è un problema culturale»
Credits: Warrior of Creativity/Maurizio Pavone
Alessio Sakara, pioniere delle arti marziali miste e personaggio mainstream in Italia (nel senso che ha parlato di MMA persino in TV), oggi a 39 anni combatte in Bellator e ha un passato in UFC, e dall'alto della sua esperienza racconta: «Mentre in Italia i ragazzini, sia fuori che dentro scuola, giocano a calcio, in America sin dal college, ma anche prima, praticano wrestling e lotta olimpica. Ne consegue che le palestre di MMA statunitensi possono contare su un gran numero di atleti, e per un fighter professionista significa poter usufruire di tanti sparring partner che combattono in top promotion».
«Gli stessi coach spesso sono ex campioni di questo sport, o comunque l’hanno praticato ad altissimo livello, con il bagaglio tecnico che ne deriva. In Italia invece i combattenti si allenano con atleti dilettanti o che neanche combattono. I nostri fighter non hanno quella predisposizione e preparazione propria di americani, inglesi, russi, perché non hanno avuto gli strumenti e i mezzi per svilupparla. Da piccoli gli hanno dato un pallone per giocare a calcio, non le scarpette da wrestling».
«Ripeto spesso che l’unico atleta italiano che può davvero ambire a qualcosa di importante è Vettori, perché si allena in pianta stabile all’estero», prosegue. «È vero che ci sono tanti fighter, anche campioni in UFC, che hanno raggiunto traguardi notevoli allenandosi nei loro Paesi d’origine senza spostarsi negli Stati Uniti. Ma salvo rare eccezioni stiamo parlando di Nazioni quali Australia, Irlanda, Olanda, Inghilterra, Thailandia, eccetera. Tutte realtà dove esiste una forte cultura e tradizione legata agli sport da combattimento. Tra questi non c’è nessuno che si allena, per esempio, in Spagna, e non è un caso. Le eccellenze fuori dagli Stati Uniti esistono eccome, ma in Paesi con un’impronta culturale ispirata al fighting».
Sakara è convinto: «Io stesso ho una palestra a Roma, ma non ho mai pensato di far crescere i miei atleti in Italia. Anzi, gli ripeto sempre: “Appena avete un’occasione, andatevene”. Qualsiasi coach italiano dovrebbe fare così, cercare di trasmettere ottimi fondamentali al fighter per poi fargli spiccare il volo lontano dall’Italia. Qui da noi ci sono troppi limiti, non siamo ancora pronti. Se non ci saranno cambiamenti culturali alla base del sistema, non raggiungeremo mai le realtà straniere, così solide nelle MMA».
Sakara conclude: «Credo che tanti miei colleghi preferiscono restare nella propria zona di comfort, senza mettersi in gioco fino in fondo. Penso ai giovani: oggi, anche se hai pochi soldi, ci si può organizzare in tanti modi per poter viaggiare, da prenotare un volo in anticipo fino ad utilizzare i social per contattare altri ragazzi con cui condividere un affitto. La verità è che il nostro DNA è differente da quello di altre culture. Il ragazzo italiano medio è molto accudito e coccolato dalle famiglie, fa fatica a separarsene. La motivazione, la fame, il coraggio, la convinzione di lottare per quello in cui si crede, questo fa la differenza. Io, vent’anni fa, mi sono venduto l’unica cosa che avevo, la moto, per potermi trasferire in Brasile e così allenarmi con i migliori. Se vuoi rincorrere un sogno, devi essere pronto ad andarlo a prendere dall’altra parte del mondo».
Lorenzo Borgomeo, coach ed ex fighter: «Nelle MMA l’aspetto umano supera quello tecnico»
Coach Borgomeo ai colpitori con Carlo Pedersoli Jr, fighter Bellator MMA. Credits: Federico Floresta
Lorenzo Borgomeo, Head Coach dell’Aurora MMA di Roma, offre un altro punto di vista sul tema: «Ho vissuto 7 anni in America quando ero un atleta professionista di MMA e ho raccolto risultati mediocri perché non ero un talento. Trasferirsi stabilmente negli Stati Uniti è complicato e costoso, prima di tutto a livello dei requisiti e documenti richiesti, e poi per tanti altri fattori».
Borgomeo è pragmatico: «Poche chiacchiere, bisogna passare dalla teoria alla pratica: su un piano ideale è ovvio che sarebbe auspicabile per un atleta trasferirsi in pianta stabile all’estero, non tanto per il livello tecnico, ma perché ci sono più occasioni e opportunità. Poi però occorre considerare i fatti, la situazione concreta: come mai su tutti i fighter professionisti che ci sono in Italia, solo in due attualmente vivono e si allenano negli Stati Uniti, peraltro con risultati opposti?».
«Stabilirsi in un altro Paese è una scelta di vita. Implica non avere responsabilità e legami familiari, oltre ad una disponibilità economica notevole. Inoltre un qualsiasi fighter di MMA che arriva dal nulla in un nuovo team impiega circa un anno per farsi accettare. Con la differenza che negli Stati Uniti hanno il quadruplo degli atleti, quindi per farti notare devi spiccare, essere veramente valido. Altrimenti, lo dico per esperienza personale, sei l’ultima ruota del carro. Ogni situazione ha un rovescio della medaglia».
«Per quanto riguarda il movimento delle MMA italiane, non siamo mai stati così presenti a livello internazionale come adesso. Esiste un’ottima via di mezzo tra allenarsi con l’amico sotto casa e andare negli Stati Uniti: ovvero appoggiarsi ad un team italiano che faccia da regia alla carriera del fighter, organizzandogli camp di qualche settimana all’estero, facendolo viaggiare per i team migliori della penisola, ospitando atleti da altre nazioni in modo da farlo confrontare con i migliori. In questo modo l’atleta non deve compiere una scelta di vita drastica ed è tutelato e gestito da un gruppo di persone che badano anche all’aspetto umano, che gli vogliono bene davvero».
«Un'organizzazione di questo tipo sono convinto colmi il gap tra l’esperienza tanto tecnica quanto personale che si può vivere fuori dall’Italia. Anche perché qualunque combattente sente il bisogno di crearsi intorno un gruppo di persone fidate che lo sostengano. Le MMA sono una disciplina al 70% psicologica ed emotiva. Credo che uno staff di persone che abbiano a cuore la tua causa sia utile quanto una squadra di coach tecnicamente validi. Insomma, in America puoi avere più chance, ma sei solo un numero e così vieni trattato».
Borgomeo riassume in questi termini il suo pensiero: «Non raggiungeremo mai l’America come impostazione culturale e sviluppo del movimento nelle MMA, però c’è ancora tanto spazio per crescere e migliorare, con l’obiettivo di diventare un’altra tra le realtà europee che riescono a competere con i loro atleti in UFC senza doverli allontanare. In futuro vedremo un campione italiano in UFC totalmente Made in Italy, ne sono convinto. Ci vorrà tempo, ma succederà».
Matteo Capodaglio, performance nutritionist di Vettori: «Negli USA più possibilità ma anche maggiore competizione, la chiave è la costanza»
Matteo Capodaglio con Marvin Vettori, fighter UFC al quinto posto nel ranking mondiale dei Pesi medi. (Foto di Matteo Capodaglio)
Matteo Capodaglio è il performance nutritionist di Marvin Vettori e altri fighter UFC, tra cui l’ex campione Colby Convington. Vive a Los Angeles da diversi anni, dove ha fondato una sua società, la CAPONUTRITION. «Sostenere che l’America sia sinonimo di successo assicurato per un fighter è un mito che si è creato oltreoceano. Oggi gli USA sono quel posto dove l’eccellenza è premiata, ma al contempo c’è estrema competizione. Qui si dice “go big or go home”, tradotto: o si fanno le cose in grande, o si va a casa. Gli USA sono sinonimo di opportunità, non di successo. Sta all’individuo agire in modo che i propri sogni diventino realtà».
Capodaglio ricorda gli esordi in terra statunitense: «Siamo arrivati in California per la prima volta, insieme a Marvin, nel 2015. Tanti pensano che Vettori provenga da una famiglia benestante, ma la verità è un’altra. I suoi genitori sono gran lavoratori, persone semplici che sicuramente non avrebbero potuto mantenerlo con un assegno mensile negli Stati Uniti. Per i primi quattro mesi di permanenza Vettori ha dormito sul divano di un compagno di palestra, arrangiandosi».
«Ricordo bene le prime esperienze alla Kings MMA, l’attuale team di Marvin. Una palestra di campioni dove la maggior parte degli accoppiamenti che si creano durante un allenamento sarebbero match da Bellator o UFC. La pressione era notevole ma Vettori si è rivelato quello che è, ovvero un lavoratore infaticabile che non prende in considerazione neanche per un secondo la possibilità di mollare. Nonostante nelle prime sessioni di sparring, per dargli il benvenuto e soprattutto testarlo, i coach gli assegnassero come partner atleti del calibro di Wanderlei Silva e Fabricio Werdum, due pesi Massimi mentre, in quel momento storico, Marvin era un Welter».
La chiave è la costanza: «Vettori ha perseverato, sapendo non solo adattarsi ad una realtà completamente nuova, ma cogliendone davvero tutte le sfaccettature, gli stimoli utili ad integrarlo in un top team e a renderlo il fighter che è oggi. Il suo camp attualmente è composto dalla palestra di MMA con il suo Head Coach, una di jiu-jitsu a cui si fa visita un giorno a settimana, un coach di striking puro, un insegnante di lotta libera pluricampione in competizioni universitarie con cui svolge lezioni private, uno psicologo dello sport, un preparatore atletico e il performance nutritionist. Ecco cosa significa competere nelle MMA al massimo livello mondiale».
«Culturalmente è fondamentale capire che negli USA le dinamiche legate a questo sport sono quelle di un business. Essere atleti è prima di tutto un’occupazione: nella mentalità degli americani, ci sono combattenti motivati così come ci sono, per esempio, medici motivati. L’atleta di MMA non è considerato come un gladiatore o un soldato del ventunesimo secolo, come accade spesso in Europa».
«Come prerequisiti, per un fighter italiano che approda negli Stati Uniti, conoscere la lingua è una buona base di partenza, ma la generale propensione all’apprendimento è altrettanto utile. Inoltre occorre sviluppare la capacità a stare soli: soprattutto nei primi tempi, a causa del fuso orario, dalle 3 del pomeriggio il cellulare si ammutolisce perché l’Italia va a dormire e la solitudine può essere una brutta bestia, bisogna imparare a conviverci, riuscendo a creare delle routine o hobby che tengano impegnati. Infine, senza parafrasare troppo, pecunia non olet. A meno che non si possa ricorrere a contatti personali che possano fornire un alloggio, il costo della vita in California è molto più alto che in Italia, e leggermente inferiore a Londra. Un fighter in trasferta potrebbe svolgere un camp di due mesi, approssimando per difetto e senza considerare nessuna eccezione, con 8 mila dollari. In altri Stati (ad esempio in New Mexico) invece direi sia paragonabile a quello di una città come Milano. Avere qualche risparmio aiuta nei primi tempi».
«Sono convinto che, più di tutto, la differenza tra un atleta di medio e di alto livello risieda nella mentalità e nell’intelligenza» precisa ancora Capodaglio. «Per mentalità intendo la capacità di avere pazienza ed il perorare la propria causa accettando la tortuosità del percorso. Nessuno dovrebbe prendere un aereo concentrandosi su quello che si lascia alle spalle, ma piuttosto su quello che può trovare. Altrimenti diventa una battaglia persa in partenza. L’intelligenza serve per riuscire a decifrare velocemente le dinamiche dell’industria dello sport e dell’intrattenimento (qui in USA si dice “essere street smart”). Senza queste due caratteristiche non si va da nessuna parte. In aggiunta, il network di persone delle quali ci si circonda è fondamentale».
Chiude con un’osservazione: «Poi, è altrettanto vero che dedicarsi unicamente al proprio sogno, sacrificandosi per avverarlo, comporta delle conseguenze. Io stesso ho fatto molte rinunce e lavorato mesi senza neanche uscire di casa per creare da zero la mia attività. Ora ho quasi 32 anni, quando entro su Facebook vedo i miei vecchi compagni di scuola che iniziano ad avere bambini. Alcuni sono addirittura al secondo. Io invece mi prendo cura di quel cucciolotto che è Vettori, ma va bene così».
Samuele Sanna, manager: «Non è tutto oro quello che luccica»
Foto di Francesco Menichella
Samuele Sanna, titolare insieme al socio Luca Messina di Calibian Management, racconta la sua esperienza come manager: «Gli atleti che rappresento mantengono una forte connessione con le loro origini sportive, sono legati a livello affettivo con il maestro che li ha cresciuti, per cui lo vorranno sempre al loro fianco in qualsiasi incontro. Psicologicamente è un elemento fondamentale, e sono convinto che anche a livello tecnico questo sodalizio funzioni. Quando firmiamo per un match importante, consiglio sempre al fighter coinvolto, d’accordo con il suo coach, di suddividere la preparazione in tre fasi: un primo momento in cui si allena presso il suo team, quindi in Italia, poi un periodo all’estero, finalizzato soprattutto agli sparring, perché da noi manca il materiale umano, e infine il rientro a casa, per limare gli ultimi dettagli ed evitare infortuni. Il confronto con una realtà esterna serve a far crescere un combattente, affinché si confronti con colleghi di livello più alto, in grado di metterlo in estrema difficoltà e quindi di insegnargli nuove competenze».
«Il vero gap con l’America risiede nei numeri, la loro cultura produce molti più atleti, ma attenzione: non è tutto oro quello che luccica», continua Sanna. «Ci sono diversi team il cui nome e notorietà non corrisponde al valore reale. E inoltre un combattente italiano, o straniero in generale, che si presenta in un qualsiasi top team negli Stati Uniti deve essere introdotto da qualcuno. Altrimenti è probabile che non venga tenuto in considerazione, o peggio, finisca a fare un servizio “train & pain”, utilizzato come materiale da sparring per gli atleti considerati di punta. Allo stesso tempo non credo che in futuro potremo incoronare un campione nelle MMA formatosi solamente in Italia. Ecco perché scelgo la via di mezzo».
Mauro Cerilli, fighter: «Non potrei mai trasferirmi in America, neanche per UFC»
Foto ONE Championship
Infine ho sentito il parere di Mauro Cerilli, fighter professionista ora attivo in ONE Championship, promotion numero uno di nome e di fatto in Asia, e in precedenza campione dell'inglese Cage Warriors, arrivato a un passo dall’organizzazione più nota al mondo: «La chiamata dell’UFC è arrivata nel 2018. Non mi avrebbero inserito subito nel roster, ma mi volevano come concorrente nel loro reality show The Ultimate Fighter, che mette in palio un contratto con la promotion. Sarebbe iniziato quasi un anno dopo e avrei dovuto trasferirmi in America per un paio di mesi minimo, durante le riprese. Avevo 35 anni e tre figli, non sapevo l’inglese e per di più avevo investito ogni risparmio nella mia carriera, facendo tre lavori per badare anche agli affetti. Mia moglie a sua volta lavorava in un’impresa di pulizie condominiali, si svegliava al mattino alle cinque per essere a casa prima di pranzo in modo da poter accudire i bambini quando io dovevo andare in palestra. Non era una vita facile ma proprio per questo non sarei mai potuto partire, avevo troppe responsabilità».
Cerilli spiega: «Se fossi andato, so che avrei reso alla metà delle mie possibilità, perché non sarei stato tranquillo. Avrei vissuto con l’angoscia, preoccupato per la mia famiglia tanto lontana. Così ho deciso di firmare per ONE Championship, che comunque mi aveva fatto un’offerta economica importante, e non mi sono mai pentito di questa scelta. Oltretutto il reality della UFC sarebbe iniziato a un anno di distanza, mentre nello stesso periodo, grazie al contratto con ONE, ho combattuto due volte. E i concorrenti di solito sono atleti giovani, che si stanno costruendo una carriera, io invece ero arrivato al top in Europa, mi sembrava di fare un passo indietro accettando quella proposta. Avevo anche bisogno di guadagnare e ho ragionato da padre di famiglia».
Mettendo insieme le opinioni raccolte possiamo dire che se allenarsi in Italia in modo esclusivo, probabilmente, oggi è sufficiente per gli inizi di carriera di un fighter, poi una volta arrivato ad un certo livello quello stesso atleta deve trovare il modo per confrontarsi con il mondo esterno, per crescere e migliorarsi.
Farlo in modo continuativo trasferendosi all’estero, oppure mantenendo una base in patria, circondato dai propri affetti, dipende dalla mentalità, dal carattere e dalla disponibilità economica, oltre che dalla situazione familiare e mille altre questioni personali.
Quello che è certo, e che non bisogna dimenticare, è che l'Italia si conferma inospitale e poco predisposta a sostenere e incentivare le MMA e i suoi protagonisti sotto tanti punti di vista: culturale, mediatico, sociale, economico. Al di là della scelta di emigrare o meno, quindi, occorre rimboccarsi le maniche e continuare ad insistere, apprezzando gli sforzi che vengono fatti a questo scopo.