L’UFC sta attraversando un momento particolare e potenzialmente di svolta.
L’ex campione dei pesi gallo Henry Cejudo si è ritirato dopo una serie di colloqui con la promotion definiti “insoddisfacenti” dall’atleta stesso, che voleva ridiscutere il proprio contratto.
Jon Jones, uno dei fighter considerati tra i possibili GOAT (i migliori di sempre, cioè) ha reso vacante il titolo dei pesi massimi leggeri dichiarando di volersi prendere un periodo di pausa dopo che Dana White, il presidente dell’UFC, si è rifiutato di assecondarne le richieste economiche per salire nei massimi e affrontare Francis Ngannon.
Conor McGregor, il volto delle MMA mondiali, si è ritirato (non è la prima volta, va detto per dovere di cronaca) citando diverse incomprensioni con la promotion che lo hanno reso addirittura annoiato nei confronti di questo sport.
Persino l’astro nascente Sean O'Malley ha detto di voler già rinegoziare il suo contratto dopo l’ottima prestazione a UFC 250 e Jorge Masvidal (detentore della cintura «Baddest Motherfucker in the Game», una trovata mediatica della stessa UFC per metterne in risalto il suo carattere) si è sfogato su Twitter dicendo che White gli ha chiesto di rivedere le sue pretese finanziarie. Alla fine Masvidal ha firmato un contratto con pochissimo preavviso, per sostituire Gilbert Burns e combattere a UFC 251 (la prossima settimana) contro il campione vero e proprio Kamaru Usman, ed è verosimile che White sia venuto incontro alle sue richieste per convincerle, resta il fatto che i rapporti tra l'organizzazione e i suoi fighter migliori sono quanto meno spinosi.
Il perché, ovviamente, dipende anche dai punti di vista. Dana White si è mostrato freddo davanti a tutte le richieste ricevute, utilizzando una frase che ritorna spesso in frangenti simili: «Certo che questi ragazzi vogliono più soldi, chi non li vorrebbe?». Le sue risposte sono sempre standardizzate e provocatorie al tempo stesso, ignorano volutamente il merito per evitare di scoprire il nocciolo della questione: la ridistribuzione ingiusta dei guadagni con gli atleti.
Secondo Dana White, un fighter può restare inattivo a lungo senza perdere il proprio status, per questo invita gli atleti insoddisfatti a non combattere se non gli interessa farlo. Sostiene anche che lui bada solo a far funzionare l’organizzazione, a «mantenere il treno sui binari». La pandemia, d’altra parte, ha generato una situazione assurda e imprevedibile a cui deve far fronte in qualche modo: «Le cose stanno così, se ai fighter non va bene, possono sempre scegliere altre opzioni».
Questa è la versione di Dana White e in parte è vero che gli atleti hanno provato a sfruttare le particolari circostanze per farsi sentire: più che mai in questo momento la UFC ha bisogno di eventi forti con nomi grossi, che generino vendite di pay-per-view e di diritti televisivi. La card in cui è andato in scena Marvin Vettori lo scorso 13 giugno, ad esempio, ha avuto un main event debole a livello di seguito (al di là della qualità delle atlete, cioè, Jessica Eye e Cynthia Calvillo). In questo periodo non tutte le card UFC riescono a schierare atleti noti al pubblico più mainstream, vista la frequenza degli eventi e le distanze da coprire per molti, con molti voli internazionali ancora sospesi, che poi è stata una delle ragioni per cui Vettori è riuscito ad attirare su di sé una discreta attenzione a livello mediatico.
In questo contesto le star dell’organizzazione sono diventate ancora più consapevoli del loro valore, cogliendo l’occasione per alzare la voce sulle borse percepite, argomento da tempo dibattuto.
Chris Unger/Zuffa LLC via Getty Images
Quanto guadagnano i fighter UFC?
Le paghe che i fighter UFC ricevono per ogni incontro sono in gran parte riservate e albergano in una sorta di zona grigia sportivo-finanziaria: è vero che dopo ogni evento le Commissioni atletiche che lo hanno regolato pubblicano le cifre versate dagli atleti protagonisti, ma quanto sono veritieri quei dati?
Ci sono alcuni fattori positivi che possono aumentare il valore delle borse: gli introiti dagli sponsor, la percentuale che spetta al fighter su eventuali ricavi delle pay-per-view (se prevista dagli accordi) e infine i bonus per le migliori performance e finalizzazioni della serata. Questi premi monetari possono incrementare notevolmente la paga base prevista dal contratto, che in UFC parte da 10mila dollari. Dall’altra parte, però, un atleta di MMA deve far fronte ad una serie di spese considerevoli, che vanno dalla propria alimentazione fino al pagamento delle tasse. Secondo un'inchiesta del sito «The Athletic», pubblicata in più parti, che ha coinvolto 170 atleti delle maggiori promotion mondiali, svolto in forma anonima, un fighter “perde” tra una spesa e l’altra il 32% del compenso prima che la cifra venga incassata.
La maggior parte degli atleti interpellati nel sondaggio ha dichiarato che in media dal 5% al 20% (in base alle cifre ottenute, con picchi del 40%) della propria borsa spetta al management che li segue e al proprio team, quindi ai coach o alla palestra in cui si allenano. Un altro aspetto che incide molto sui costi di un atleta di alto livello è quello alimentare, soprattutto alla luce della pratica del taglio del peso che richiede la consulenza di nutrizionisti e una specifica alimentazione. Poi ci sono le spese di viaggio (che ad esempio UFC copre per l’atleta e un solo coach, anche se spesso un fighter è seguito da altri due cornermen, a cui deve provvedere di tasca propria per gli spostamenti).
Infine c’è la questione delle tasse, che i combattenti pagano sia nel Paese in cui si tiene l’incontro che nella nazione in cui risiedono. Un atleta UFC americano ha rivelato a «The Athletic» : «Ho fatto un match all’estero e mi hanno pagato 65 mila dollari. Nel Paese in cui ho combattuto ho dovuto pagare 17 mila dollari di tasse. Poi sono tornato negli USA e le ho pagate di nuovo. Alla fine mi sono rimasti 20 mila dollari». Un altro fighter ha raccontato: «Nel mio ultimo incontro ho ricevuto 20 mila dollari per il match e altri 20 mila di bonus per la vittoria. Poi Reebok [sponsor di UFC, nda] mi ha dato altri 5 mila dollari, per un totale di 45 mila. Ma prima di poter vedere questi soldi, il 37% è andato per le tasse, il 20% per il mio team e la palestra. Quindi ho perso il 57% della borsa. Poi ho dovuto fare il cambio valuta, e così ho incassato solo il 40% della cifra iniziale, 18 mila dollari».
Queste testimonianze rappresentano quasi la norma nel mondo delle MMA, in cui il 17% dei fighter che hanno partecipato alla ricerca di The Atlhetic incassa il 50% o meno della borsa ottenuta, mentre la maggior parte (31%) ne intasca tra il 70 e l’80%. Solo il 4% degli atleti interrogati dichiara di ricevere oltre il 90% della borsa. Ovviamente, più salgono le cifre e più le spese mangia-guadagni hanno un impatto relativo, ma occorre considerare che ben il 47% dei combattenti interpellati ha incassato dai 50mila dollari in giù per l’incontro meglio retribuito della loro carriera: i fighter che arrivano a compensi di oltre 100mila dollari per un singolo match rappresentano solo il 30% del totale.
Steven Ryan/Getty Images
Un campione che ha difeso più volte il titolo in un’organizzazione importante (sempre anonimo) ha sostenuto, in occasione del già citato sondaggio, di aver incassato più del 93% della sua borsa più sostanziosa, che era milionaria, grazie ad una serie di accordi con il suo team e management. Ma per ogni superstar ci sono molti, troppi atleti che rivelano di aver addirittura pagato per combattere, andando in negativo nella differenza tra ricavi e spese, oppure arrivando a veder depositato sul conto in banca un misero 10% della paga iniziale.
Secondo il New York Post, la UFC lo scorso anno ha speso circa 150 milioni di dollari per le borse degli atleti su un totale di 900 milioni di entrate, quindi il 16% dei ricavi. In altre organizzazioni sportive come la MLB e la NBA, gli stipendi degli atleti pesano tra il 48 e il 50% sulle entrate complessive.
Una differenza netta.
Sindacalizzare le MMA?
Riguardo gli sponsor, solitamente una delle voci di maggior ricavo per i fighter, il 68% degli atleti intervistati da The Athletic ha dichiarato che l’accordo tra Reebok e UFC non è vantaggioso per loro. UFC inizialmente disse che le entrate del contratto con Reebok sarebbero state interamente distribuite tra gli atleti, ma per alcuni fighter l’accordo è vantaggioso per la promotion, non per loro: «Riceviamo una fetta piccola di una grossa torta che in gran parte si mangia l’organizzazione».
Certo, gli atleti famosi ai vertici della promotion ottengono cifre considerevoli da Reebok, e ci sono anche dei combattenti che preferiscono comunque avere uno sponsor unico e imposto dall’alto piuttosto che doverselo cercare da soli. «Per me l’accordo con Reebok è vantaggioso. Non ho mai guadagnato molto dagli sponsor, quindi sapere che avrò un incasso da quel punto di vista senza dovermi impegnare a cercarlo io è positivo», ha detto un fighter a The Athletic. «Io poi ho anche combattuto per una cintura, e sono stato pagato molto bene da Reebok in quel caso. Ma ho amici che potrebbero facilmente incassare il doppio, il triplo, se avessero i loro sponsor personali».
Alla luce di tutti questi motivi, non è un caso che la maggior parte dei fighter si dica favorevole alla formazione di un sindacato per acquisire potere contrattuale nelle negoziazioni con le promotion. Le questioni “collettive” che tornerebbero sul tavolo delle trattative con le organizzazioni sarebbero molte: a cominciare, appunto, dalla possibilità per gli atleti di avere sponsor personali da mostrare durante gli incontri, fino all’istituzione di un’assicurazione sanitaria annuale e una sorta di pensione che tuteli i combattenti quando si ritirano, passando da una considerazione maggiore del parere degli atleti stessi quando si stabiliscono i protocolli antidoping. O ancora: riformare i contratti e spronare le promotion ad aumentare il tetto salariale.
Diversi esperti, tra cui l’avvocato Erik Magraken che lavora da anni con le MMA, concordano nel dire che all’interno del sindacato dei fighter dovrebbero rientrare anche i manager più influenti: la stragrande maggioranza degli atleti UFC è gestita da una decina di management, che arrivano ad avere sotto di loro oltre 100 fighter.
Ci sono però diversi problemi che ostacolano la realizzazione effettiva di un sindacato (come c’è in NBA, NFL e negli altri sport americani): le MMA sono uno sport individuale. I fighter sono in competizione tra loro e sarebbe difficile mettere d’accordo tutti; inoltre l’UFC ha attualmente sotto contratto circa 650 atleti provenienti da tutto il mondo, anche logisticamente sarebbe difficile organizzare e unire esigenze e culture molto diverse. Per di più è utopico pensare che i fighter più influenti, quindi quelli maggiormente noti e che perciò ottengono le borse migliori, vogliano spendersi per il bene comune mettendo a rischio il proprio status.
Nonostante ciò, secondo quanto appreso da The Athletic, il 24,6% dei fighter consultati vorrebbe essere rappresentato da Conor McGregor, il 17,4% da Daniel Cormier, l’11,4% da Georges St-Pierre. Ma è comprensibile che nessuno esca allo scoperto, considerando cosa è successo a Leslie Smith, tagliata da Dana White nel 2018 nonostante una striscia di due vittorie consecutive: Smith aveva parlato pubblicamente della necessità di creare un sindacato e la ragione del suo licenziamento è sembrata quella, anche se Dana White ha detto che le era semplicemente scaduto il contratto, valido per tre incontri (l’ultimo dei quali saltato a causa dell’avversaria, ma ugualmente pagato a Smith).
L’UFC potrebbe essere più equa?
Ma al di là della fattibilità di un sindacato, resta la domanda: UFC avrebbe la disponibilità economica e la solidità finanziaria per accontentare le richieste dei suoi atleti? Sembra proprio di sì.
Il New York Post riporta che UFC sta usando le proprie riserve di liquidità per pagare i propri investitori - tra cui figurano Charlize Theron, Ben Affleck e le star del tennis Serena e Venus Williams - dopo aver approvato un dividendo del valore di 300 milioni di dollari, di cui circa la metà andrà ad Endeavor, la holding di intrattenimento che nel 2016 ha acquistato il 50% della promotion versando 4 miliardi di dollari. Al Presidente Dana White dovrebbero spettare 3 milioni.
È la prima volta che UFC distribuisce questo tipo di strumento finanziario a testimonianza dell’ottimo stato di salute dell’organizzazione: un dividendo (una parte dell’utile accumulato da una società che viene consegnato ai suoi azionisti o investitori) ha natura discrezionale, e se UFC decide di pagare i dividendi significa che si sente sufficientemente solida da poterlo fare. Come accennato prima, le spese derivate dal compenso degli atleti pesano pochissimo sul totale delle entrate di UFC (il 32% in meno di altre organizzazioni sportive come la NBA che si basa sull’idea che ai giocatori spetti la fetta più grande, il 51% degli introiti). Mark Shapiro, presidente di Endeavor, giustifica questa disparità sostenendo che siano contesti diversi: «E in ogni caso paghiamo i nostri atleti molto più che altre organizzazioni di MMA. Se lo meritano. Il loro salario è aumentato proporzionalmente con il successo di UFC».
In realtà, secondo molti l’UFC approfitta proprio di questa posizione dominante nelle arti marziali miste per mantenere basse le borse degli incontri. Nel 2014 alcuni fighter ex UFC hanno fatto causa all’allora società madre della promotion (la Zuffa LLC) sostenendo che avesse abbassato il tetto salariale degli atleti forzandoli a firmare contratti esclusivi a medio-lungo termine, usando il proprio dominio sul mercato. Un giudice di Las Vegas sta decidendo se concedere lo status di class action a questo delicato caso e se ciò dovesse accadere, UFC rischia di subire un danno da un miliardo di dollari di risarcimenti.
Ma la situazione è più complessa di quel che sembra. Da una parte UFC sembra vivere un ottimo momento a livello finanziario; dall’altra però Endeavor ha fatto di recente un tentativo di essere quotata in borsa senza però riuscire a raccogliere 600 milioni come IPO, Offerta Pubblica Iniziale. Il New York Post riporta che fonti vicine a Endeavor rivelano come la holding statunitense stia usando UFC per tentare un nuovo approdo nel mercato borsistico, svuotando la promotion di risorse economiche per sostenere il resto delle proprie attività.
Anche il dividendo multimilionario di cui abbiamo parlato dovrebbe essere finanziato intaccando una percentuale alta (per alcuni fino al 90%) della liquidità dell’organizzazione: un tasso di dividendo troppo alto significa azzerare la crescita di una società. Bisogna considerare anche che il 42% di Endeavor appartiene a due fondi di private equity (KKR e Silverlake) a cui andrà parte del dividendo erogato.
Un mio contatto, con laurea magistrale in Finanza che lavora presso Generali Investiments, mi ha spiegato: «Questi soggetti acquistano società o parti di esse aspettandosi una crescita notevole nel giro di 3-5 anni. Entro quel periodo vogliono incassare, soprattutto se il cavallo su cui hanno puntato, in questo caso Endeavor, tramite cui hanno anche interessi su UFC, fallisce la quotazione in borsa. Per cui sembra a tutti gli effetti che i fondi di private equity stiano spremendo Endeavor, che a sua volta spreme UFC dato che si è dimostrata profittevole».
L’UFC ha generato un flusso di cassa da oltre 200 milioni l’anno nel portafoglio di Endeavor, una società che ha un debito di 4,6 miliardi di dollari, e in sostanza sarebbe la sua cash-cow.
Maledetto virus
Dana White non ha esitato a criticare le richieste delle star UFC tirando in ballo la pandemia da COVID 19, parlando cioè di un periodo in cui la promotion sta facendo sforzi economici ingenti per proseguire nell’attività senza licenziamenti, dicendo che l’organizzazione quest’anno perderà 100 milioni di dollari per i mancati incassi della biglietteria. Ma quanto è colpita davvero UFC nel suo modello di business dalle limitazioni imposte per l’emergenza sanitaria?
Il Wall Street Journal ha ipotizzato che dietro l’intenzione di UFC di procedere con gli eventi anche durante la pandemia ci sia il bisogno di raggiungere la quota di eventi pattuita per incassare 750 milioni di dollari dai contratti che l’organizzazione ha in essere. Una cifra che è quasi otto volte superiore alle perdite stimate dall’assenza di pubblico dal vivo. E dato che negli accordi con ESPN la promotion è impegnata a organizzare 42 eventi nel 2020 (ne mancano ancora una trentina circa) non bisogna stupirsi se si privilegerà la quantità rispetto alla qualità.
È evidente che gli incassi della biglietteria siano marginali nel modello di business della promotion: Moody’s, società americana che esegue ricerche finanziarie e analisi sulle attività d’impresa, ha stimato che nel 2019 le entrate derivate dai biglietti siano state meno del 12% di quelle totali. Nonostante la pandemia, anzi, il 2020 probabilmente potrebbe essere il terzo anno migliore da un punto di vista finanziario nella vita di UFC, dopo il 2019 (850-900 milioni di dollari di entrate) e il 2017 (750 milioni, grazie all’incontro Mayweather vs. McGregor).
Il modello di business dell’UFC si basa principalmente sui diritti media e televisivi, la vendita di pay-per-view (seppur in calo come importanza), la trasmissione dei suoi eventi su ESPN e per questo a causa della pandemia non perderà molti dei suoi introiti, dovrà giusto vedere al ribasso i forti guadagni previsti per il 2020. Viene da chiedersi allora perché Dana White stia agendo in modo così spregiudicato. Da un lato è l’unico imprenditore del settore sportivo ad essersi già adattato alle condizioni imposte dalla pandemia, con protocolli sanitari e una serie di eventi a porte chiuse già organizzati– come quelli sull’Isola Yas, una delle più grandi costruite ad Abu Dhabi - dall’altro lato, però, sembra pronto a tutto pur di non soddisfare le richieste dei suoi fighter più di successo.
Per quanto riguarda la situazione di Conor McGregor, ufficialmente ritirato per la terza volta, Dana White sembra voler prima procedere con il combattimento tra Nurmagomedov e Justin Gaethje, a settembre probabilmente, per poi far combattere il vincitore contro l’irlandese (che a quel punto potrebbe fare un rientro in pompa magna). Nonostante, come detto, la vendita dei biglietti sia così importante per il futuro dell’UFC, probabilmente Dana White non vuole spendere il nome di Conor McGregor in un evento a porte chiuse, confidando nella risoluzione dell’emergenza prima di organizzare un nuovo incontro del fighter più conosciuto del mondo.
Più in generale, pensando anche alle dispute economiche con Jones e Masvidal, sembra verosimile che UFC non voglia creare dei precedenti che aprano la strada a compensi più onerosi, aumentando quindi le risorse destinate ai salari degli atleti e generando meno ricavi (e quindi meno liquidità per pagare i dividendi).
UFC potrebbe trovarsi in un fondamentale momento di transizione, tra le pressioni dei suoi atleti più noti e i propri interessi subordinati a quelli della holding che controlla in gran parte la promotion. Con gli eventi organizzati in tempo di pandemia e Dana White intento a destreggiarsi per cercare di mantenere un delicato equilibrio. Dal modo in cui la promotion supererà questo periodo dipenderà il suo futuro e forse la sua sopravvivenza.