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Cosa ci dice il caso Ihattaren
12 nov 2021
Ihattaren, Osaka, Fish e cosa non va nel modo in cui si parla dei problemi mentali.
(articolo)
9 min
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Nel secondo minuto di recupero oltre il novantesimo gli arriva una palla al limite dell’area, sulla mattonella perfetta per mettere in mostra la straordinaria sensibilità del suo piede sinistro, calciando a giro da destra sull’incrocio più lontano. La traiettoria uncinata scavalca le mani del portiere e si infila in porta seguendo la curvatura della rete, Mohamed Ihattaren corre verso la telecamera più vicino, inseguito da alcuni compagni, si porta un dito davanti alla bocca e grida: «Nessuno può spezzarmi! Nessuno!». Ma non è un’esultanza arrogante, piuttosto molto emotiva, Ihattaren sembra avere gli occhi rossi e il sito della tv olandese Nos scrive che ha esultato «piangendo».

Era lo scorso aprile e Ihattaren ha segnato il gol del 3-0 nella partita tra PSV e Heracles, dopo essere entrato in campo a un quarto d’ora dalla fine - il suo ultimo gol in una partita ufficiale. Il suo allenatore, Roger Schmidt, a fine partita sembrava stizzito: «Non so a cosa si riferisse con quel messaggio», ha commentato. «Nessun altro giocatore ha avuto il sostegno che ha avuto lui, da me e dai compagni. Adesso sta a lui mostrare quello che vuole».

Due mesi prima, prima della partita con l’Ajax di febbraio, Ihatteren era finito fuori squadra e il PSV aveva rilasciato un comunicato ufficiale per dire che loro avevano provato ad aiutarlo e a «valorizzarlo», ma lui «non ha colto l’opportunità». Schimdt era stato ambiguo: «La porta è ancora aperta. Ma deve cambiare qualcosa». Già allora non era chiaro quale fosse il problema di (oppure con) Ihattaren. A dicembre 2020, dopo aver segnato un gol nella partita contro l’Utrecht, aveva detto che gli era tornato il sorriso: «Speriamo di aver chiuso un capitolo, voglio tornare ad essere il vecchio Mo».

L’estate prima era tornato con qualche chilo di troppo e un’intervista all’Helden Magazine aveva detto di aver passato un periodo difficile, non solo per la morte del padre, scomparso a ottobre 2019, ma anche per le offese che riceveva: «Quasi ogni giorno subisco discriminazioni, per strada, davanti a mia madre, dappertutto». Al volante della sua Audi RS6, per il cui acquisto aveva ha ricevuto altre critiche, la polizia olandese lo fermava in continuazione: «A quanto pare un ragazzo marocchino non può guidare una bella macchina».

Tra i diciassette e i diciannove anni è passato dall’essere uno dei talenti olandesi più eccitanti all’essere considerato un problema. Lo scorso settembre il PSV lo ha ceduto per meno di due milioni (senza contare i bonus) alla Juventus, che lo ha prestato subito alla Sampdoria. Il direttore tecnico del club olandese, John de Jong, ha detto che è stato meglio per tutti separarsi e che con Ihattaren erano stati «alti e bassi».

Foto Prestige / Soccrates / Getty Images.

Il 12 ottobre Mohamed Ihattaren è tornato in Olanda. Il direttore sportivo della squadra ligure, Daniele Faggiano, ha parlato di «qualcosa a livello famigliare» mentre i giornali italiani hanno dato la notizia con toni drammatici da subito. Ihattaren è «scomparso, letteralmente» e anche se «non c’è traccia» di lui, e quindi non ha potuto lasciato nessuna dichiarazione ufficiale, si parla subito di una «forte depressione» dovuta alla morte del padre e si arriva a parlare della possibilità che Ihattaren, a diciannove anni, stia pensando a dare «l’addio al calcio».

E qui ci sono due ordini problemi diversi. Il primo riguarda il solito cortocircuito mediatico per cui in Italia si citano come fonte generici “media olandesi” mentre sui media olandesi si citano, appunto, i giornali italiani. Il giornalista olandese Rick Elfrink e l’account Instagram Rising Ballers, che sostiene di essere entrato in contatto con il giocatore, hanno smentito un ritiro. Il secondo problema, forse ancora più significativo, è che nessuno, in Olanda, abbia parlato esplicitamente di depressione.

Si è giustamente preferito parlare di normale difficoltà ad accettare la morte prematura, per malattia, del padre. Nel febbraio 2020, Ihattaren ha detto di aver avuto problemi ad addormentarsi e di soffrire vedendo i genitori degli altri giocatori in tribuna. E questo è più o meno tutto quello che sappiamo direttamente delle sue difficoltà.

Quanto è difficile parlare di disturbi mentali

La seconda parte di questo pezzo parlerà invece del problema sollevato, anche se indirettamente, dal “caso Ihattaren”, emblematico del sensazionalismo dei giornali italiani (si è parlato di «strano comportamento», «lato oscuro», alludendo sempre ad atteggiamenti che dovevano cambiare e a imprecisate ricerche dello scomparso) ma anche delle difficoltà generali della nostra cultura a trattare il tema dei disturbi mentali. Anzitutto diciamo che in assenza di una dichiarazione esplicita della persona in questione, non si dovrebbe parlare di quella che è, anzitutto, una patologia medica. E invece, esattamente come nel caso di Ilicic di un anno e mezzo fa, si dà per scontato che non ci sia niente di male.

Il paternalismo di fondo, mascherato magari da un po’ di superficiale compassione, è strumentale a rimuovere la persona che potrebbe, o no, avere disturbi mentali, ma che di sicuro ha ancora facoltà di parlare. Se in questi ultimi tempi sempre più atleti che hanno sofferto di ansia e panico ne stanno parlando per far cadere un tabù ancora esistente nel mondo dello sport professionistico, parlando al loro posto si ottiene l’esatto contrario. Si ribadisce cioè l’idea che l’atleta che soffre di problemi mentali sparisce, non ha più voce, come se non facesse più parte di quel mondo.

Aspettare in silenzio senza ricamare intorno a una non-notizia sembra semplicemente impossibile. Il prurito che suscitano questi temi è paragonabile a quello dei gossip e della cronaca nera, sono temi trattati in modo simile, come delle notizie acchiappa-click (chissà se arriveremo mai a titoli come: non indovinerete mai quale giocatore della squadra X soffre di attacchi di panico). Ma è ancora più fastidioso il modo in cui vengono semplificate questioni umane così complesse: Ihatteren è tornato in Olanda e non risponde al telefono ai dirigenti della Sampdoria? Sarà perché ha perso il padre due anni fa.

La logica deterministica usata in questo caso, in realtà, è molto al passo coi tempi. Con la narrazione, cioè, che specialmente dagli Stati Uniti si sta facendo attorno ai disturbi mentali. Quando Simone Biles si è ritirata da alcune competizioni degli scorsi Giochi Olimpici di Tokyo si è parlato dei suoi «twisties» e lei stessa, a dir la verità, sembrava confondere la differenza tra un sintomo e le possibile cause dello stesso, come se il suo “problema” (che aveva descritto come «demoni» in principio) fosse puramente fisico. Come se si trattasse di un banale infortunio.

Una parte del pubblico, la maggior parte, va detto, si è complimentata con lei per il coraggio mostrato (e se si pensa al contesto di abusi psicologici e fisici del mondo della ginnastica americana non è una parola esagerata), un’altra parte di pubblico però l’ha trattata da debole, da viziata.

Sembra che ci siano due idee diverse ma contemporaneamente vere sulla depressione: da una parte se ne parla come se fosse un problema caratteriale, dall’altra come una sciagura che quando colpisce, be’, non c’è altro da fare che lasciare perdere tutto, andarsene. Come se, cioè, i disturbi mentali, a differenza praticamente di qualsiasi altra malattia, non fossero curabili.

In un video di Raquet Magazine molto interessante alcuni tennisti conversano proprio riguardo a temi del genere, più o meno guidati nel discorso da Billie Jean King, pioniera della battaglia per la parità dei sessi e dei diritti omosessuali. Insieme a lei c’erano anche Naomi Osaka, che lo scorso maggio ha abbandonato Roland Garros dopo aver denunciato le pressioni, per lei intollerabili, delle conferenze stampa, e per questo essere stata cinicamente criticata; e Mardy Fish, protagonista di uno dei documentari sportivi dell’anno (Untold: Breaking Point) in cui raccontava la crisi di panico avuta prima di un incontro con Roger Federer, agli US Open del 2012, che gli ha impedito di scendere in campo.

«Non mi era mai passato per la mente di non giocare», dice Fish nel video di Raquet. «Siamo allenati per non mostrare debolezza, paura». Osaka, invece, parlando di Parigi dice che sentiva di «non avere altra scelta». È incredibile, e in un certo senso bellissimo, che oggi si stia iniziando a denunciare il sistema cinico e competitivo dello sport professionistico. Ma la reazione di fronte a storie del genere non può limitarsi ad essere quella di Billie Jean King che, dopo la confessione di Osaka, le risponde: «Penso che tu abbia fatto la cosa giusta».

Bisognerebbe uscire dal piano personale, chiedere dei cambiamenti. Il sistema stesso, a dire il vero (i calciatori, i dirigenti e tutti i professionisti coinvolti, giornalisti compresi ovviamente), dovrebbe reagire per la propria stessa salvaguardia. Wow - dovrebbe essere il pensiero più naturale sollevato da queste storie - non oso immaginare che pressione deve esserci in quel mondo se li costringe a rinunciare a quelle partite e a quei tornei che hanno tanto faticato per arrivare a giocarsi, che si sono conquistati competendo. Quindi, come allentiamo questa pressione? Come possiamo creare un ambiente meno tossico, una competizione di alto livello che non mandi in mille pezzi talenti così rari?

Se si resta sul piano personale, si rischia di arrivare alle conclusioni sbagliate. Mardy Fish finisce il suo documentario dicendo che avrà «sempre» a che fare con «qualche tipo di disturbo mentale». In realtà, oltre al fatto che è fondamentale parlare, chiedere aiuto, che non c’è niente di cui vergognarsi o sentirsi in colpa, sarebbe importante dire anche che l’aiuto serve, che con la terapia si guarisce, si sta meglio. Certo, a volte ci vogliono anni, decenni, ma magari se Fish si fosse reso conto prima della sua ansia, e avesse iniziato a curarsi, magari quella partita con Federer l’avrebbe giocata.

Ma è anche l’idea che in fondo la persona depressa sia incurabile, e la paura tremenda che genera il pensiero che può capitare a chiunque, a non permettere che ci sia una seria riflessione al riguardo. Così diventa un circolo vizioso: anche se le storie di Biles, Osaka, Fish e persino quella di Ihattaren per quel che ne sappiamo, sono tutte storie legate al sistema di pressioni eccessive dello sport contemporaneo, al trattamento dei media e della società nei confronti degli sportivi di alto livello, finiamo per considerarli come casi unici, da compatire o criticare, a seconda dei punti di vista.

E finiamo per dimenticare che lo sport dovrebbe esserci d’ispirazione, dovrebbe aiutarci a vedere la capacità di tutti di sviluppare il proprio talento, ed esibirlo in condizioni competitive ideali. Accettare in modo acritico queste defezioni significa accettare un’idea di sport - e di società - come sopravvivenza del più forte. O del più insensibile.

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