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Emanuele Atturo

I momenti più cringe della Nazionale di Spalletti

Momenti che ci hanno fatto cringiare forte.

“Cringe” è una parola venuta fuori nell’ultimo decennio che indica una sensazione peculiare. Una specie di imbarazzo profondo, perturbante, di fronte a un proprio comportamento inadeguato. “Il momento che ci fa “cringiare” è quando usciamo dalla nostra prospettiva e all’improvviso ci vediamo attraverso gli occhi di qualcun altro”, dice la giornalista americana Melissa Dahl, che ha scritto un libro sul cringe. Il punto è renderci conto di un disallineamento, tra come noi percepiamo noi stessi e come ci percepiscono gli altri.

 

In questo caso quello che ci interessa è però quando un comportamento che ci ispira il cringe non è il nostro ma quello di qualcun altro. Quando “cringiamo” al comportamento di qualcun altro ci immedesimiamo in lui, proviamo una forma di empatia; proviamo un imbarazzo di cui quella persona non sembra consapevole. Anzi, quella persona sembra molto sicura di sé mentre si comporta in modo cringe, ed è questo che ci fa provare imbarazzo, ci fa “cringiare”.

 

C’è una persona che in Italia sta portando il cringe su un livello inedito, su scala nazionale, con un’estrema sicurezza in sé stesso, e questa persona è Luciano Spalletti.

 

Spalletti si è preso la Nazionale italiana col piglio di chi non deve solo allenare ma fare una rivoluzione culturale. Come i despoti illuminati, non si accontenta di governare la squadra, vuole cambiarne i gusti, gli stili di vita, la morale profonda. La serietà con cui ha preso il suo ruolo è ammirevole, ma possiede anche qualcosa di inevitabilmente comico o, meglio ancora, di cringe. Per fare la propria rivoluzione culturale Spalletti ha scelto uno stile estetico ben preciso, l’immaginario del Whatsapp dei cinquantenni: il loro linguaggio, la loro estetica, la loro ironia.

 

Abbiamo raccolto i momenti più cringe della Nazionale italiana nelle ultime settimane.

 

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Rocco Hunt canta nello spogliatoio

 

Cominciamo col dire che questo pezzo non vuole contenere nemmeno una traccia di critica a Spalletti, che sembra sapere quello che fa, e che anzi sembra aver abbracciato il cringe come strumento pedagogico. Le cose potrebbero funzionare, e forse stanno già funzionando, ma nel frattempo noi non possiamo fare a meno di cringiare.

 

Per esempio abbiamo cringiato parecchio quando Rocco Hunt si è messo a cantare nello spogliatoio accompagnato da una chitarra. L’imbarazzo qui è denso come gelatina. I giocatori sembrano in un momento interlocutorio della giornata, forse a fine allenamento, sembrano stanchi e scazzati. Non potevano organizzare il concerto in un altro momento, tipo a cena? In tanti hanno gli occhi nel vuoto, Federico Chiesa credo stia meditando. Zaccagni sembra scioccato, Bastoni fa su e giù con la testa ma sembra ironico, a Scamacca viene da ridere. Meret ha la bocca stretta, le gambe accavallate, l’aria di chi si sta sforzando di pensare alla dichiarazione dei redditi per non prestare attenzione a quello che ha attorno.

 

Spalletti guida i “bravo” finali, poi va ad abbracciare Rocco calorosamente, come fosse un suo amico di sempre; come a sottolineare che c’è appena stato un momento importante di intensità emotiva per gli azzurri.

 

Poteva andarci peggio? Fate conto che Ralf Rangnick ha portato tutta l’Austria al concerto di Rod Stewart.

 

No alla PlayStation

Cosa c’è di più cringe di un papà che pensa che suo figlio possa essere una persona migliore non giocando alla PlayStation? Di un papà che crede che guardando bene dentro certi videogiochi si possa trovare il diavolo in persona?

 

L’avversione verso la PlayStation fa parte della più generale avversione di Spalletti verso i giochi. Un’avversione che in passato lo ha portato vicino alla follia. Il fatto che i calciatori facciano tardi giocando lo fa impazzire da sempre, o almeno da quando a Roma aveva trovato una squadra totalmente in fissa con le carte da gioco. Si racconta, nella biografia di Totti, che in una trasferta a Bergamo in cui i giocatori della Roma avevano organizzato una bisca clandestina in camera, Spalletti si fosse messo schiena al muro nel corridoio dell’hotel ad aspettare che i giocatori uscissero.

 

In ritiro i giocatori hanno ottenuto un compromesso: possono giocare, ma solo nella sala giochi riservata e in determinati orari. È un divieto ragionevole: cosa c’è di più prezioso del sonno per un atleta? Le motivazioni di Spalletti però sono più profonde. La PlayStation non si limita a togliere ore di sonno ma corrompe l’anima, inquina la competitività, abbassa la tensione: «Si viene in Nazionale per vincere l’Europeo non per vincere a Call of Duty», come se le due cose non possano che essere in contraddizione. Il discorso è tutto infarcito di una retorica apocalittica: generazioni che perdono valori, rincoglionite dal cellulare, superficiali: «I ragazzi di oggi preferiscono mettere una foto su Instagram con il capello fatto piuttosto che abbassare la testa e pedalare». Voi direte: ma no, mica avrà detto proprio ‘abbassare la testa e pedalare’, e invece sì. «Si viene in Nazionale con gli occhi che ridono e con il cuore che batte e ci si sta come un branco di lupi che vanno in fila indiana per spingere il compagno davanti e non lasciare nessuno indietro».

 

Quando Spalletti dice queste cose non possiamo fare a meno di proiettare la sua faccia e la sua voce nel nostro cervello. Quel tono che da piagnucoloso diventa in un istante perentorio, fascista. Quella pomposità assurda con cui dice questo tipo di cose qualunquiste – un pensiero che più medio di così è impossibile – è ciò che ci fa cringiare – e però è anche impossibile non volergli bene. Non è che quando tuo nonno dice quelle cose pensi che sia stronzo, magari in fondo ha pure ragione.

 

Il decalogo

1. La pressione continua (Togliere fiducia)

2. Controllo del gioco (Gestione della palla)

3. Legati (Distanze di squadra, corti, vicini)

4. Riaggressione feroce (Sulla perdita di palla)

5. Ricomposizione (Tornare a casa)

6. Ordine, studio e preparazione (Per tornare a pressare)

 

Queste sei cose scritte su un foglio strappato da un blocco degli appunti e affisse nel centro sportivo. Perché proprio sei? Perché non cinque o dieci? I giocatori hanno dovuto salvarlo sul blocco schermo del cellulare? Leggono il foglio ogni volta che vanno verso quegli spogliatoi? Gli capita di pensarci? Frattesi si sarà interrogato su queste frasi? Avrà capito la differenza tra “Controllo del gioco” e “Ordine, studio e preparazione”?

 

Anche queste regole, in fondo, non esprimono certo chissà quale intuizione. Sembrano semplificare all’osso delle conoscenze tattiche che servono a una squadra di alto livello nel 2024. Eppure proprio questi sono i comandamenti: delle semplificazioni che ci ricordano delle verità profonde che non dobbiamo dimenticare. Verità che abbiamo bisogno di introiettare, di seppellire in una parte profonda di noi, che si trasformino nella nostra pelle. Un mantra, come gli alcolisti anonimi che si ripetono la filosofia di “un giorno alla volta”: un concetto semplicissimo, ma che funziona solo nella sua ripetizione. Finché, cioè, a forza di ripeterlo non entra nel nostro approccio alla vita. Questo mantra, se ho capito bene, è il pressing.

 

Se avete visto l’Italia con l’Albania vi sarete accorti che questi comandamenti stanno funzionando, e che tutto questo cringe, quindi, serve a qualcosa.

 

Gramellini dice che il calcio è finito

In questo elenco voglio includere non solo il cringe di Luciano Spalletti ma i momenti di cringe che ci sta facendo provare la Nazionale. Quei momenti in cui siamo così in imbarazzo che sentiamo un fuoco bruciare dentro di noi, il nano di Twin Peaks gridare per farci uscire dal nostro stesso corpo.

 

Massimo Gramellini l’altro giorno stava in una classe, ha parlato con dei ragazzini e ha capito che il tennis va forte, l’atletica benino e che il calcio non lo segue più nessuno. È una cosa per noi vecchi, è per questo che forse Spalletti non si fa problemi a usare un linguaggio prettamente boomer. Ai giovani il calcio non interessa, tanto vale non parlargliene.

 

Le lettere delle personalità ai giocatori

Non è chiaro perché tutto questo cringe circondi la Nazionale. Forse è un sentimento intrinseco alla funzione di questa squadra che dovrebbe riunire un popolo storicamente molto diviso, e il cringe è l’unico collante sociale che può tenerci insieme. Forse non si può fare a meno di essere cringe se si vuole parlare a tutti.

 

E dunque eccoci a questa splendida iniziativa editoriale sotto l’insegna del cringe. La Gazzetta dello Sport invita alcune “personalità” a scrivere una lettera personale a uno specifico giocatore della Nazionale. Il collegamento tra autore e giocatore è spesso ambiguo. Ecco un power ranking delle lettere più cringe dell’articolo:

 

 

Beppe Sala a Matteo Darmian

Una certa idea di milanesità, forse persino una certa idea di sinistra?

 

Massimo Gramellini ad Alessandro Buongiorno

Tifoso del Toro, il rimando è anche alla sua rubrica quotidiana del caffè?

 

Don Albertini a Federico Chiesa

Qui davvero è solo il gioco di parole tra sacerdote e chiesa, su cui Albertini ricama in modo enigmatico: “Non si gioca con il pallone in chiesa e in chiesa si invita a fare silenzio per non disturbare chi è alla ricerca della fede. Sottoscrivo tutto! Ma se Federico Chiesa prende la palla per evitare l’avversario è facile credere che trovi la porta… Forza, Fede!”.

 

Max Giusti a Bryan Cristante

Il comico definisce Cristante “concretezza assoluta”, “una sequoia del Canada”.

 

Siamo tutti dieci

Tra tutti i momenti cringe di Spalletti e della Nazionale, questo è il più enigmatico. Durante il ritiro con i pre-convocati il CT ha chiamato cinque grandi numeri 10 italiani: Rivera, Baggio, Antognoni, Del Piero, Totti. Li ha chiamati “I fantastici 10”, con una capacità prodigiosa di ricoprire di cringe ogni dettaglio. Ma perché?

 

La prima motivazione ha a che fare col feticcio boomer per eccellenza, ovvero l’album Panini: «Questa cosa qui nasce dal fatto che io ho l’album delle figurine e poterli avere tutti in una pagina è molto bello». Ok, poi? «Loro sia nella vittoria che nella sconfitta hanno dimostrato di avere un battito forte per l’azzurro, per giunta in questa stanza che rappresenta l’azzurro». Avete le idee più chiare adesso?

 

Di solito Spalletti prepara questo pastone cringe per nascondere al suo interno dei gioielli. È chiaro, Spalletti non è scemo; a volte sembra che tutto questo cringe, questo ostentato boomerismo, sia una posa. Si sente così superiore a noi che ci parla come se fossimo dei bambini di cinquant’anni. E così anche per questa storia dei 10 c’era in realtà un significato più profondo, che ha a che fare con l’evoluzione del calcio: «Sono qui i numeri 10 perché oggi in un calcio in cui non ci sono ruoli definiti, i 10 rappresentano coloro che sanno fare un po’ tutto».

 

Qui sta il fascino di Spalletti, un allenatore dal gusto strettamente contemporaneo, con una grande capacità di aggiornarsi, e poi con questa comunicazione parrocchiale, queste iniziative da oratorio, da estate ragazzi, da campo estivo alla chiesa del quartiere. Con tutto questo cringe Luciano vuole insegnarci non solo il calcio ma la vita. Parlando dei dieci: «Se tutti si prende un po’ della loro forza e si riesce a portare dentro il loro modo di giocare si diventa un pochino migliori. E siccome nel calcio sono le sfumature, questa sfumatura diventa molto importante».

 

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Emanuele Atturo è nato a Roma (1988). Laureato in Semiotica, è caporedattore de l'Ultimo Uomo. Ha scritto "Roger Federer è esistito davvero" (66thand2nd, 2021) e "Visionari, la percezione alterata degli sportivi" (Einaudi, 2024).